Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31063 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, (ud. 26/09/2019, dep. 28/11/2019), n.31063

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7259-2018 proposto da:

ABBANOA SPA, in persona dell’Amministratore Unico e legale

rappresentante pro tempore Dott. R.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SARDEGNA 14, presso lo studio

dell’avvocato ERNESTO STAJANO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DANIELE VILLA;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO INDUSTRIALE PROVINCIALE DI SASSARI, in persona del

Presidente del Consiglio di Amministrazione Dott. T.P.,

domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI

CASSAZONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SPANU STEFANIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 455/2017 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI

SASSARI, depositata il 24/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/09/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Abbanoa S.p.a. ricorre per la cassazione della sentenza n. 455/2017 della Corte d’Appello di Cagliari pubblicata il 24 settembre, avvalendosi di due motivi. I Resiste con controricorso il Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, già Consorzio A.S.I.

All’origine della vicenda ci sono i decreti n. 2342/2013 R.G. e n. 3760/2013 R.G., con cui il Consorzio Industriale provinciale di Sassari ingiungeva alla società Abbanoa il pagamento di Euro 5.274.443,83 dovuti per i servizi di depurazione delle acque svolti nel comune di (OMISSIS) negli anni 2010-2013.

La Società Abbanoa espone in fatto di essere il soggetto che l’ATO della Sardegna, sulla scorta della L.R. n. 29 del 1977, nel rispetto della L. n. 36 del 1994, aveva deputato, con Delib. n. 25 del 2004, alla gestione del servizio idrico integrato.

Data la mancata attuazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 172, comma 6, (Codice dell’Ambiente), che prevede il trasferimento in concessione d’uso al gestore del servizio idrico integrato degli impianti di acquedotto, fognatura e depurazione gestiti dai consorzi per le aree ed i nuclei di sviluppo industriale, il Consorzio Industriale provinciale di Cagliari avrebbe continuato a svolgere di fatto l’attività di gestione fognaria e di depurazione dietro corresponsione, da parte dell’odierna ricorrente, di una quota della tariffa unica, calcolata ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 155 per il servizio idrico integrato da essa riscossa, ai sensi del D.Lgs. n. n. 152 del 2006, art. 56.

Pertanto, la ingiunta proponeva opposizione e chiedeva la revoca dei due decreti ingiuntivi, assumendo che le somme erano state determinate utilizzando parametri diversi da quelli previsti dalla legge, che le fatturazioni, peraltro contestate nell’an e nel quantum, avevano erroneamente fatto riferimento al volume dei reflui trattati, senza alcuna verifica della funzionalità dei contatori, che, nonostante l’annullamento delle fatture n. (OMISSIS), le somme relative erano state azionate con il decreto ingiuntivo n. 3243/2013, che la documentazione prodotta a supporto dei decreti ingiuntivi non era quella richiesta dall’art. 634 c.p.c., che mancava la prova delle quantità registrate dai contatori, che il decreto n. 941/2013 era illegittimo perchè, in violazione del divieto di anatocismo, ingiungeva il pagamento di interessi non solo sul capitale, ma anche sugli interessi maturati prima dell’avvio della procedura monitoria, che il Consorzio era debitore di Euro 14.076,49 per due fatture insolute.

Il Tribunale di Sassari, con sentenza n. 1424/2015, previa riunione delle opposizioni avverso i decreti ingiuntivi nn. 941/2013 e 1257/2013, le rigettava entrambe, unitamente alla domanda riconvenzionale dell’odierna ricorrente che veniva condannata alla rifusione delle spese del giudizio.

La sentenza veniva impugnata dalla società Abbanoa dinanzi alla Corte d’Appello di Cagliari, per errata individuazione da parte del giudice di prime cure della normativa applicabile per individuare i criteri di calcolo del corrispettivo dovuto per il servizio di depurazione, per errata valutazione della documentazione prodotta dal Consorzio, in quanto priva della sottoscrizione del gestore del servizio idrico integrato o di persona da esso autorizzata, per erronea valutazione dell’eccezione di difetto di prova in riferimento ai verbali di constatazione, per erroneo rigetto della richiesta di revoca del decreto ingiuntivo n. 941/2013, per omessa pronuncia sulla richiesta di revoca del decreto n. 941/2013 che avrebbe ingiunto il pagamento degli interessi di mora sulla somma di capitale ed interessi.

La Corte d’Appello, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, dichiarava infondato il gravame e poneva il pagamento delle spese di lite a carico dell’appellante.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 156 e 172 e della L.R. n. Sardegna n. 10 del 2008, art. 3.

L’errore della Corte d’Appello sarebbe quello di avere escluso l’applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 156 ritenendo che esso si riferisse all’ipotesi di rapporti tra enti co-gestori del servizio e non a quello per cui è causa, ove il Consorzio aveva agito in forza di altro rapporto, sorto per effetto del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 172, comma 6, e della L.R. n. 10 del 2008, art. 3.

La disposizione di fonte regionale, ritenuta attuativa del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 172 per il periodo transitorio occorrente alla definizione del trasferimento degli impianti di acquedotto, fognatura e depurazione al gestore unico del servizio idrico integrato, non facendo alcun riferimento, quanto alla prosecuzione della gestione degli impianti da parte dei consorzi provinciali, alla ricorrenza di convenzioni con il gestore del servizio idrico integrato e non estendendo loro la disciplina di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 156 secondo il giudice a quo, aveva reso applicabili le condizioni precedentemente praticate dal vecchio gestore, con conseguente inoperatività delle modalità di riscossione di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 156.

In particolare, secondo la tesi della società ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe dovuto applicare la L.R. n. 10 del 2008, art. 3 per due ragioni:

a) in quanto si trattava di norma transitoria relativa alla materia della gestione integrata dei rifiuti, la quale si pone a valle del servizio relativo alla fognatura e alla depurazione delle acque reflue. Che i due servizi dovessero essere sottoposti ad un trattamento differenziato emergerebbe dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 110 che vieta l’utilizzo degli impianti di trattamento delle acque reflue per lo smaltimento dei rifiuti, dall’art. 185 che esclude dal regime contenuto nella parte sesta del Codice dell’Ambiente la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati nonchè dalla giurisprudenza, la quale sarebbe ferma nell’escludere che le acque di scarico e le relative fognature riguardino in senso stretto la gestione dei rifiuti, dal fatto che i depuratori non sono sottoposti alle autorizzazioni che abilitano lo svolgimento della diversa attività di gestione dei rifiuti in senso stretto;

b) in quanto non contenente alcun criterio di calcolo delle tariffe, presupponendo l’immediata precettività del D.Lgs. n.. n. 152 del 2006.

Avrebbe dovuto invece tener conto che la regolamentazione e la ripartizione delle tariffe idriche si fondano sul principio del recupero dei costi, di cui all’art. 9 della dir. 2000/60/CE, secondo il quale gli Stati membri tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi ambientali relativi alle risorse. Tale principio è stato recepito dal legislatore italiano con il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 156 che impone al gestore unico di riscuotere la tariffa idrica unitaria e di ripartirla agli ulteriori soggetti eventualmente esercenti parte del servizio in base alla quantità di prestazioni effettivamente svolte, con conseguente applicazione, in sede di ripartizione, degli stessi criteri di quantificazione della tariffa utilizzati, ai fini della fatturazione, dal gestore unico, perchè altrimenti i soggetti diversi dal gestore unico percepirebbero dei compensi svincolati dalla copertura dei costi di gestione.

Proprio il mancato rispetto di tale principio lo costringeva a riconoscere un corrispettivo del tutto indebito al Consorzio, senza alcuna remunerazione per il servizio fognario svolto nel comune di (OMISSIS).

Per finire, secondo le prospettazioni del ricorrente, dato che il servizio idrico integrato afferisce alle competenza statale esclusiva, non sarebbe possibile individuare, se non incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale, una disciplina tariffaria diversa da quella fissata a livello nazionale.

Il nucleo essenziale del motivo è costituito dalla dedotta attribuzione alla L.R. n. 10 del 2008, art. 3 di un contenuto precettivo errato con conseguente attrazione del rapporto per cui è causa, come ricostruito e portato alla cognizione del giudice nei suoi elementi fattuali, ad una disciplina che non gli si addiceva.

La Corte d’Appello fonda la propria decisione sul fatto che la gestione del servizio di depurazione delle acque fosse rimasto in capo al Consorzio appellato in attesa che gli impianti fossero trasferiti in uso al gestore unico e che a tale situazione transitoria si riferisse la L.R. n. 10 del 2008, art. 3.

Per la ricorrente, il Consorzio avrebbe gestito, invece, di fatto gli impianti di depurazione, che ex lege avrebbero dovuto essere trasferiti al gestore unico, in attesa di detto trasferimento. E’ questo il punto di snodo, da cui di dipanano le differenti interpretazioni.

Giova riprodurre il contenuto della L.R. n. 10 del 2008, art. 3, commi 6- 9 che ha istituito i consorzi industriali provinciali: a) il comma 6 prevede che, ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 176, comma 6, (Norme in materia ambientale), gli impianti acquedottistici, fognari e di depurazione gestiti dagli enti soppressi, ovvero da altri consorzi o enti pubblici, sono trasferiti in concessione d’uso al gestore del servizio idrico integrato dell’Ambito territoriale ottimale unico della Sardegna; b) il comma 7 prescrive che, con decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale, su proposta congiunta degli Assessori dell’industria, dei lavori pubblici e della difesa dell’ambiente, è approvato il piano dei trasferimenti di cui al comma 6; c) il comma 8 statuisce che la conduzione degli impianti per la gestione dei rifiuti ed i servizi relativi sono disciplinati dalla normativa regionale da emanare in attuazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 199; d) infine, col comma 9, si dispone che nella fase transitoria e sino alla emanazione della specifica normativa regionale le funzioni di conduzione degli impianti per la gestione dei rifiuti ed i servizi relativi sono assegnate ai nuovi consorzi industriali provinciali.

Ebbene, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto che il comma 9 si riferisce solo agli impianti per la gestione dei rifiuti e dei servizi relativi, in attesa della specifica normativa regionale in materia.

Il ragionamento seguito tanto dal giudice di prime cure quanto dalla Corte d’Appello e suffragato, secondo quanto emerge dalla sentenza, dalla nota, del 28/06/2000, dell’Autorità Territoriale d’Ambito della Sardegna, più volte richiamata, ma senza riprodurne neppure in sintesi il contenuto, si fonda sull’interpretazione della L.R. n. 10 del 2008, art. 3.

A tale interpretazione la società ricorrente ne oppone una propria assai discutibile, giacchè come correttamente ritenuto dal giudice a quo, la sua applicazione non può prescindere dalla ricorrenza di convenzioni che, come riconosce anche la società Abbanoa, fanno difetto.

Tali dubbi non sono ignorati dalla ricorrente che, infatti, ammette, a p. 19, che la situazione della gestione degli impianti in attesa del loro trasferimento al gestore unico, è priva di una regolamentazione.

E’ proprio questo il punto: la mancanza di una disposizione specifica atta a regolare il caso in esame.

E’ innegabile, allora, che competesse al giudice, sulla scorta dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1362 c.c. e ss. e dell’art. 101 Cost., individuare, facendosi carico dell’incapacità del legislatore di prevedere tutti gli scenari possibili, e scegliere consapevolmente, ai fini della decisione sulla specifica controversia, la soluzione legittima tra quelle astrattamente possibili, con l’unico limite di non estrarre dal testo linguistico consacrato nella norma un significato non coerente con il sistema. L’attività interpretativa del giudice non può che essere, infatti, secundum legem, essendogli preclusa la possibilità di formulare interpretazioni anche implicitamente contrastanti con lo ius quo utimur (cfr. Cass. 08/02/2019, n. 3725; Cass. 4/10/2018, n. 24165; Cass. 18/06/2018, n. 16083).

Nel caso di specie deve ritenersi che il giudice a quo, al fine di colmare il difetto di una norma specifica, abbia fatto corretto ricorso all’argomento a coherentia, partendo dall’idea che il legislatore non avesse voluto disciplinare diversamente due casi entrambi caratterizzati da una fase transitoria, durante la quale il servizio era gestito dai consorzi industriali provinciali.

Tale argomento ha consentito alla Corte territoriale di trarre le seguenti conclusioni: a) la gestione del servizio da parte del Consorzio, odierno esistente, non è avvenuta di fatto, ma sulla scorta della L.R. n. 3 del 2008, art. 3, comma 9; b) non esisteva nè era necessaria una convenzione con il gestore unico perchè il Consorzio continuasse ad esercitare il servizio espletato nella fase transitoria.

Tali conclusioni sono avversate inefficacemente dalla ricorrente sulla scorta della differenza tra gestione dei servizi idrici integrati e gestione dei rifiuti che, tuttavia, non è in discussione ed opponendo la necessità di applicare un’altra disposizione, della quale, però, difettano i presupposti.

Tantomeno sono fondate le censure relative al sistema di tariffazione per il fatto di non essere conforme al principio comunitario del recupero dei costi di cui all’art. 9 della direttiva 2000/60/CE. Tale censura prospetta una questione di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, come eccepito nel controricorso. Il ricorrente avrebbe dovuto, a pena di inammissibilità del mezzo impugnatorio, non solo allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, avrebbe dovuto anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio. La censura che non si correli ad alcuna specifica statuizione contenuta nella sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Cass. 25/06/2019, n. 16898; Cass. 05/09/2019, n. 22153).

Anche se fosse stata ammissibile, la censura non sarebbe stata comunque accoglibile, perchè non è in alcun modo suffragata. Ciò che la società ricorrente censura è che le somme pretese dal consorzio non fossero giustificate nel quantum perchè comprensive di una quota parte destinata alla manutenzione degli impianti di cui il consorzio provinciale industriale non si era fatto carico; tuttavia, non vi è alcuna dimostrazione che i parametri applicati non si siano conformati all’obbligo di recupero dei costi dei servizi idrici, imposto dal diritto dell’Unione, non avendo la ricorrente provato – la Corte territoriale ha chiarito che la contestazione della società ricorrente riguarda la differenza tra quanto fatturato dal Consorzio e quanto risultante dalle proprie fatturazioni per il medesimo servizio – che non siano stati recuperati gli oneri sopportati dai gestori dei servizi di distribuzione dell’acqua per mettere quest’ultima a disposizione degli utenti, in quantità e qualità sufficienti, indipendentemente dal consumo effettivo che costoro ne fanno. La direttiva, infatti, non impone un sistema di fatturazione, giacchè lascia discrezionalità agli Stati membri sul metodo di fatturazione utilizzato per garantire il recupero dei costi (Corte di Giustizia 7 dicembre 2016, nella causa 686/15).

La Corte territoriale chiarisce infatti che il Consorzio ha provveduto a misurare i metri cubi di erogazione delle acque attraverso i rilievi piezometrici e fatturato in conformità e non è stato contestato dalla ricorrente che tale misurazione non fosse quella determinata dall’ATO in linea con i criteri di cui all’art. 154 del codice dell’ambiente, ai sensi del quale la tariffa che costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonchè di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio “chi inquina paga”.

Nella sostanza ciò che viene contestato è la determinazione della quota parte spettante al consorzio della tariffa integrata riscossa dalla società ricorrente, ma non il metodo di tariffazione.

Il motivo, pertanto, è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.

2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente censura la sentenza gravata per violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 634 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c.

Lo sforzo deduttivo è volto a dimostrare di avere tempestivamente contestato la documentazione prodotta dal Consorzio, adducendo che nelle pompe del consorzio erano confluite anche acque di origine meteorica o geologica, e che erroneamente la Corte d’Appello avrebbe omesso di valutarla ritenendo idonea la dimostrazione offerta dal Consorzio circa il suo credito, fondata sulla misurazione dei metri cubi di erogazione delle acque attraverso i rilievi piezometrici e che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, il consorzio non aveva annullato solo temporaneamente alcune fatture emesse, senza rinunciare al proprio credito nè riconoscerne l’inesistenza.

Va ricordato che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad un vizio denunciabile con il ricorso per cassazione non essendo inquadrabile nel paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nè in quello del precedente n. 4 che, per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente ad una anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 19/06/2016, n. 11892).

Ciò stante, il giudice a quo ha ritenuto che il credito del consorzio fosse stato dimostrato attraverso la ricostruzione storica della prestazione di depurazione reflui e che le fatture sulla cui base erano stati ottenuti i decreti ingiuntivi erano rapportate a dette misurazioni, limitandosi a documentarle.

Non giova pertanto alla ricorrente insistere sulla inidoneità delle fatture a costituire prova del diritto di credito.

Il credito e la sua quantificazione risultavano, dunque, non dalle fatture ma dalle suddette prove, sicchè deve negarsi che la Corte territoriale sia incorsa nella denunciata violazione dell’art. 634 c.p.c. per aver ritenuto nel giudizio di opposizione provato il credito sulla base delle sole fatture.

Le contestazioni che l’odierna ricorrente ritiene non siano state prese in considerazione dalla Corte territoriale in verità sono state esaminate dalla Corte che le ha ritenute inidonee, sostanziandosi nel mero confronto delle proprie fatturazioni con quelle del Consorzio.

Nè assume rilievo il fatto che la Corte abbia ritenuto tardive le allegazioni che nelle pompe del consorzio fossero confluite anche di origine meteorica o geologica, perchè ciò che ha indotto il giudice a ritenere infondata la opposizione al decreto ingiuntivo è stata la mancata prova del fatto impeditivo che era onere di Abbanoa provare.

Correttamente, infine, la Corte distrettuale ha equiparato le note di credito alle fatture quanto ad efficacia probatoria, escludendo che esse potessero valere come rinuncia al credito ovvero ammissione della sua inesistenza. L’efficacia della nota di credito è la stessa che deve essere riconosciuta alla fattura commerciale; così come la fattura non costituisce prova delle prestazioni eseguite, la nota di credito, derivante dall’annullamento di una fattura, non costituisce prova della volontà di rinunzia al credito nè di ammissione della sua inesistenza. E, quindi, così come la fattura non è idonea a provare l’esistenza del credito, che deve essere provato con gli ordinari mezzi di prova (Cass. 11/03/2011, n. 5911), così il fatto estintivo, modificativo e impeditivo del credito non possono essere provati con la nota di credito.

3. In definitiva, il ricorso non merita accoglimento.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

5. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della società ricorrente l’obbligo del pagamento del doppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

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