Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3107 del 10/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 10/02/2020, (ud. 10/01/2020, dep. 10/02/2020), n.3107

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3419-2019 proposto da:

A.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO BORSIERI

12, presso lo studio dell’avvocato ANGELO AVERNI, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONIOVITO ALTAMURA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO

DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI LECCE;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 10/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. IOFRIDA

GIULIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Lecce, con decreto n. 3173/2018, ha respinto la richiesta di A.B., cittadino del Ghana, di protezione internazionale, a seguito di diniego da parte della Commissione territoriale competente.

In particolare, il Tribunale, a seguito di udienza di comparizione delle parti, ha ritenuto che la vicenda personale riferita dal richiedente (essere di fede cristiana ed essere stato costretto a lasciare il Paese, per contrasto, dopo la morte del padre, ucciso da persone rimaste ignote, insorto con la matrigna ed a causa del timore di incontrare nuovamente l’uomo che lo aveva economicamente aiutato a raggiungere la Libia), anche ove credibile, quanto al riconoscimento dello status di rifugiato, non integrava i presupposti di legge; neppure ricorrevano le condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria o umanitaria; in particolare, quanto a quest’ultima, non vi erano oggettive e gravi situazioni personali, ostative al suo rientro nel Paese d’origine, non vi erano situazioni di vulnerabilità in relazione ai legami familiari in Italia o al percorso di integrazione ivi avviato (in ogni caso, da solo insufficiente) o alla situazione del Ghana, alla luce del Report di Amnesty International 2017.

Avverso la suddetta sentenza, A.B. propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti. Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con unico motivo, in relazione alla sola richiesta di protezione umanitaria, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3. In sostanza, si lamenta che il Tribunale avrebbe trascurato di considerare la situazione di speciale vulnerabilità personale, correlata all’oggettiva situazione del Ghana ed il percorso di integrazione avviato in Italia.

2. Il motivo è infondato.

Il Tribunale ha ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali, essendo state evocate mere difficoltà economiche.

La pronuncia risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Ora, il ricorrente non ha dedotto alcunchè quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi ad un riferimento generico alla attuale situazione del Ghana (peraltro con recente D.M. 4 ottobre 2019 inserito nella lista dei Paesi sicuri).

Il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz’altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente: tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 2007, art. 5, comma 6, che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei “seri motivi” attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare i suddetti fattori di vulnerabilità (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Inoltre, l’accertata – da parte del giudice – situazione sostanzialmente stabile, dal punto di vista della violenza e degli scontri armati, nella regione di provenienza dell’istante, e che ha indotto il Tribunale a denegare la protezione sussidiaria, con statuizione non impugnata in questa sede dal ricorrente, non impedirebbe di certo al medesimo, stante la sua giovane età e le sue buone condizioni di salute, il reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese; nè in questa sede il ricorrente ha fornito elementi che consentano una diversa valutazione, essendosi limitato ad allegare di avere intrapreso un ” fattivo percorso di integrazione in Italia”.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020

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