Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31137 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2019, (ud. 26/09/2019, dep. 28/11/2019), n.31137

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27021-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, C.F. (OMISSIS), successore

dell’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA DEI MONOPOLI DI STATO – AAMS,

DIREZIONE REGIONALE PER LA LOMBARDIA, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12,

ope legis;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO 54, presso lo studio dell’avvocato TERESA SANTULLI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONELLA GALLO;

– controricorrente –

e contro

BU.GI., S.M.G.,

SA.MA.MA.RO., V.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 726/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/08/2014 R.G.N. 391/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FABIO D’ADDARIO per delega Avvocato ANTONELLA GALLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 5 agosto 2014) respinge l’appello dell’Agenzia delle Dogane avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 6025/2011, di accoglimento integrale del ricorso proposto da B.B. e dai litisconsorti indicati in epigrafe, onde ottenere – a seguito della nascita dei propri figli negli anni dal (OMISSIS) – dalla loro datrice di lavoro, Agenzia delle Dogane, “il riconoscimento dell’incidenza” dei rispettivi permessi di allattamento, dei periodi di astensione obbligatoria per maternità e/o dei congedi parentali ai fini dell’attribuzione del diritto ai buoni pasto, all’indennità di produttività d’ufficio, all’indennità di obiettivo istituzionale, al cumulo dei periodi di riposo per allattamento con i permessi retribuiti e con i periodi di utilizzo della c.d. banca ore.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) deve essere respinto il primo motivo di gravame che riguarda l’indennità di produttività (di cui all’art. 4 del CCNL 15 gennaio 2005) in relazione ai periodi di congedo suddetti, in quanto l’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali sottoscritto il 28 maggio 2004 stabilisce che, in caso di congedo parentale e di interdizione anticipata dal lavoro, al dipendente spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa;

b) deve anche essere precisato che il CCNI dell’Agenzia delle Dogane del 29 luglio 2008 (quadriennio 2002-2005) prevede la liquidazione ai dipendenti dell’indennità di professionalità (ora indennità di obiettivo istituzionale) e dell’indennità di produttività ufficio (artt. 14 e 15);

c) quanto stabilito dall’art. 55 cit. trova anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità;

d) di conseguenza, tale equiparazione vale per la ripartizione delle componenti variabili della retribuzione, regolate dalla contrattazione integrativa, come quelle in esame;

e) le suindicate disposizioni normative e contrattuali consentono di superare l’art. 4 del CCNI 15 dicembre 2005 e l’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, secondo cui gli incentivi in questione sono da parametrare alle “ore ordinarie di servizio effettivamente prestato”;

f) invero, il suddetto criterio vale come regola generale, ma tale regola generale non trova applicazione per le ipotesi di assenza per cui è causa, come si è detto;

g) è da condividere l’equiparazione – contestata dall’Agenzia – delle ore di permesso per allattamento alle ore di effettiva presenza in ufficio effettuata dal primo Giudice a tutti i fini oggetto della presente causa;

h) ciò vale, in particolare, anche per l’erogazione dei buoni pasto, indipendentemente dal rientro in azienda e anche in assenza di pausa;

i) la suddetta equiparazione è, infatti, espressamente stabilita dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 secondo cui i permessi in questione “sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro” ed anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in tal senso;

I) non rileva, in contrario, l’eventuale mancanza di pausa, perchè la pausa costituisce un diritto del lavoratore la cui presenza in ufficio si protragga oltre le sei ore, non un onere al quale possa essere subordinata l’attribuzione dei buoni pasto, come di desume dall’art. 40 del CCNL cit.;

m) in tal senso depongono sia il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c) – che prevede l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia lo stesso art. 39 cit., secondo cui il permesso per l’allattamento implica il “diritto ad uscire dall’azienda”, diritto che non può precludere il riconoscimento del buono pasto pure in assenza di una pausa;

n) del resto, sia il Comitato Nazionale di Parità (9 marzo 1999), sia l’ARAN (nota del 15 gennaio 1999), sia il Ministero delle Attività Produttive (provv. del 2 febbraio 2006) hanno espressamente previsto la spettanza dei buoni pasto in caso di fruizione dei permessi per l’allattamento;

o) infine, il carattere generale dell’equiparazione di cui all’art. 39 cit. impone di considerare le ore di permesso per l’allattamento quali ore di effettivo servizio sia per l’attribuzione degli incentivi di cui alla contrattazione collettiva, sia per il cumulo con i periodi di fruizione delle ore accantonate nella “banca ore”, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto;

p) tale conclusione trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006;

o) per tutte le anzidette ragioni la sentenza appellata va integralmente confermata.

2. Il ricorso dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Direzione regionale per la Lombardia), rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resistono, con un unico controricorso, B.B. e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe.

3. Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente va respinta l’eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, per essere la sentenza impugnata conforme alla giurisprudenza di legittimità e non offrendosi nel ricorso argomenti validi per modificare il suddetto indirizzo.

Deve essere, infatti, precisato che tale eccezione è basata sull’erroneo presupposto dell’esistenza, con riguardo alle questioni qui dibattute, di una giurisprudenza di questa Corte “consolidata” che sarebbe stata seguita dalla Corte d’appello, mentre le questioni controverse sono da considerare per la maggior parte sostanzialmente nuove per la giurisprudenza di legittimità.

1.1. Peraltro, per costante orientamento di questa Corte, le situazioni di inammissibilità indicate nell’art. 360-bis c.p.c., comma 1, non integrano dei nuovi motivi di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto sono state configurate dal legislatore come strumenti utili alla specifica funzione di “filtro”, dei ricorsi per cassazione di agevole soluzione, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (vedi, per tutte: Cass. 29 ottobre 2012, n. 18551; Cass. 8 aprile 2016, n. 6905).

In particolare, quanto all’ipotesi di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 1 – che viene qui in considerazione – è stato precisato che la funzione di filtro dell’ipotesi di inammissibilità prevista dalla disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti” (Cass. SU 21 marzo 2017, n. 7155).

1.2. Il presente ricorso non risponde a tale schema proprio perchè le censure con esso proposte non contestano alcun orientamento “consolidato” di questa Corte cui si sarebbe uniformata la Corte territoriale ed è quindi necessario esaminarle nel merito.

2. – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5 e art. 45; del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22, comma 5, e dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2 della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008 e degli artt. 1362 c.c. e ss., con riguardo al riconoscimento dell’indennità di produttività, avvenuto in base all’art. 55 del CCNL Comparto Agenzie Fiscali del 28 maggio 2004 e al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 71 convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.

Ad avviso della Agenzia ricorrente l’interpretazione sul punto della Corte d’appello – fondata sulla equiparazione delle ore di congedo per maternità/paternità alla presenza in ufficio del dipendente, ai fini della corresponsione dell’indicata indennità – sarebbe erronea perchè, ponendosi in contrasto con la normativa invocata e in particolare con l’art. 4 del CCNI (volto a premiare la presenza dei dipendenti in ufficio, in coerenza con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5), si è tradotta nella equiparazione tra ore di assenza ed ore di lavoro effettivo, in caso di congedo parentale, per tutta la durata dei periodi cui si riferiscono le domande dei dipendenti (i cui figli sono nati negli anni dal (OMISSIS)).

Di conseguenza la Corte territoriale ha disposto la liquidazione dell’indennità di produttività – secondo il criterio adottato e contestato – anche per gli anni dal 2002 al 2006, in cui la disciplina era dettata dal citato art. 4 del CCNI, così facendo retroagire illegittimamente gli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, di cui l’Agenzia aveva dato applicazione già a partire dall’anno 2007.

Il suddetto art. 71, comma 5, ha previsto, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro nonchè al congedo di paternità.

Tuttavia tale norma non solo era priva di efficacia retroattiva, ma è stata abrogata dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, sicchè essa può essere applicata soltanto alle assenze effettuate nel periodo compreso tra la vigenza del D.L. n. 112 del 2008 e quella del D.L. n. 78 del 2009.

Di tutto questo la Corte d’appello non ha tenuto conto.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 e dell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004, in riferimento al riconoscimento dei buoni pasto.

Si rileva che tale statuizione è fondata sulla ritenuta applicabilità dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio ai fini dell’attribuzione dei buoni pasto e a prescindere dalla pausa per consumazione del pasto, mentre di tratta di un diritto riconosciuto al lavoratore a condizione che la sua presenza sul lavoro si protragga oltre le sei ore.

Si sostiene che una simile interpretazione si pone in contrasto con le norme sopra richiamate nonchè con la natura giuridica dei buoni pasto quale stabilita dalla giurisprudenza di legittimità ed indicata anche dall’ARAN (nota n. 9186 del 26 ottobre 2006).

Nè il Giudice d’appello ha correttamente valutato la posizione lavorativa dei ricorrenti – che, in ogni giornata lavorativa, hanno svolto 5,12 ore di lavoro effettivo e si sono giovati di 2 ore di riposo per allattamento – secondo le indicazioni della contrattazione collettiva.

Infatti, anche se i permessi per l’allattamento non comportano restrizioni sul fronte del trattamento retributivo, tuttavia non è ragionevole attribuire ai lavoratori che ne usufruiscono anche quegli speciali trattamenti assistenziali (quali sono i buoni pasto) previsti in favore dei lavoratori che non si allontanano dal luogo di lavoro.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 2, in riferimento al disposto riconoscimento in favore dei dipendenti di tutti gli ulteriori emolumenti richiesti, sempre sulla base dell’erronea premessa dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio.

Con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina.

Pertanto l’unica disposizione cui fare riferimento è il citato art. 39, comma 2, ove si riconosce “il diritto della donna ad uscire dall’ufficio” per fruire di brevi periodi di riposo, che concorrono nella durata dell’orario di lavoro, pur non configurandosi come attività lavorativa.

Tuttavia, dalla lettura del testo della disposizione si desume che il riconoscimento del suddetto diritto implica che l’interessata abbia fatto ingresso in ufficio o abbia effettivamente svolto la prestazione lavorativa.

Pertanto, sarebbe palesemente illegittima l’interpretazione – adottata dalla Corte d’appello – secondo cui, sulla base di tale norma, si arriva a riconoscere a dipendenti anche del tutto assenti dal servizio, per qualsiasi motivo, degli emolumenti accessori, a carattere speciale e tassativo, previsti esclusivamente per i dipendenti effettivamente presenti in ufficio.

3. – Esame delle censure.

3. L’esame delle censure porta al rigetto del primo e del terzo motivo di ricorso e all’accoglimento del secondo motivo, per le ragioni di seguito esposte.

4. Il primo motivo – con il quale si contesta il riconoscimento dell’indennità di produttività – è inammissibile per la parte in cui viene denunciata la violazione dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, in primo luogo, perchè tali censure sono proposte senza osservare il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente, qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali, è tenuto a trascriverne nel ricorso il contenuto essenziale e nel contempo a provvedere al relativo deposito insieme con il ricorso per cassazione stesso oppure a fornire alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali (di recente: Cass. SU 23 settembre 2019, n. 23552 e n. 23553).

Il suddetto principio di applica anche ai contratti collettivi integrativi perchè come chiarito da questa Corte, con un consolidato e condiviso indirizzo, l’esenzione dall’onere di depositare, unitamente con il ricorso per cassazione, il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle Amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al Comparto, pure nell’ipotesi in cui siano parametrati al territorio nazionale in ragione dell’Amministrazione interessata e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, (vedi, per tutte: Cass. 11 aprile 2011, n. 8231; Cass. 12 ottobre 2016, n. 20554; Cass. 9 giugno 2017, n. 14449).

A maggior ragione il principio suddetto trova applicazione con riguardo agli altri atti della contrattazione collettiva diversi dai contratti collettivi nazionali di lavoro, quale è nella specie la suddetta Preintesa.

4.1. La mancata estensione per i contratti integrativi dell’esenzione dal duplice onere di depositare il contratto e di riportare nel ricorso il contenuto della normativa collettiva integrativa di cui censuri l’illogica o contraddittoria interpretazione comporta anche che la denuncia di tale ultimo vizio non possa essere formulata facendo esclusivo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ma debba essere prospettata come violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss..

Ciò significa che il ricorrente non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma deve, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il Giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa da quella adottata nella sentenza impugnata (tra le tante: Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294).

4.3. Nel presente motivo la Agenzia ricorrente si è limitata ad includere, nella rubrica, gli artt. 1362 c.c. e ss. tra le norme asseritamente violate, senza alcuna successiva specificazione al riguardo, nei sensi dianzi detti, nell’ambito delle argomentazioni delle censure.

4.4. Per il resto il primo motivo non è fondato.

4.4.1. In primo luogo va precisato che nella presente controversia non viene in considerazione l’astensione facoltativa per maternità (cui fa riferimento la Agenzia ricorrente in memoria), ma quella obbligatoria oltre ai congedi di maternità, di paternità e parentali, come chiaramente indicato nella sentenza impugnata.

4.4.2. Deve anche essere osservato che l’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali del 28 maggio 2004 invocato dalla Corte d’appello ha avuto applicazione a partire dall’1 gennaio 2002, come risulta dallo stesso contratto, art. 2, comma 1 ove si precisa che: “il presente contratto concerne il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2005 per la parte normativa ed il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2003 per la parte economica”.

Pertanto, diversamente da quel che sostiene l’Agenzia ricorrente, la suindicata disposizione era applicabile anche per gli anni dal 2002 al 2006, come ritenuto dalla Corte territoriale, senza che nella sentenza impugnata sia stata effettuata alcuna illegittima retroazione degli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (di cui l’Agenzia aveva dato applicazione a partire dall’anno 2007).

4.4.3. Detto questo, dalla piana lettura dell’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali cit. risulta che, con esso, si è fra l’altro stabilito che, oltre a quanto previsto dalle disposizioni in materia di tutela della maternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, “ai fini del trattamento economico le parti concordano quanto segue: a) nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., art. 28 spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”.

Questo regime ha trovato anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità.

4.4.4. Tale comma 5 è stato abrogato dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, che ha stabilito che gli effetti di tale abrogazione dovessero concernere le assenze effettuate successivamente alla data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009 (1 luglio 2009).

Tuttavia, ai fini che qui interessano, la suddetta abrogazione non ha rilievo in quanto il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali.

Anzi nell’art. 44 del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – si riprende, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) stabilendosi che:

“1. Al personale dipendente si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, come modificato e integrato dalle successive disposizioni di legge, con le specificazioni di cui al presente articolo.

2. Nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 16,17 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”.

4.4.5. Poichè, com’è noto, la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali è da escludere che tale contrattazione possa contenere norme che non rispettino i suddetti vincoli e limiti, tanto che le clausole che siano in contrasto con essi sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

A maggior ragione, la contrattazione integrativa (al pari di quella nazionale) deve rispettare le norme di legge riguardanti le materie di propria competenza.

Ne deriva che la contrattazione collettiva integrativa, nell’assicurare livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance individuale dei dipendenti ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 e destinando al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato, grazie allo stanziamento di apposite risorse aggiuntive per la contrattazione integrativa, è tenuta all’effettivo rispetto dei principi in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance e in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche Amministrazioni (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

4.4.6. Pertanto, essa non può non rispettare la norma, introdotta dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009), secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, ivi collegata al successivo art. 19 del medesimo D.Lgs. – per questa parte non modificato dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 74, art. 13 – nell’ambito delle risorse destinate al trattamento economico accessorio, collegato alla performance, il contratto collettivo nazionale dovesse, fra l’altro, stabilire la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale.

In base al D.Lgs. n. 1 agosto 2011, n. 141 (art. 6, comma 1) è stato, fra l’altro, stabilito che la differenziazione retributiva in fasce prevista dall’art. 19 cit. e dall’art. 31, comma 2, (riguardante i dipendenti delle Regioni, degli Enti territoriali e del Servizio sanitario nazionale) dello stesso D.Lgs. n. 150 del 2009 dovesse applicarsi a partire dalla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009 (che interessa per il presente giudizio) e che, “nelle more dei relativi rinnovi contrattuali, potessero essere utilizzate le eventuali economie aggiuntive destinate all’erogazione dei premi dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 5, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111”.

Successivamente – sempre nelle more dei predetti rinnovi contrattuali e in attesa dell’applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2009 cit., art. 19 (che ha collegato l’attribuzione del trattamento accessorio alla performance individuale sulla base di criteri di selettività e riconoscimento del merito) – con il D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 5, commi da 11 a 11-sexies (entrato in vigore il 7 luglio 2012 e convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 135) è stata disposta una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

Nell’ambito di tale disciplina è stata ribadita, al suddetto art. 5, comma 11-ter l’importante e significativa norma secondo cui “nella valutazione della performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”.

Il D.Lgs. n. 25 maggio 2017, n. 14 (Modifiche al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, in attuazione dalla L. 7 agosto 2015, n. 124, art. 17, comma 1, lett. r) nel modificare il D.Lgs. n. 150 cit., art. 9 ha mantenuto fermo il suindicato comma 3, riguardante l’irrilevanza dei periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale ai fini della nella valutazione della performance individuale, irrilevanza che – in base alla ratio legis – comporta che le Pubbliche Amministrazioni, nel procedere all’anzidetta valutazione, non possono considerare negativamente le assenze dal servizio per i suddetti motivi.

4.4.7. In base a tale norma, in altre parole, se normalmente – essendo da combattere l’assenteismo – ai fini del punteggio derivante dalla valutazione degli obiettivi comuni e comportamenti organizzativi che concorre a comporre il punteggio complessivo della performance del personale non dirigente, si attribuisce rilievo anche alla regolare presenza in servizio nel tempo di lavoro (in termini cognitivi, relazionali e fisici), quando ricorrono le suddette particolari ipotesi di assenza dal servizio, l’apporto individuale della/del dipendente deve essere valutato in relazione all’attività di servizio svolta ed ai risultati conseguiti e verificati, nonchè sulla base della qualità e quantità della sua effettiva partecipazione ai progetti e programmi di produttività, prescindendo dai periodi di congedo goduti dagli interessati per le indicate finalità, cioè considerando utili (quindi come effettiva presenza) i periodi di congedo di maternità, di paternità, e parentale.

Si tratta, quindi, di un regime derogatorio (applicabile anche ai dirigenti, mutatis mutandis) che può considerarsi il frutto del bilanciamento fra più interessi di rilevanza costituzionale: da un lato il buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e il dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “di adempierle con disciplina ed onore”, di cui all’art. 54 Cost., comma 2 e dall’altro la tutela della maternità e della genitorialità in senso ampio garantita, in particolare, dagli artt. 31 e 37 Cost., oltre che dall’art. 3 Cost.

4.4.8. A tale ultimo riguardo va ricordato che la Corte costituzionale ha più volte affermato che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e facoltativa, ora denominati congedi, quello dei congedi parentali e i riposi giornalieri non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore, ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro situazione (Corte Cost. sentenza n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati, nonchè sentenze n. 105 e n. 158 del 2018 e nello stesso senso: Cass. 25 febbraio 2010, n. 4623).

4.4.9. In sintesi, dal quadro normativo e contrattuale fin qui delineato nei suoi tratti essenziali si traggono, per quanto qui interessa, le seguenti conclusioni:

a) a decorrere dall’1 gennaio 2002, in base all’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali cit. – cui correttamente ha fatto riferimento la Corte d’appello per il riconoscimento agli attuali controricorrenti dell’indennità di produttività per il suddetto Comparto è stato stabilito che, ai fini del trattamento economico, nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 compresa quindi l’interdizione anticipata dal lavoro, alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., n. 28 (Congedo di paternità), spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”;

b) ai fini della presente controversia è irrilevante la sopravvenuta abrogazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (che per la distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, di regola collegata alla presenza in ufficio, aveva sancito in via eccezionale l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità) da parte del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (abrogazione i cui effetti si sono prodotti con riguardo alle assenze effettuate successivamente luglio 2009, data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009);

c) infatti, quel che conta è che il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali, succedutasi nel tempo;

d) anzi nell’art. 44, comma 2″ del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali-Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – riprendendosi, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) si stabilisce che: “nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 16,17 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”;

e) del resto, dal punto di vista sistematico, si può ricordare che identica disposizione è anche contenuta nell’art. 43, comma 2 CCNL 21 maggio 2018 del diverso Comparto, sempre di nuova definizione, Funzioni locali (Periodo 2016-2018);

f) alla stessa ottica, per quanto riguarda la disciplina generale del lavoro pubblico contrattualizzato, risponde la norma secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009) e non modificata dal D.Lgs. n. 14 del 2017, art. 7 e da collegare al successivo D.Lgs. n. 150 cit., art. 19.

4.4.10. Di qui la spettanza dell’indennità di produttività (comunque denominata nonchè degli emolumenti analoghi) ai dipendenti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli indicati in epigrafe, visto che, in base alla suddetta normativa, ai lavoratori che fruiscono di periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa, il che (fra l’altro) esclude che ai fini della determinazione e della corresponsione dell’indennità di produttività (ma lo stesso varrebbe per l’indennità di risultato da attribuire ai dirigenti) possano essere valutati negativamente i suddetti periodi di congedo.

Tutto questo porta al complessivo rigetto del primo motivo di ricorso.

5. Per analoghe ragioni va dichiarato infondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si contesta la disposta attribuzione dei richiesti incentivi di cui alla contrattazione collettiva e il riconoscimento del possibile cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto.

5.1. Poichè, come rileva la stessa ricorrente, con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina è quindi necessario fare riferimento, prioritariamente, all’anzidetto principio generale secondo cui i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale non possono avere incidenza retributiva negativa (salvo che per particolari emolumenti), visto che anche i riposi giornalieri in parola hanno la medesima funzione dei suddetti periodi di congedo (Corte Cost. sentenze n. 179 del 1993 e n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati).

Alla luce del suddetto principio – e, si sottolinea, in assenza di norme della contrattazione collettiva sul punto – si deve leggere l’unica disposizione cui è possibile fare riferimento, che è il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, commi 1 e 2, secondo cui:

“1. Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.

2. I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall’azienda”.

5.2. Premesso che i suddetti riposi sono usufruibili anche dal padre (Corte Cost. sentenza n. 179 del 1993 nonchè Cass. 2 ottobre 1997, n. 9618), l’unica interpretazione della norma conforme al suindicato quadro normativo e contrattuale appare essere quella adottata dalla Corte d’appello, nel senso del carattere generale della equiparazione dei periodi di riposo di cui all’art. 39 cit., commi 1 e 2, alle ore lavorative “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”.

Tale equiparazione porta alla spettanza dei diritti riconosciuti al riguardo nella sentenza impugnata, mentre la lettura suggerita dall’Agenzia ricorrente in base alla quale il riconoscimento del diritto in contestazione implicherebbe che l’interessata (o l’interessato) abbiano fatto ingresso in ufficio o abbiano effettivamente svolto la prestazione lavorativa – appare porsi in contrasto con i suindicati principi che governano la materia, tanto più che l’eventuale attribuzione degli emolumenti accessori in oggetto nella peculiare ipotesi in cui la presenza in servizio venga a mancare del tutto si può verificare solo laddove il cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione copra l’intera giornata lavorativa.

5.3. Peraltro, come si sottolinea nella sentenza impugnata, la soluzione adottata dalla Corte d’appello trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006, che, come tutte le circolari della P.A. non è fonte del diritto ma può essere utile come presupposto chiarificatore della posizione espressa dall’Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889).

Ebbene, nell’anzidetta circolare, a proposito alla possibilità di cumulare le “ore di recupero” – ossia le ore espletate oltre il previsto orario giornaliero di lavoro ed accumulate con il sistema della “banca ore” – con i periodi di riposo per allattamento di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 39 e ss. si è precisato che, ai fini della fruizione di tali riposi, è possibile considerare le suddette “ore di recupero” come “ore di lavoro effettivo” in altra giornata rispetto a quella di effettuazione delle ore stesse.

Infatti, ai fini del diritto ai riposi giornalieri in argomento e al relativo trattamento economico, deve essere preso a riferimento l’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – e non l’orario effettivamente osservato in concreto nelle singole giornate. Ne consegue pertanto che i riposi in questione sono riconoscibili anche laddove la somma delle ore di recupero e delle ore di allattamento esauriscano l’intero orario giornaliero di lavoro comportando di fatto la totale astensione dall’attività lavorativa.

5.4. Va altresì ricordato che il suindicato criterio secondo cui ai fini dell’attribuzione dei suddetti riposi si deve fare riferimento all’orario giornaliero normale e non al numero di ore di lavoro in concreto effettuate nelle singole giornate, trova ampi riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 19 gennaio 1990, n. 292 e Cass. 20 dicembre 1986, n. 7800).

6. Va, infine, esaminato il secondo motivo – con il quale l’Agenzia ricorrente contesta il riconoscimento dei buoni pasto – che è da accogliere.

6.1. Per fermo indirizzo di questa Corte il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione “normale” concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 14 luglio 2016, n. 14388; Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168; Cass. 17 luglio 2003, n. 11212; Cass. 1 luglio 2005, n. 14047; Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 6 luglio 2015, n. 13841;).

Deve essere, al riguardo, precisato che il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 1) nonchè Cass. 14 luglio 2016, n. 14388 cit. nonchè Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168 cit.).

6.2. Si tratta, quindi, di un istituto che trova riscontro nella disciplina UE dell’organizzazione dell’orario di lavoro che – anche sulla base dei Trattati – è sempre stata collegata alla promozione del miglioramento dell’ambiente di lavoro, nel senso di garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (vedi, per tutti: direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. n. 8 aprile 2003, n. 66; Carta dei diritti fondamentali UE, art. 31).

Ma deve essere sottolineato che, proprio per la suindicata natura, il buono pasto non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, in quanto la sua corresponsione – quale agevolazione di carattere assistenziale – piuttosto che porsi in collegamento causale con il lavoro prestato dipende dalla sussistenza di un nesso meramente occasionale con il rapporto di lavoro, secondo la relativa configurazione della contrattazione collettiva cioè con riguardo all’orario di lavoro (settimanale e giornaliero) ivi stabilito per la fruizione dei buoni pasto, nella cornice indicata dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 8 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

In base al comma 1 di tale ultimo articolo: “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”.

6.3. Tale norma trova riscontro nel CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali cit. ove si stabilisce che l’orario ordinario di lavoro è di 36 ore settimanali è articolato su cinque giorni (art. 33, comma 1) e che se la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore continuative, il personale, purchè non turnista, imbarcato o discontinuo, ha diritto a beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto (artt. 33, comma 5, e art. 40).

Da ciò si evince che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e che tale effettuazione, a sua volta, come regola generale, presuppone che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni.

6.4. Non va del resto dimenticato che, come risulta dall’Accordo sindacale per la concessione dei buoni pasto nel Comparto Ministeri, sottoscritto in data 30 aprile 1996 – integrato dall’accordo sindacale del 12 dicembre 1996 – nell’originaria previsione della corresponsione dei buoni pasto ai dipendenti (con l’attribuzione dello stanziamento previsto dalla L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, secondo la direttiva della Presidenza del consiglio in data 7 febbraio 1996, in via preliminare rispetto alla definizione del nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro di Comparto per il biennio economico 1996-1997) è stato precisato che essa era finalizzata a “favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni dello Stato, per incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni”.

Pertanto, fin dalle prime applicazioni è stato chiaro che si trattava di un beneficio legato non alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma alle modalità concrete del suo svolgimento orario e quindi alla relativa organizzazione, essendo diretto a consentire il recupero delle energie psico-fisiche – con una pausa a ciò finalizzata e da utilizzare per l’eventuale consumazione del pasto, laddove non sia organizzato un servizio mensa – dei lavoratori destinatari di un’estensione dell’orario di lavoro, estensione diretta a incrementare la qualità e la quantità dei servizi offerti dalle pubbliche Amministrazioni, secondo gli standard esistenti in ambito Europeo.

6.5. Ne deriva che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative non può valere per l’attribuzione dei buoni pasto alle persone che si trovino delle condizioni degli attuali controricorrenti.

Del resto, come si legge nello stesso art. 39, comma 2 la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, non per le modalità concrete con le quali viene svolta la prestazione lavorativa giornaliera, dal punto di vista dell’orario effettivamente osservato dal dipendente.

In altri termini, l’art. 39 è diretto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre o del padre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire i figli, entro il primo anno di età, senza specificare la collocazione temporale dei riposi, ma limitandosi a stabilire che, qualora essi siano due, possano anche essere cumulati.

6.6. La disposizione stessa stabilisce poi la suindicata equiparazione, ma solo con riguardo alla retribuzione e alla durata del lavoro.

Dal punto di vista del trattamento retributivo, come si è detto sopra, l’indicata equiparazione, in linea generale, non consente diversità di trattamento in danno dei dipendenti che si trovino nelle condizioni degli attuali controricorrenti, salve restando situazioni particolari (come, ad esempio: i compensi per lavoro straordinario e le indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti).

Per quanto si riferisce alla “durata del lavoro” la suindicata disposizione deve essere messa in correlazione con le norme legislative e contrattuali che per tutelare gli interessi fondamentali che presiedono alla maternità/paternità – consentono agli interessati, che ne facciano richiesta, di essere favoriti nell’utilizzo dell’orario flessibile (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 3, nonchè art. 36, comma 2, CCNL Comparto Agenzie fiscali 28 maggio 2004 cit.).

6.7. E’, quindi, certamente fuori dall’ambito applicativo dell’art. 39 cit. l’attribuzione dei buoni pasto, la quale non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro e che certamente non può dirsi finalizzata a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare dei dipendenti.

Infatti, la concessione dei buoni pasto nasce dalle scelte organizzative dell’Amministrazione di appartenenza in materia di orario di lavoro dei dipendenti dirette a conciliare l’estensione dell’orario di lavoro (secondo gli standard Europei) con l’esigenza di offrire, nello stesso tempo, ai lavoratori che effettuano un orario prolungato la possibilità recuperare le loro energie psicofisiche con una pausa da utilizzare per l’eventuale consumazione di un pasto, laddove non esista un servizio mensa, sulla base della normativa UE in materia di orario di lavoro (direttive 93/104/CE e 2000/34/CE) e, in particolare, del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 di attuazione di tale normativa.

6.8. Tutto questo, con riguardo alla presente fattispecie, trova conferma nell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004 Comparto Agenzie fiscali cit. che fissa le condizioni di attribuzione dei buoni pasto, stabilendo fra l’altro che:

“1. Hanno titolo all’attribuzione del buono pasto i dipendenti del comparto delle Agenzie fiscali, aventi un orario di lavoro settimanale articolato su cinque giorni o su turnazioni di almeno otto ore continuative, a condizione che non possano fruire a titolo gratuito di servizio mensa od altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro.

2. Il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 33, comma 5 (orario di lavoro), all’interno della quale va consumato il pasto”.

Mentre il successivo art. 99, comma 4, precisa che: “l’attribuzione del buono pasto non può in alcun modo ed a nessun titolo essere sostituita dalla corresponsione dell’equivalente in denaro”.

6.9. Nè può valere in contrario il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c), – prevedente l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia perchè il suddetto decreto è stato abrogato dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 358, comma 1, lett. i) a decorrere dall’8 giugno 2011 (secondo quanto disposto dallo stesso D.P.R. n. 207 cit., art. 359, comma 1) sia perchè comunque, anche per il passato, nella gerarchia delle fonti, rispetto alla suindicata normativa è da considerare prevalente la disciplina, di origine UE, derivante dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e dalla conforme contrattazione collettiva.

6.10. Va precisato che non vi è un’incompatibilità assoluta tra la spettanza dei buoni pasto e la fruizione dei permessi per l’allattamento, ma tale spettanza dipende dalla ricorrenza in concreto dei relativi presupposti, a partire dall’osservanza di un orario effettivo praticato dall’interessata/o superiore a quello previsto per fruire della pausa.

In altre parole, non essendo il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, un elemento della retribuzione “normale”, per la relativa attribuzione si deve fare riferimento all’orario in concreto osservato nelle singole giornate lavorative e non all’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – al contrario di quanto accade ai fini del diritto ai riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39 (vedi sopra 5.3 e 5.4).

6.11. Nella presente controversia è pacifico che tutti gli attuali controricorrenti per le giornate lavorative per le quali rivendicano i buoni pasto hanno osservato, in concreto, un orario pari a 5 ore e 12 minuti, fruendo dei riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39. Pertanto sono stati effettivamente presenti nell’Azienda per un numero di ore inferiore alle sei giornaliere previste anche dal CCNL, conseguentemente non hanno maturato il diritto alla pausa ai sensi del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e del CCNL da applicare e quindi è da escludere il loro diritto all’attribuzione dei buoni pasto.

6.12. Tale conclusione, del resto, trova conferma:

a) nella recente risposta del 16 aprile 2019, n. 2 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all’Interpello promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale con riguardo al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione dei buoni pasto o alla fruibilità del servizio mensa per le lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri “per allattamento” di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39;

b) nella nota 10 ottobre 2012 n. 40527 del Dipartimento della Funzione Pubblica, ove è stato precisato che: “il diritto al buono pasto sorge per il dipendente solo nell’ipotesi di attività lavorativa effettiva dopo la pausa stessa”;

c) nelle Istruzione in data 21 gennaio 2013 fornite dall’Agenzia delle Entrate, nella quali ai fini della concessione del buono pasto ai propri dipendenti, sono considerati “presupposti imprescindibili l’effettuazione della pausa e la prosecuzione dell’attività lavorativa”.

6.13. Di qui l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, con conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata.

IV – Conclusioni.

7. In sintesi, il primo e il terzo motivo di ricorso vanno respinti, mentre il secondo motivo deve essere accolto.

8. La sentenza impugnata va quindi cassata, in relazione al motivo accolto, concernente il riconoscimento del diritto dei ricorrenti ai buoni pasto.

9. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto della domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

10. Per quanto riguarda le spese dell’intero processo, in considerazione della complessità delle questioni trattate e dell’esito complessivo della controversia, si ritiene conforme a giustizia: 1) per i gradi di merito del giudizio: confermare la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i tre quarti del totale, con compensazione del restante quarto e distrazione, ove prevista; 2) per il presente giudizio di cassazione: condannare l’Agenzia ricorrente al pagamento dei tre quarti del totale delle spese processuali come liquidate in dispositivo, con compensazione fra le parti del restante quarto e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

11. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare i seguenti principi di diritto:

a) nel lavoro pubblico contrattualizzato per il personale dipendente cui si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 i periodi di congedo per maternità, paternità e parentale nonchè riposi giornalieri di cui all’art. 39 suddetto D.Lgs. – i quali, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione – in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati, con esclusione di particolari e specifici compensi (quali, ad esempio i compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti);

b) nel pubblico impiego contrattualizzato l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e tale effettuazione, a sua volta presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva), sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni (D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8). Del resto, l’istituto dei buoni pasto è stato introdotto nel nostro ordinamento per favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni pubbliche nazionali, onde incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni. Ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che nella qualità di destinatari delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 osservano in concreto un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore. Infatti, con riguardo ai buoni pasto, non può valere l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative, come si desume agevolmente dallo stesso art. 39, comma 2 ove si precisa che la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”. L’attribuzione dei buoni pasto, non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro essendo finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla P.A. (per le suindicate finalità) con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire agli interessati il recupero delle proprie energie psico-fisiche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

Per le spese processuali così dispone:

1) per i gradi di merito del giudizio: conferma la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i 3/4 del totale, con compensazione del restante 1/4 e distrazione, ove prevista;

2) per il presente giudizio di cassazione: condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per esborsi e quantifica le spese processuali nella complessiva somma di Euro 8000,00 (ottomila/00), ponendo a carico della ricorrente i 3/4 del totale, con compensazione fra le parti del restante 1/4 e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

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