Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31075 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, (ud. 17/10/2019, dep. 28/11/2019), n.31075

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26412-2018 proposto da:

T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIACOMO

PUCCINI, 9, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO RUVITUSO,

rappresentato e difeso dagli avvocati MAURIZIO LOJACONO, FRANCESCO

MARESCALCO;

– ricorrente –

contro

TIEMME RACCORDERIE SPA, in persona del Presidente del Cda

G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. NICOTERA, 29, presso

lo studio dell’avvocato FRANCA VALENTINA CARLA ACCIARDI,

rappresentata e difesa dagli avvocati ENRICO CARLO ADOLFO PEREGO,

FLAMINIO VALSERIATI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1060/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 21/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/10/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

che:

1. T.M. ricorre affidandosi a due motivi per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Brescia che, confermando la pronuncia del Tribunale, aveva accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo emesso in suo favore e contro la Tiemme Raccorderie Spa sulla scorta della preclusione derivante dagli effetti del giudicato portato da altra sentenza, avente per oggetto la medesima pretesa azionata nella controversia in esame.

2. Ha resistito la società intimata.

3. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. La complessità della controversia rende opportuna una breve sintesi dei fatti, per meglio inquadrare le questioni di diritto che devono essere esaminate.

1.1. T.M., socio ed amministratore unico della TIEMME Raccorderie srl sottoscrisse una transazione a definizione di alcune controversie giudiziali e stragiudiziali in cui si prevedeva sia il suo impegno a dare mandato irrevocabile alla Banca Nazionale del Lavoro per la realizzazione del valore dei titoli da lui dati in pegno per l’importo di Lire 250.000.000 a riduzione dell’esposizione debitoria della società, sia la rinuncia a richiederne il rimborso.

Tale transazione prevedeva anche la devoluzione ad un collegio arbitrale di qualsiasi controversia fosse insorta.

1.2. Successivamente, la società partecipò ad una operazione di fusione per incorporazione, comprensiva anche della società Emmefin Srl e l’incorporante assunse la denominazione Tiemme Raccorderie Spa.

Su richiesta del T. iniziò un giudizio arbitrale ed il lodo conclusivo dichiarò la nullità della transazione: il T., dunque, richiese ed ottenne quattro decreti ingiuntivi (n. 1402 – 1527 -1528 – 1529/2000) nei confronti della Tiemme Raccorderie Spa anche per il recupero della somma sopra indicata, visto che il lodo arbitrale aveva dichiarato la nullità della transazione con la quale egli aveva rinunziato alle pretese restitutorie nei confronti della società, relative all’escussione del pegno da lui costituito in favore della BNL.

1.3. Per ciò che interessa in questa sede, l’opposizione proposta venne accolta ed il decreto ingiuntivo n 1529/2000 avente per oggetto l’importo sopra indicato venne dichiarato nullo con sentenza definitiva del Tribunale di Brescia (essendo stato rigettato sia l’appello che il ricorso per cassazione) che affermò la propria incompetenza a conoscere nel merito le domande dell’odierno ricorrente.

1.4. Successivamente, il T. richiese ed ottenne un altro decreto ingiuntivo (n 306/2014) per la somma di Euro 129.114,22 (pari a Lire 250.000.000,00) oggetto del presente giudizio: il Tribunale accolse l’opposizione proposta dalla incorporante Tiemme Raccorderie Spa, affermando che la domanda era sovrapponibile a quella riguardante il precedente provvedimento monitorio con gli effetti e le preclusioni del giudicato.

1.5. La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Brescia, con reiterata condanna per lite temeraria.

2. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 2871 c.c., comma 1 e art. 2504 bis c.c.; lamenta che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che fra il decreto ingiuntivo n 1529/2000 e quello (n 306/2016) oggetto della presente controversia vi fosse identità di petitum e causa petendi e che, quindi, la pronuncia definitiva sul primo determinava sul secondo gli effetti preclusivi del giudicato.

2.1. Assume che la controversia in esame, diversamente da quella che aveva per oggetto l’opposizione al decreto ingiuntivo n 1529/2000, non traeva origine dalla transazione a suo tempo stipulata, ma era stata proposta in applicazione dell’art. 2871 c.c., comma 1 che ben poteva essere invocato nei confronti della Spa incorporante e che, pertanto, presentava una domanda avente una diversa causa petendi.

2.3. Deduce, in sostanza, che le azioni verso la società per azioni incorporante, quale controparte della transazione in quanto successore di Emmefin Srl, rimanevano subordinate al giudizio arbitrale, mentre quelle verso la Tiemme Raccorderie Spa in qualità di successore della posizione sostanziale di Tiemme Raccorderie Srl – in quanto del tutto estranee alla transazione e, perciò, non assoggettate alla clausola compromissoria (cfr. pag. 17 del ricorso) e regolate, quindi, soltanto dalla norma disciplinante l’effetto successorio della fusione, unitamente a quella che regolava il diritto di regresso nei confronti del (nuovo) debitore – restavano di competenza della giurisdizione ordinaria.

2.4. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Infatti, nonostante che il giudicato debba essere assimilato agli elementi normativi, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici e che “il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno, con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito” (cfr. Cass. 21200/2009; cass. 15339/2018), si osserva tuttavia che la censura non ha pregio in quanto la prospettata scissione della posizione processuale della Tiemme Raccorderie Spa risulta eccentrica proprio rispetto al fenomeno successorio disciplinato dall’art. 2504 bis c.c..

2.5. Questa Corte ha avuto modo di affermare che nell’ipotesi, come quella in esame, di fusione per incorporazione antecedente l’introduzione dell’art. 2504 bis c.c. (1 gennaio 2004), la società incorporante subentra in tutti i rapporti giuridici di quella incorporata, così come nei giudizi pendenti, che proseguono automaticamente nei suoi confronti, senza alcuna interruzione ai sensi degli artt. 299 c.p.c. e ss., anche se la società incorporata deve ritenersi estinta, sicchè, in tal caso, la sentenza emessa nei confronti di un soggetto diverso da quello nei cui confronti era stata proposta l’azione non determina alcuna violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sul piano soggettivo, in relazione all’individuazione delle parti processuali. (cfr. Cass. 21842/2016).

2.6. Tale principio, utile per inquadrare la vicenda in esame, consente di ritenere che la disposizione che il ricorrente ritiene essere stata violata dalla Corte territoriale (art. 2871 c.c.) non poteva avere alcuna applicazione nella presente controversia se non al fine di assecondare una strumentale interpretazione della norma volta ad eludere i principi fondamentali del sistema processuale, fra i quali quello del giudicato che rappresenta un cardine predisposto a garantire la stabilità delle decisioni e la certezza dei rapporti giuridici.

2.7. Sulla base di tali premesse, si osserva che la tesi del ricorrente non coglie e non critica coerentemente la ratio decidendi della sentenza impugnata che ha accertato, sulla scorta di un ragionamento logico e fondato su un accurato esame delle emergenze processuali, che l’oggetto delle controversie – che traevano origine da due decreti ingiuntivi emanati sulla scorta di ricorsi aventi i medesimi petitum e causa petendi – era esattamente lo stesso.

2.8. E’ stato al riguardo affermato, con orientamento ormai consolidato che “in tema di giudicato esterno, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico o titolo negoziale, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, tale accertamento in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto o di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, ne preclude il riesame, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo” (cfr. ex multis Cass. SU 13916/2006; Cass. 24433/2013);

2.9. Tale accertamento, oltretutto, in quanto fondato sulla qualificazione delle due domande è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione: la censura, dunque, si risolve, nel caso in esame, soltanto in una contrapposta interpretazione degli atti e fatti processuali rispetto al percorso argomentativo della Corte territoriale, ben al di sopra della sufficienza costituzionale, e non può trovare ingresso in questa sede in quanto si tradurrebbe nella celebrazione di un non consentito terzo grado di merito (cfr. Cass. 8758/2017; Cass. 18721/2018).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 96 c.p.c..

Lamenta che l’azione proposta era stata “degnamente motivata da un approfondito ragionamento giuridico” e che erano stati forniti tutti gli argomenti documentali ed argomentativi, utili a valutare la sussistenza del giudicato in base alla qualificazione da attribuirsi all’azione monitoria” (cfr. pag. 23 del ricorso).

3.1. Il motivo è infondato.

L’abuso del processo riscontrato, a fronte di altra condanna temeraria in primo grado sulla medesima questione, costituisce, invero, una motivazione sulla quale si fonda la corretta applicazione della norma.

Si osserva, al riguardo, che tutte le argomentazioni spese dalla Corte territoriale sono logiche e basate sui presupposti applicativi dell’art. 96 c.p.c. che trovato specifica ratio, nel caso in esame, proprio nella prospettazione di una nuova domanda, sovrapponibile a quella sulla quale erano stati celebrati due gradi di giudizio oltre che quello di legittimità, che viene riproposta a distanza di oltre dieci anni.

3.2. E’ stato, al riguardo, affermato il principio, condiviso da questo Collegio, secondo cui “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonchè interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sè legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede nè la domanda di parte nè la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (cfr. Cass. SU 22405/2018).

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

6. Da quanto sopra argomentato, deriva, inoltre, che anche in relazione al presente giudizio ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., u.c. (al riguardo, cfr. Cass. 10327/2018; Cass. 5725/2019 delle quali si richiama ala motivazione) trattandosi di ricorso avverso una sentenza pienamente esplicativa delle ragioni del rigetto rispetto alla quale i motivi proposti risultano gravemente erronei e non più compatibili con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie: in tale contesto, questa Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario (Cass. n. 10177 del 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr Cass. SSUU. 12310/2015 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

6.1. Deve pertanto concludersi per la condanna del ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore della controparte, a titolo di risarcimento per il danno da lite temeraria, di una somma equitativamente determinata in Euro 5000,00, pari, all’incirca, in termini di proporzionalità (cfr. Cass. SU 16601/2017) alla metà del massimo dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 8200,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre ad accessori e rimborso spese generali nella misura di legge.

Condanna, altresì, il ricorrente ex art. 96 c.p.c. al risarcimento del danno per lite temeraria che liquida in Euro 5000,00.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 19 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

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