Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31078 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, (ud. 08/11/2019, dep. 28/11/2019), n.31078

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21613/2016 R.G. proposto da:

Essebiesse Medica S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Silvio

Galluzzo, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via

Giuseppe Ferrari, n. 35;

– ricorrente –

contro

Casa di cura privata Nuova Villa Claudia S.p.A., rappresentata e

difesa dall’Avv. Giuseppe Graziosi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1350/2016,

depositata il 1 marzo 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Con citazione notificata il 29/5/2008 la Essebiesse Medica S.r.l. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Casa di cura privata Nuova Villa Claudia S.p.A. chiedendo accertarsi che il rapporto contrattuale nato tra le parti in virtù di scrittura privata del 4/10/2007 (in relazione ad alcuni locali ubicati al quarto piano della stessa casa di cura, destinati alla realizzazione di un centro di medicina estetica) fosse di locazione di immobile ad uso commerciale e fosse dunque soggetto, quanto alla sua durata, alla disciplina dettata dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 27 e 29 (e non dunque alla scadenza fissata in contratto al 30/5/2008, invocata da controparte); in subordine chiese l’annullamento del contratto per vizio del consenso.

Il Tribunale rigettò la domanda e, in accoglimento invece di quella avanzata in via riconvenzionale dalla convenuta, condannò l’attrice alla restituzione delle somme da quest’ultima anticipate per custodire in deposito le attrezzature.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Roma ha respinto il gravame interposto dalla soccombente, integralmente confermando la decisione di primo grado.

3. Avverso questa decisione Essebiesse Medica S.r.l. propone ricorso per cassazione articolando cinque motivi, cui resiste la Casa di cura privata Nuova Villa Claudia S.p.A. depositando controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1 e dell’art. 189 c.p.c., per avere la Corte d’appello rigettato il primo motivo di gravame, ritenendo corretta la decisione di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato inammissibili – poichè integranti vera e propria mutatio libelli rispetto all’originario thema decidendum (limitato al solo accertamento della natura locatizia del rapporto o, in subordine, all’annullamento del contratto che vi aveva dato origine) – le domande proposte da parte attrice per la prima volta con la memoria depositata nel primo dei termini concessi ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, volte alla declaratoria della illegittimità dell’avvenuta sua estromissione dai locali e alla condanna della Casa di cura alla loro riconsegna.

Rileva che l’interpretazione dell’art. 183 c.p.c. data dai giudici di merito tradisce lo spirito della norma, in tesi diretta ad assicurare l’unitarietà della trattazione di tutte le domande connesse alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 12310 del 15/06/2015.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366 e 1414 c.c., nonchè omesso esame di fatti decisivi, per avere la Corte d’appello ritenuto, conformemente al primo giudice, che quello intercorso tra le parti fosse un contratto atipico, avente ad oggetto un’attività di collaborazione volta alla costituzione di un centro di medicina estetica, e non un contratto di locazione.

Lamenta che tale qualificazione è viziata dalla omessa considerazione ovvero dal fraintendimento di elementi significativi quali:

– la prevista corresponsione da parte di Essebiesse di un importo fisso per rimborso spese di Euro 1.500 al mese e di una percentuale del 10% sul fatturato (il primo importo essendo imputato da controparte a “canone d’affitto” nelle fatture emesse, le quali solo dopo l’inizio della causa vennero sostituite con altre in cui al posto di tale dicitura vi era quella di “prestazioni” e “rimborso spese ai sensi dell’art. 6 della scrittura privata”);

– l’assoluta autonomia di essa ricorrente nella scelta delle attrezzature e dei macchinari necessari per i trattamenti da effettuare, dei quali aveva anche interamente sostenuto le spese, senza alcun contributo di controparte (circostanze queste, sostiene, inconciliabili con la pretesa attività di collaborazione);

– la qualificazione data al rapporto dallo stesso Tribunale allorchè dichiarò inammissibile il ricorso per reintegra nel possesso proposto in corso di causa sul rilievo che “il giudizio già pendente è assoggettato al rito del lavoro”.

Deduce,quindi, la violazione dei canoni legali d’interpretazione del contratto evocati in rubrica per avere la Corte d’appello: totalmente omesso di indagare la comune intenzione delle parti (art. 1362 c.c.); omesso il doveroso collegamento tra le varie clausole al fine di individuare l’effettiva volontà delle parti (art. 1363 c.c.); violato il canone di interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.).

Deduce, infine, anche la violazione dell’art. 1414 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto valido il contratto simulato e non quello dissimulato, di cui sussistevano tutti i requisiti di sostanza e di forma.

3. Dei suesposti motivi il primo è infondato, il secondo è inammissibile.

Al di là del perpetuato riferimento alla distinzione tra non consentita mutatio libelli e consentita emendatio (della quale l’evocata Cass. Sez. U. 15/06/2015, n. 12310, ha efficacemente evidenziato l’ambiguità semantica e il connesso rischio di confusione esegetica), deve invero ritenersi corretta la valutazione dei giudici di merito circa l’inammissibilità delle domande, proposte dall’odierna ricorrente in primo grado per la prima volta con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, volte alla declaratoria della illegittimità dell’avvenuta sua estromissione dai locali e alla condanna della Casa di cura alla loro riconsegna.

Tali domande, invero, ben lungi dall’introdurre una modifica consentita della domanda originaria (di mero accertamento della natura locatizia del contratto concluso), ha dato vita ad una nuova pretesa, che, non ponendosi in posizione alternativa o sostitutiva della prima – invero rimasta ferma e inalterata – si è aggiunta a quest’ultima, con evidente vulnus difensivo per la controparte.

Ciò pone tale prospettazione al di fuori dei limiti in cui la pur lata interpretazione accolta nel richiamato arresto di Cass. Sez. U. n. 12310 del 2015 ammette, nel termine di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, la “modificazione” delle domande, ancorchè tale modifica incida sui suoi elementi identificativi (causa petendi e/o petitum).

Limiti che, in buona sostanza, stanno (non già nel fatto che le domande modificate ammesse non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì) “nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”.

La tutela di chi agisce, nei termini di un fisiologico e ragionevole aggiustamento della domanda nella fase introduttiva dedicata alla compiuta definizione del tema di lite, è dunque pur sempre correlata ad un circoscritto quadro processuale: “in pratica, con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio” anche perchè “all’esito di una udienza potenzialmente “chiarificatrice”, può risultare assai più evidente alle parti, in relazione alla situazione sostanziale dedotta in causa, la soluzione effettivamente rispondente ai rispettivi interessi e intendimenti”.

E’ dunque alla luce di tale premessa che le Sezioni Unite affermano che “l’interpretazione proposta” non “rischia di allungare i tempi del processo nel quale la modifica della domanda interviene”, proprio perchè, tra l’altro, “la domanda “modificata” sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa”.

Solo dopo avere posto questi confini – e quindi in un contesto proprio inverso rispetto a quello rappresentato nel motivo in esame che a sua volta, come si è visto, vi ha fatto riferimento – vengono dalle Sezioni Unite invocati i valori ordinamentali (“L’interpretazione adottata in questa sede risulta… maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, come già rilevato, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina anzi una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia…la previsione costituzionale di un processo “giusto” impone a giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte…”).

L’intervento delle Sezioni Unite che la corte territoriale avrebbe travisato si pone pertanto espressamente in contrasto con la prospettazione della ricorrente e in conformità invece con la decisione del giudice d’appello, poichè la modificazione della regiudicanda nei limiti dell’udienza e delle memorie previste dall’art. 183 c.p.c. non include l’introduzione di ulteriori domande accanto a quella originaria e – modificata o no – mantenuta (che un’ulteriore domanda non possa essere aggiunta, anzichè sostituire la domanda originaria, dopo l’intervento nomofilattico del 2015 appena illustrato è stato, come detto, più volte ribadito delle sezioni semplici: v. ex multis Cass. 13/09/2019, n. 22865; 24/04/2019, n. 11226; 26/06/2018, n. 16807; 09/02/2018, n. 3254; 31/07/2017, n. 18956; 26/02/2016, n. 3806).

4. Il secondo motivo è poi, come detto, inammissibile, poichè si risolve nella mera sollecitazione di una nuova valutazione di merito non consentita in questa sede.

Mette conto al riguardo ricordare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione (nei limiti, peraltro, in cui l’allegazione è oggi consentita dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Pertanto, onde far valere in cassazione tali vizi della sentenza impugnata, non è sufficiente che il ricorrente per cassazione faccia puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma è altresì necessario che egli precisi in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato ovvero ne abbia dato applicazione sulla base di argomentazioni censurabili per omesso esame di fatto controverso e decisivo (v. Cass. 20/08/2015, n. 17049; 09/10/2012, n. 17168; 31/05/2010, n. 13242; 20/11/2009, n. 24539); con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o sul vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536).

Sul punto, va altresì ribadito il principio secondo cui, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che l’interpretazione data alla dichiarazione negoziale dal giudice del merito sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma è sufficiente che sia una delle possibili e plausibili interpretazioni.

Nella specie, non si ricava dalla motivazione della sentenza alcuna affermazione che si ponga in contrasto con i criteri legali di ermeneutica negoziale.

Piuttosto le censure mosse col ricorso si risolvono, come detto, nella prospettazione di questioni di merito, comunque eccedenti dai limiti in cui al riguardo ne è consentita la deduzione: in ultima analisi nella mera assertiva contrapposizione di un esito diverso dell’attività esegetica riservata al giudice del merito e legittimamente nella specie compiuta.

Le censure non riescono peraltro affatto a dimostrare le ragioni per le quali una interpretazione secondo la comune intenzione delle parti e secondo la coesione sistematica delle clausole cui esse sono in particolare riferite dovrebbe univocamente portare al risultato esegetico auspicato e, per converso, la diversa interpretazione accolta dovrebbe considerarsi in violazione dei relativi criteri.

4.1. Varrà comunque osservare che la Corte territoriale motiva ampiamente (v. pagg. 10 – 11 della sentenza), e nel pieno rispetto di detti criteri, le ragioni del proprio convincimento, evidenziando sia gli elementi che in positivo lo giustificano (parte argomentativa, questa, con la quale la ricorrente omette del tutto di confrontarsi), sia, in negativo, le ragioni per le quali non possono ritenersi rilevanti gli elementi di contro valorizzati dall’odierna ricorrente a fondamento della opposta tesi: e si tratta degli stessi elementi di cui la ricorrente in questa sede lamenta – del tutto infondatamente, dunque – l’omesso esame.

Si evidenzia in particolare in sentenza (v. pag. 10, ultimo cpv.) che “la Casa di cura si impegnò alla fornitura di specifici servizi tipici delle strutture ospedaliere (quali il servizio di pulizia degli ambienti, di lavanderia…, di smaltimento di rifiuti ordinari e speciali, di messa a disposizione della linea telefonica in entrata),… che arricchirono ulteriormente l’obbligo contrattuale dell’… appellata, assunto in vista della creazione di un centro medico qualificato, direttamente seguito da persona di estrema fiducia della clinica, caratterizzato da autonomia gestionale della Essebiesse, ma soggetto a un potere di vigilanza e di controllo della Direzione sanitaria della struttura ospitante, libera di “impartire, a suo insindacabile giudizio, tutte le disposizioni” ritenute più opportune. Si trattò, quindi, di un progetto concordato su cui entrambe le parti puntarono, scommettendo sui reciproci apporti, come evincibile anche dal corrispettivo convenuto tra le stesse, che non si limitò al versamento, in favore della Casa di cura ospitante, di una somma mensile fissa, ma previde anche il pagamento del 10% del possibile fatturato”.

Si osserva quindi che “tale obiettiva realtà, non può ovviamente essere posta in discussione dall’avvenuto inserimento, in alcuni successivi documenti di valenza squisitamente fiscale (quali le fatture emesse dalla Casa di cura), di causali normalmente riferibili ad un semplice rapporto locatizio, proprio alla luce dei chiari accordi intercorsi tra le parti e delle conseguenti modalità di esecuzione del rapporto”.

A fronte di un tale completo e intrinsecamente coerente impianto argomentativo la censura palesa un contenuto meramente fattuale ed assertivo/oppositivo.

4.2. Palesemente inammissibile è poi il riferimento, tra le norme asseritamente violate, anche all’art. 1414 c.c., trattandosi di questione (quella della presunta simulazione del contratto) che del ricorso non risulta affatto affrontata in sede di merito e della quale la ricorrente omette di indicare, tantomeno nel rispetto degli oneri di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, sede processuale, tempo e modo di prospettazione.

Giova sul punto rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (v. da ultimo, ex aliis, Cass. 24/01/2019, n. 2038).

4.3. Alla luce delle esposte considerazioni può incidentalmente notarsi, tornando alla questione posta con il primo motivo, che quand’anche le domande aggiuntive proposte con le memorie di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, avessero potuto considerarsi ammissibili, le stesse, atteso il loro carattere accessorio e dipendente dalla domanda originaria, avrebbero comunque dovuto essere rigettate.

E’ evidente infatti che, rimanendo confermata, in base alla detta interpretazione del contratto, la legittimità del recesso della Casa di cura alla scadenza fissata in contratto del 30/5/2008, la pretesa petitoria di Essebiesse Medica S.r.l. (veicolata dalle dette domande accessorie) di essere riammessa all’utilizzo dei detti locali successivamente a detta scadenza non trovava alcun titolo legittimante e avrebbe dovuto pertanto essere, comunque, disattesa.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1427,1428,1429,1431,1439 e 1362 c.c.), nonchè omesso esame di fatti decisivi, in relazione al confermato rigetto della subordinata domanda di annullamento del contratto per vizio del consenso.

Premesso che il contratto intercorso tra le parti prevedeva una durata di circa sei mesi, con la testuale precisazione però che “al termine di tale periodo le parti concorderanno se proseguire o meno il rapporto ed a diverse condizioni” e che le dette condizioni “sono state concordate al fine di favorire l’avviamento della nuova attività”; ciò premesso, deduce la ricorrente di essersi determinata all’acquisto di macchinari molto costosi nella convinzione che la disponibilità dei locali sarebbe proseguita ben oltre il termine dei sei mesi, ritenendo “ovvio” che dopo “l’avviamento della nuova attività” vi sarebbe stato un seguito, seppure a “diverse condizioni”.

Sostiene quindi che: “una convenzione del genere, anche se contraddetta dalla previsione contrattuale, non poteva che essere determinata da un errore, probabilmente indotto dall’altra contraente”; trattavasi di errore essenziale sulla natura e sull’oggetto del contratto, nonchè sull’identità dell’oggetto della prestazione, e riconoscibile.

Argomenta al riguardo che, se nell’interpretare il contratto si fosse valutato il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla sua conclusione, non era possibile ritenere che il corrispettivo fisso mensile di Euro 1.500 al mese potesse essere considerato un mero rimborso spese ovvero che solo un vizio del consenso avrebbe potuto spiegare l’assunzione di costi tanto rilevanti con il rischio di potere utilizzare il centro di medicina estetica solo per sei mesi.

6. Il motivo è inammissibile.

Giova premettere che la rilevanza dell’errore, come causa di annullamento del negozio, è caratterizzata dal duplice profilo della sua essenzialità e della riconoscibilità, intesa, quest’ultima, come capacità di rilevazione di esso da parte di una persona di media diligenza, in relazione sia alle circostanze del contratto che alle qualità dei contraenti. A tale riconoscibilità è legittimamente assimilabile, quoad effectum, la concreta ed effettiva conoscenza dell’errore da parte dell’altro contraente, attesa la ratio della norma di cui all’art. 1431 c.c., volta a tutelare il solo affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione negoziale viziata nel processo formativo della sottostante determinazione volitiva (v. Cass. Sez. U. 01/07/1997, n. 5900).

La valutazione del giudice del merito circa la riconoscibilità dell’errore – secondo il criterio della comune diligenza – da parte dell’altro contraente, o circa l’effettiva conoscenza (che assorbe e supera la mera riconoscibilità) dell’errore stesso da parte del medesimo soggetto, si risolve in un apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. 29/06/1985, n. 3892).

Nel caso di specie la Corte territoriale esprime sul punto una valutazione negativa (di insussistenza cioè del dedotto vizio del consenso) di cui fornisce ampia motivazione.

Si rileva infatti in sentenza che “all’esito dell’esame del testo contrattuale, caratterizzato da particolare chiarezza, deve escludersi che l’adesione della Essebiesse al progetto professionale e commerciale ivi descritto possa essere avvenuta in ragione di ipotetici artifizi o raggiri posti in essere dalla Casa di cura o a causa di un errore – di fatto o di diritto – essenziale e riconoscibile. Infatti, la clausola contenente la previsione del termine finale del rapporto non solo risulta di evidente comprensibilità, ma si deve ritenere che sia frutto di una specifica valutazione di entrambi contraenti, i quali addirittura esclusero la possibilità di un suo tacito rinnovo, in linea con la chiara previsione contenuta nell’inciso finale dell’art. 12 del contratto, con cui le parti si davano reciprocamente atto che “le condizioni” dell’accordo erano “state concordate al fine di favorire l’avviamento dell’attività”, rimanendo riservata ogni valutazione circa l’eventuale concorde decisione di “proseguire o meno il rapporto” e, eventualmente, a quali condizioni. Pertanto, si deve ritenere che entrambe le parti abbiano consapevolmente e liberamente fissato il termine di scadenza del rapporto al 30/5/2008, preferendo, alla luce di una successiva valutazione del margine di successo dell’intrapreso progetto, riservarsi entrambe (e non solo la Casa di cura) la facoltà di proseguire o meno il rapporto” (v. sentenza, pagg. 11-12).

Anche in tal caso le censure mosse a tale parte della sentenza si appalesano di contenuto fattuale e meramente oppositivo, ben distante sia dal paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sia, a maggior ragione, da quello ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di falsa applicazione delle norme in tema di annullamento o interpretazione del contratto.

Gli argomenti critici si appalesano anzi, tanto più alla luce dei ricordati requisiti di rilevanza del dedotto vizio del consenso, intrinsecamente contraddittori (risultando espressamente ammesso in ricorso che la proposta lettura della convenzione è “contraddetta dalla previsione contrattuale”) e comunque essenzialmente ispirati a una soggettiva valutazione della convenienza dell’affare, del tutto irrilevante sul piano morfologico della validità del contratto.

7. Con il quarto motivo Essebiesse Medica S.r.l. denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, falsa applicazione di norme di diritto (artt. 163,183 e 189 c.p.c.), nonchè omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione al rigetto del quarto motivo di gravame con il quale essa aveva reiterato l’eccezione di inammissibilità, per indeterminatezza, della domanda riconvenzionale accolta dal primo giudice (relativa al preteso rimborso della somma di Euro 1.560 spesa per trasporto e deposito dei materiali di proprietà di essa ricorrente) e ne aveva comunque eccepito l’infondatezza per difetto di prova.

7.1. Sotto il primo profilo la ricorrente, riproponendo le argomentazioni che assume erroneamente disattese dalla Corte d’appello, rileva che l’importo preteso in restituzione non era stato precisato nell’atto di citazione (recte: nella comparsa di costituzione di controparte), nè nel termine di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, nè in sede di precisazione delle conclusioni.

7.2. Sotto il secondo, contesta l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui le fatture e i bonifici attestanti l’esborso sostenuto dalla Casa di cura vennero regolarmente prodotti, quali documenti sopravvenuti, in occasione del deposito delle memorie ex art. 183 c.p.c., rilevando che in realtà queste furono prodotte solo all’udienza del 26/5/2009, successiva al deposito delle suddette memorie.

8. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia infine, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione di legge (artt. 2699 c.c. e ss, in tema di prova documentale), nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte d’appello confermato l’accoglimento della detta domanda riconvenzionale omettendo di considerare che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, nel verbale del 23/4/2009 (redatto in occasione del ritiro dei mobili e delle attrezzature depositate presso terzi), non vi era stato alcun riconoscimento da parte di essa ricorrente del relativo credito.

9. Il quarto motivo è inammissibile.

9.1. Quanto alla prima doglianza, relativa al rigetto della reiterata eccezione di inammissibilità, per indeterminatezza, della domanda riconvenzionale di controparte, deve anzitutto rilevarsi la violazione dell’onere, imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, di specifica indicazione dell’atto su cui il ricorso si fonda, ossia della comparsa di costituzione di controparte in primo grado, contenente la domanda cui l’eccezione è riferita.

Occorre rilevare al riguardo che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)(Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; v. anche Cass. 17/01/2014, n. 896).

9.2. Mette conto comunque rammentare che la nullità dell’atto introduttivo, per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per omessa esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la domanda stessa si fonda, sussiste solo quando l’individuazione di tali elementi sia impossibile anche attraverso l’esame complessivo dell’atto, riservato al giudice del merito (v. Cass. 18/11/1987, n. 8456).

La sola mancata quantificazione delle spese sostenute per la custodia delle attrezzature non può dunque costituire causa di nullità della domanda per indeterminatezza, ove siano comunque precisati i fatti costitutivi del preteso credito e forniti i dati oggettivi sulla cui base pervenire alla relativa quantificazione.

9.3. E’ altresì inammissibile il secondo profilo di doglianza.

La Corte di merito ha sul punto rilevato che “il trasferimento delle attrezzature di proprietà della Essebiesse venne concretamente effettuato solo dopo l’introduzione del giudizio, e… le fatture e i bonifici attestanti l’esborso sostenuto dalla Casa di cura, aventi efficacia probatoria, vennero regolarmente prodotti – quali documenti sopravvenuti – in occasione del deposito delle memorie ex art. 183 c.p.c.”.

Al di là dell’equivocità di tale ultima locuzione (“in occasione del…”), il nucleo della giustificazione può cogliersi nel riferimento al fatto che si trattava di “documenti sopravvenuti”, con ciò evidentemente intendendosi affermare che l’ammissione della prova documentale traesse la propria giustificazione dalla sopravvenienza dei fatti da provare, sull’implicito presupposto dunque di una accordata rimessione in termini (ex art. 184-bis, ratione temporis applicabile).

Rispetto a tale motivazione il solo rilievo che a quel momento erano già maturate le preclusioni processuali poste per le richieste istruttorie si rivela inconferente, dal momento che:

a) quella (motivazione) prescinde, per l’appunto, da tale dato processuale;

b) si sarebbe pertanto, semmai, trattato di contestare la tempestività della produzione poichè, in ipotesi, non avvenuta alla prima udienza successiva al fatto sopravvenuto cui essa era riferita o perchè effettuata in virtù di una rimessione in termini irritualmente accordata in assenza dei relativi presupposti o senza l’osservanza del relativo procedimento.

Temi questi però totalmente diversi da quelli posti dalla ricorrente con il motivo in esame.

10. E’ infine inammissibile il quinto motivo.

La circostanza di cui si lamenta l’omessa considerazione (ossia l’assenza, nel verbale del 23/4/2009, di ritiro dei mobili e delle attrezzature, di alcun impegno di Essebiesse Medica a corrispondere alcunchè a Nuova Villa Claudia), al di là di ogni altro rilievo, non ha evidentemente carattere decisivo, dal momento che la Corte di merito ha fondato l’espresso convincimento circa la fondatezza della pretesa di rimborso in via riconvenzionale dedotta dalla convenuta/appellata, in termini esaustivi e autonomi, sulle fatture e sui bonifici attestanti l’esborso sostenuto dalla Casa di cura, senza alcun riferimento alle dichiarazioni contenute nel predetto verbale.

11. Per le considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA