Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31058 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. un., 27/11/2019, (ud. 05/11/2019, dep. 27/11/2019), n.31058

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di sez. –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19122-2019 proposto da:

W.H.J., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato CARLO DI CASOLA;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 47/2019 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 20/05/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/11/2019 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Carlo Di Casola.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza depositata il 20 maggio 2019, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha assolto il Dott. W.H.J., sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, da due incolpazioni formulate nei suoi confronti e lo ha ritenuto responsabile di una terza incolpazione, condannandolo alla sanzione disciplinare della censura.

1.1. – In particolare, il Dott. W. è stato ritenuto responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) “perchè, nell’esercizio delle funzioni di sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e mancando al corrispondente dovere, ha tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti del Procuratore della Repubblica ff. di Napoli, Dott. F.N.. Questi infatti, a seguito della pubblicazione sulla stampa di notizie riguardanti l’asserito contrasto insorto tra le Procure di Napoli e Roma relativamente alla c.d. “(OMISSIS)” (proc. n. 6585/2013/21 DDA RGNR), il 12 aprile 2017 convocava una riunione dei PM investiti del relativo procedimento, nel corso della quale il Dott. W. manifestava l’esigenza che l’ufficio confermasse la fiducia al NOE e al capitano S.. Di contro il Dott. F., venendone rassicurato, raccomandava ai colleghi e, in particolare, al collega W., di “mantenere il più assoluto riserbo con gli organi di informazione, anche per non interferire con le indagini condotte dalla Procura di Roma, e di evitare, come peraltro normativamente previsto (D.Lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, art. 5, comma 3), qualsiasi commento, esternazione o dichiarazione sulla vicenda di cui trattasi, e, segnatamente, in merito alla fiducia da confermare, o meno, al NOE”. Di seguito quindi, sotto la stessa data, il Dott. F. emanava un comunicato stampa in cui escludeva qualsiasi contrasto o tensione con la Procura di Roma. Ciononostante, sia nel corso della sopra menzionata riunione che durante l’intera giornata del 12 aprile 2017, il Dott. W. taceva al Dott. F. la circostanza di essersi sentito con la giornalista de “(OMISSIS)”, M.L., proprio in relazione alle tematiche attinenti ai rapporti tra le Procure della Repubblica di Napoli e Roma, invitando anzi il Procuratore F. a rispondere al telefono della giornalista M. la sera dello stesso giorno. Quindi il Dott. W. – assumendo poi di essere stato tratto in inganno – ha rilasciato alla giornalista de “(OMISSIS)”, M.L., dichiarazioni ulteriori rispetto ad altre già rilasciate la sera precedente, aventi ad oggetto proprio l'(OMISSIS), pubblicate con risalto il giorno dopo in un articolo dal titolo: “(OMISSIS)””.

1.2. – La Sezione disciplinare, a sostegno della adottata decisione, ha osservato, anzitutto, che, in base alle risultanze istruttorie, era rimasto accertato che: a) “le dichiarazioni attribuite al Dott. W., quali riportate nell’articolo pubblicato a firma di M. il (OMISSIS), erano state effettivamente rilasciate dall’incolpato, in particolare nel corso della telefonata con M. avvenuta alle ore 18,00 circa dell’11 aprile 2017”; b) “quest’ultima conversazione era stata di tipo informale e “salottiera” ed aveva avuto ad oggetto, in particolare, la questione relativa alla fuga di notizie, al contrasto tra uffici giudiziari e al “(OMISSIS)” ” (Lo S. era il capitano dei Carabinieri responsabile delle indagini del N.O.E., cui la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma aveva contestato il reato di falso ideologico per “due gravi anomalie nella redazione dell’informativa del 9.01.2017”, relativa al “(OMISSIS)”); c) “al termine della conversazione M. aveva chiesto se poteva pubblicare il contenuto del loro colloquio, ricevendo il fermo rifiuto di W.”; d) “quella sera stessa dell’11.04.17 W. aveva chiamato il giornalista D.P., chiedendogli di contattare M. perchè non pubblicasse le sue dichiarazioni”; e) ” D.P. non aveva raccolto l’invito, ma l’indomani verso l’ora di pranzo aveva detto a W. che la mancata pubblicazione dell’articolo il 12 aprile 2017 non era certo garanzia che la pubblicazione non potesse avvenire nei giorni successivi”; f) “nella riunione della mattina del 12 aprile convocata dal Dott. F., presenti il Dott. W., la Dott.ssa C. e il Dott. B., si parlò sicuramente dei rapporti da tenere in quei giorni con i giornalisti e con i rappresentanti dei mezzi di informazione e il Dott. F. certamente raccomandò a tutti i presenti di non rilasciare dichiarazioni (…)”; g) “la sera del 12 aprile M. aveva chiamato il Dott. W. e gli aveva comunicato che era obbligata per ragioni editoriali a scrivere un articolo sulla vicenda (…); peraltro, in base alle dichiarazioni da lei rese a dibattimento, M. non aveva dato alcuna certezza in ordine alla pubblicazione, pur ribadendo che dal giornale le facevano “pressioni” per scrivere (…)”; h) “il Dott. W. l’aveva esortata a non fare riferimento alle sue dichiarazioni informali del giorno prima e le aveva dato il numero di telefono del Dott. F.”; i) “il Dott. W. aveva chiamato poi il Dott. F. avvertendolo che lo stava per chiamare M. perchè solo lui poteva parlare, quale Capo dell’Ufficio”; l) “la giornalista aveva contattato il Dott. F., il quale aveva tenuto un contegno molto formale e riservato”; m) “l’indomani mattina dopo la pubblicazione dell’articolo su “(OMISSIS)”, il Dott. W. aveva contattato il Dott. F., il quale lo aveva rimproverato di non averlo avvertito che aveva parlato con M.; l’incolpato aveva sostenuto di essere stato ingannato da quest’ultima”.

1.3. – Il Giudice disciplinare ha ritenuto, quindi, essersi concretata la grave scorrettezza addebitata al Dott. W., consistita nel “non aver avvertito il Procuratore facente funzioni, per tutta la giornata del 12 aprile, che egli aveva avuto già un colloquio con M., nei termini poi riportati dalla giornalista nel proprio articolo”, nonchè per aver invitato lo stesso Procuratore la sera del 12 aprile (“Io non posso parlare, tu puoi parlare, parla tu”), senza riferirgli “quanto realmente era accaduto la sera prima”, a “rispondere al telefono alla giornalista M., che lo avrebbe a breve contattato”, pur essendo l’incolpato “venuto a conoscenza in quel momento, per averlo appreso dalla stessa M. poco prima, che quest’ultima intendeva procedere alla pubblicazione di un articolo sulla vicenda”.

1.4. – La Sezione disciplinare, pertanto, ha sostenuto che il Dott. W., con la sua condotta, pose il Dott. F. “nella difficile condizione di affrontare un argomento molto delicato con una giornalista esperta e di interloquire con lei senza avere un quadro completo degli accadimenti”, ossia che “la stessa M. aveva già dal giorno prima ricevuto le confidenze del Dott. W., il cui contenuto era mediaticamente molto rilevante – nella parte in cui oggettivamente sminuiva la gravità delle condotte ascritte in quel momento a S., condotte che l’incolpato riteneva essere il frutto di mero errore – e tale da apparire una oggettiva sconfessione dell’impostazione accusatoria della Procura della Repubblica di Roma, che proprio in quei giorni, con vasta eco mediatica, aveva emesso nei confronti di S. l’invito a comparire, in quanto ipotizzati a suo carico reati di falso ideologico, asseritamente commessi nell’informativa del 9 gennaio 2017 sopra citata”.

Con ciò – ha proseguito il Giudice disciplinare – il Procuratore f.f. non è stato messo in grado di “compiutamente decidere quale dichiarazione effettivamente rilasciare in rappresentanza dell’Ufficio della Procura della Repubblica di Napoli, sia nel comunicato stampa diramato la mattina del 12 aprile stesso, dopo la riunione da lui convocata con i colleghi C., W. e B., sia nella conversazione telefonica con M. del 12 aprile 2017”, là dove avrebbe potuto anche “determinarsi – una volta appreso il reale contenuto di quanto già comunicato dal Dott. W. a M. – di non parlare affatto con quest’ultima, per non vedersi esposto al rischio che la sua persona, e l’Ufficio da lui in quel momento rappresentato, venissero accostati a dichiarazioni da lui eventualmente non condivise e comunque appartenenti al solo Dott. W.”.

1.5. – Ad avviso della Sezione disciplinare, il fatto sarebbe “grave” poichè “in quei giorni l’interesse dei mezzi di informazione era straordinariamente concentrato sulla vicenda dell’inchiesta (OMISSIS) e sul presunto contrasto tra i due uffici giudiziari nella conduzione delle indagini”, essendo al “centro del dibattito pubblico” il “ruolo del capitano S., indagato a Roma e, indirettamente, del reparto investigativo del N. O.E. che aveva condotto le indagini a Napoli, ma che poi si era visto revocare la delega alle indagini da parte della Procura di Roma”.

Si trattava, dunque, “di situazione eccezionalmente delicata, potenzialmente lesiva dell’immagine di entrambi gli uffici giudiziari tra i quali i mezzi di informazione ipotizzavano un conflitto situazione che avrebbe imposto accortezza, ponderazione, correttezza e lealtà da parte di tutti i magistrati che erano a vario titolo coinvolti”.

1.6. – Il giudice disciplinare ha, inoltre, osservato che: a) l’aver avuto il Dott. W. rapporti sempre leali nei confronti del Dott. F., tanto da comunicargli esso stesso, nella telefonata del (OMISSIS), che erano sue le dichiarazioni rilasciate alla giornalista M., non era circostanza conferente rispetto all’incolpazione, bensì atto tardivo e irrilevante, essendo il comportamento sleale contestato “quello di non aver comunicato al Dirigente dell’ufficio, per tutta la giornata del 12 aprile 2017, che egli aveva già parlato con M. sin dall’11 aprile 2017”; b) non era sostenibile la difesa dell’incolpato che faceva leva sul fatto che egli “non aveva detto nulla al Dott. F. fino al (OMISSIS) “perchè non c’era nulla da dire, in quanto nulla avrebbe dovuto essere pubblicato circa la sua conversazione con la M.””, giacchè: – l’iniziale rassicurazione ricevuta dalla giornalista sulla non pubblicazione dell’articolo “non poteva comunque esimere l’incolpato dal riferire la circostanza del colloquio al Capo dell’ufficio, sin dalla riunione della mattina del 12 aprile”; – il tema del colloquio “con una giornalista di uno dei più importanti quotidiani nazionali”, essendo al “centro dell’attenzione mediatica generale”, “non poteva essere confinato nella sfera privata del magistrato” (uno dei titolari dell’indagine penale) “e tenuto celato”; – il Dott. W. non poteva confidare nelle “amichevoli rassicurazioni ricevute la sera dell’11 aprile da M.” sulla non pubblicazione delle sue esternazioni, poichè queste erano “di straordinario interesse giornalistico”, avvalorando “una implicita critica o presa di distanza dall’ipotizzata accusa di falso che era stata avanzata dalla Procura di Roma verso il Capitano del N. O.E.”, là dove, comunque, sussisteva, per il giornalista, “il dovere di informare il pubblico” e “un primario dovere di lealtà verso il suo editore”; c) non era sostenibile la difesa dell’incolpato che evidenziava come, uno volta messo in contatto il Dott. F. con la M. la sera del 12 aprile, la questione era reputarsi risolta, “in quanto le sue dichiarazioni sarebbero state integralmente sostituite da quelle del Procuratore Capo f.f.”, giacchè il Dott. W. conosceva “il pensiero del Dirigente dell’Ufficio” manifestato nella riunione della mattina del 12 aprile (ossia “di evitare qualsiasi commento o esternazione che potesse suonare come una dichiarazione di conferma di fiducia al Capitano S. o al N. O.E.”, al fine di evitare di alimentare l’idea di contrapposizioni e polemiche”) e “poi consacrato nel comunicato stampa”, mentre lo stesso incolpato aveva reso dichiarazioni favorevoli allo S. e, quindi, “i due avevano manifestato prospettazioni assai diverse al riguardo”; d) era irrilevante la questione, dedotta dalla difesa dell’incolpato, sul “tranello” compiuto dalla M. nei confronti del Dott. W., violando la giornalista il patto tra i due intercorso circa la non pubblicazione delle dichiarazioni, non essendo stato contestato al magistrato la violazione del dovere di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’Ufficio, nè, del resto, era oggetto di incolpazione la presunta esistenza di un accordo tra la stessa giornalista e il Dott. W. “volto ad ingannare il Dott. F.”.

1.7. – Il Giudice disciplinare, dunque, ha reputato che, in ragione del “dovere generale di correttezza” imposto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, il Dott. W. – “avuto riguardo al contenuto del colloquio avvenuto con la giornalista, inerente attività d’ufficio e indagini che erano state condotte dall’incolpato; alla qualifica dei soggetti interessati (magistrato/giornalista); all’eccezionale attenzione mediatica che a quelle vicende veniva in quel periodo dedicata; alla circostanza che il Dirigente dell’Ufficio era coinvolto in prima persona nel rapporto con i mezzi d’informazione, tanto da aver diffuso quel giorno un comunicato stampa ed essere stato chiamato ad interloquire con una giornalista appartenente ad uno dei principali quotidiani nazionali; al fatto infine che il medesimo Dirigente aveva espressamente richiesto ai magistrati coinvolti di mantenere il massimo riserbo sulla vicenda” – avrebbe dovuto “senza alcun dubbio riferire al Dott. F. il contenuto del precedente colloquio da lui avuto con la giornalista M.”.

In tali “condizioni di fatto”, la Sezione disciplinare ha ritenuto l’illecito disciplinare “di notevole gravità, sia per le sue modalità realizzative, sia perchè, in un contesto di eccezionale esposizione mediatica, la scorrettezza verso il Procuratore capo f.f., con il concreto e conseguente rischio di arrecare un danno all’immagine e al prestigio dello stesso Ufficio giudiziario di appartenenza, appare ingiustificabile”.

Di qui, pertanto, la affermata responsabilità disciplinare del Dott. W., nei cui confronti, in assenza di precedenti disciplinari, è stata irrogata la sanzione della censura, quale sanzione minima prevista dalla legge per l’illecito disciplinare contestato.

2. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Dott. W.H.J., affidando le sorti dell’impugnazione a cinque motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 606 c.p,.c., lett. b) ed e), violazione degli artt. 2 e 15 Cost., del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) e della L. n. 63 del 1969, art. 2, comma 2, (“Inconfigurabilità dell’elemento costitutivo della “scorrettezza”. Violazione dei principi costituzionali della libertà di espressione e del diritto alla riservatezza. Violazione delle leggi ordinarie attuative dei principi costituzionali. Vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Travisamento della prova.”).

Il ricorrente deduce, anzitutto, che, nel rispetto del principio di tipicità, “il dovere di lealtà non possa venire impropriamente inglobato nel dovere di correttezza, che nel comparto pubblico riguarda sempre e soltanto il dovere di collaborare e di osservare le regole e i provvedimenti volti al raggiungimento della migliore funzionalità del servizio”, collocandosi la condotta contestata ad esso magistrato “al di fuori di tali ambiti”, non esistendo “alcuna regola deontologica che impone ad un sostituto di rendere ufficiali le opinioni che ha espresso in privato, confidenzialmente con i propri amici, nè è possibile sostenere che l’informazione, se fosse stata trasmessa a F., avrebbe migliorato o peggiorato la funzionalità del servizio”, là dove, peraltro, le dichiarazioni rese non riguardavano indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Napoli.

In ogni caso, ove si intendesse ricondurre il comportamento contestato “in un generico dovere di lealtà”, la Sezione disciplinare avrebbe trascurato il dato rilevante costituito dal fatto che vi era “l’impegno, stretto fra i conversanti nel corso di quel colloquio confidenziale, di non pubblicare alcunchè”, dando, invece, risalto al dovere del giornalista di informare il pubblico della verità dei fatti, con ciò, tuttavia, erroneamente disconoscendo “il diritto alla riservatezza ed il correlato dovere del giornalista di tutelare la fonte delle notizie”, con lesione degli artt. 2 e 15 Cost. e della L. n. 69 del 1963, art. 2, comma 2, che impone al giornalista il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse.

Il Giudice disciplinare avrebbe travisato le prove e sarebbe incorso nelle denunciate violazioni di legge per aver attribuito al “colloquio confidenziale” intercorso tra il Dott. W. e la giornalista M. – come tale, “coperto” dall’art. 15 Cost. – il carattere di “esternazioni” e “pubbliche dichiarazioni”, mancando, altresì, di rilevare che nè il giorno 11 aprile 2017, nè il giorno successivo l’incolpato, che non era più titolare delle indagini sul caso “(OMISSIS)” (trasmesso per competenza territoriale alla Procura di Roma), era “stato messo a conoscenza della volontà della M. di tradire il patto di riservatezza e pubblicare le sue amichevoli confidenze”, nutrendo soltanto “una comprensibile preoccupazione, dimostrata del resto dal colloquio avuto con il giornalista D.P., che aumentò quando, la sera del 12 aprile 2017, la M. lo informò che i suoi capi desideravano che pubblicasse un articolo”, senza peraltro informarlo del contenuto che avrebbe dato al medesimo articolo.

Il ricorrente sostiene, quindi, che la natura confidenziale del colloquio “impediva ad entrambi i confidenti di rompere il patto di riservatezza”, sicchè esso, in ossequio al “dovere di lealtà nei confronti del proprio Capo”, “ritenne senza tentennamenti di precludere alla giornalista ogni possibilità di pubblicare le sue confidenze, imponendole di pubblicare solo le dichiarazioni ufficiali del vertice della Procura”, là dove, peraltro, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto tener conto del dovere di lealtà del magistrato non solo “all’interno all’ufficio giudiziario”, ma anche nei confronti della giornalista, in ragione del patto di riservatezza che li vincolava reciprocamente.

2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) (“Erronea configurazione dell’elemento costitutivo della “gravità” dell’illecito disciplinare. Inosservanza o erronea applicazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza. Motivazione apparente”).

Il ricorrente – premesso che il concetto di “gravità” della “scorrettezza”, per la sua genericità, impone di precisare i fatti e “quale sia la regola violata” – deduce che, ai fini dell’esercizio del potere discrezionale del giudice disciplinare, dovrebbe farsi riferimento ai parametri dettati dall’art. 133 c.p., dalla cui “verifica in concreto” si evincerebbe che il comportamento contestato “non può in alcun caso essere giudicato grave”, nè per le modalità dell’azione (si trattava di opinioni confidenziali espresse prima della riunione convocata dal Procuratore f.f., delle quali era incerto che la giornalista, rompendo il patto di riservatezza, le avrebbe pubblicate e in che termini), nè in relazione alla “gravità del danno o del pericolo”, da reputarsi insussistenti, essendo le dichiarazioni anzidette “coerenti con la linea che il Capo dell’ufficio intendeva accreditare presso i media”, là dove, peraltro, la condotta del capitano S. non riguardava la Procura della Repubblica di Napoli.

Inoltre, la sentenza disciplinare avrebbe adottato, quanto al concetto di “gravità” della scorrettezza, una motivazione meramente apparente, erroneamente ponendo il fulcro dell’argomentazione sulla “condotta potenzialmente lesiva dell’immagine degli uffici giudiziari, perchè l’interesse dei mezzi di informazione era concentrato sul presunto contrasto tra i due uffici giudiziari e sul ruolo del capitano S.”, mentre il bene giuridico tutelato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), riguarda “le regole di comune convivenza, di educazione, di onestà, di convenienza sociale, ecc.”, per cui “la gravità rappresenta il parametro per valutare il grado della scorrettezza commessa”.

In definitiva, la sentenza impugnata in questa sede avrebbe confuso “i diversi concetti di gravità del comportamento e di scarsa rilevanza del fatto”, esibendo solo “un’unica argomentazione a sostegno della asserita gravità del comportamento”, omettendo “qualsiasi motivazione sulla scarsa rilevanza del fatto”, altresì erroneamente giustificando “la gravità del fatto ricorrendo al principio di offensività, che avrebbe invece dovuto esaminare per verificare la concreta rilevanza del fatto”.

2.1. – I primi due motivi, da scrutinarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, non possono trovare accoglimento.

2.2. – La nozione di “grave scorrettezza”, cui fa riferimento la previsione normativa di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), nel rendere sanzionabili disciplinarmente i comportamenti del magistrato nei confronti delle parti, dei difensori, di chi, con esso, abbia rapporti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, di altri magistrati o di collaboratori, ha un carattere “elastico” (Cass., S.U., 27 aprile 2017, n. 10415), tipico delle clausole generali, per cui, nell’integrare i parametri generali sui quali la norma ruota – la “scorrettezza” (che è declinazione negativa del dovere di correttezza imposto dallo stesso D.Lgs. n. 109, art. 1) e il suo connotarsi come “grave” -, il giudice deve attingere sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, si rende suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico-sociale in cui deve essere applicata ovvero a situazioni non esattamente ed efficacemente puntualizzabili a priori.

A tal fine, già all’interno dello stesso sistema regolato dal D.Lgs. n. 109 del 2006 si rinvengono elementi utili a guidare una siffatta delicata operazione valutativa di concretizzazione della norma disciplinare.

Anzitutto, non è senza significato il dato positivo – già evidenziato (art. 1) – della espressa indicazione della “correttezza” quale dovere, tra gli altri, imposto al magistrato, avendo lo stesso legislatore ritenuto di dover resecare, sul piano deontologico, un tipo di condotta tale che il suo actus contrarius, ove grave, si determini, immediatamente e direttamente, come infrazione di un parametro deontologico.

Ulteriore ausilio valutativo, sempre di matrice positiva e sistematica, è da ravvisare nella pertinenza del comportamento costituente illecito disciplinare all’esercizio delle funzioni, da intendersi come concetto in senso dinamico, siccome connesso allo status di magistrato, che consente di attrarre nell’ambito della scorrettezza funzionale grave, ai sensi dell’art. 2, lett. d anche quella correlata a comportamenti che, pur se non compiuti direttamente nell’esercizio delle funzioni, sono inscindibilmente collegati a contegni precedenti o anche solo in fieri, involgenti l’esercizio delle funzioni giudiziarie, al punto da divenire tutti parte di un modus agendi contrario ai doveri del magistrato (Cass., S.U., 9 novembre 2018, n. 28653).

In siffatta prospettiva, sostanziano di contenuto il dovere di correttezza del magistrato – per quanto specificamente rileva nella presente controversia e, dunque, senza esaurire estensione e portata di detto dovere – quelle regole di civile comportamento che, in generale, devono connotare i rapporti sociali (regole di educazione, di lealtà, di onestà intellettuale e pratica, di convenienza sociale, etc.) e la cui osservanza è volta, nello specifico, a preservare, anzitutto, le relazioni interpersonali nel rispetto della diversità dei ruoli e, con esse, il buon andamento dell’ufficio giudiziario e la sua stessa unitarietà funzionale, essendo dato di comune esperienza quello per cui, sul profilo oggettivo del servizio, si riverbera, in modo virtuoso, il corretto svolgimento delle prime.

E in questo più ampio spettro si colloca lo stesso principio enunciato da queste Sezioni Unite in tema di illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. d), secondo cui, nell’esercizio delle funzioni sia giudicanti che requirenti, il magistrato deve improntare il proprio comportamento con i superiori, i colleghi ed il personale dell’ufficio di appartenenza al canone di leale collaborazione (Cass., S.U., 26 luglio 2018, n. 19873).

2.3. – La Sezione disciplinare ha reputato che integrasse “grave scorrettezza” una sequenza di condotte dell’incolpato, non solo omissive, ma anche attive (p. 45 della sentenza impugnata), poste in essere dall’incolpato nella giornata del 12 aprile 2017, che si venivano ad innestare nel contesto, particolarmente delicato, della c.d. “(OMISSIS)” e in ragione dello specifico e rilevante interesse mediatico incentratosi sugli Uffici delle Procure della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e presso il Tribunale di Roma, segnatamente per un ipotizzato (dagli stessi mezzi di informazione) conflitto tra i due Uffici di Procura sulla posizione del capitano dei Carabinieri S., responsabile del N. O.E., cui la Procura romana aveva contestato il reato di falso ideologico per “due gravi anomalie nella redazione dell’informativa del 9.01.2017”, relativa proprio al caso “(OMISSIS)” e ad essa trasmessa dalla Procura di Napoli (inizialmente titolare delle indagini – assegnate anche al Dott. W. – per i fatti avvenuti in quella Città) per la parte di competenza (cfr. p. 2.2. della sentenza impugnata).

In particolare (cfr. p.p. 2.6. e 2.7. della sentenza impugnata, nonchè sintesi ai p.p. da 1.2. a 1.5. dei “Fatti di causa”), il Dott. W. – che il giorno precedente (11 aprile 2017) aveva avuto un colloquio informale (una conversazione “salottiera”) sui predetti temi con la giornalista di “(OMISSIS)”, M.L. – dapprima, taceva tale circostanza al Procuratore capo f.f., Dott. F., nel corso di una riunione d’ufficio mattutina, in cui il dirigente aveva raccomandato ai colleghi l’assoluto riserbo con gli organi di informazione e, poi, aveva emanato un comunicato stampa con il quale si escludevano contrasti con la Procura di Roma; quindi, nella serata dello stesso giorno, invitava il Procuratore capo f.f. a rispondere alla telefonata che avrebbe ricevuto, su sua sollecitazione, dalla giornalista, senza tuttavia riferirgli “quanto realmente era accaduto la sera prima” e nonostante avesse appena appreso dalla stessa M. che quest’ultima era tenuta, “per ragioni editoriali”, a pubblicare un articolo sulla vicenda (o che, comunque, “stava subendo pressioni dal giornale per procedervi”).

2.4. – Ai fini, dunque, del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) il giudice disciplinare ha ascritto rilievo, segnatamente, al contenuto del colloquio avuto dall’incolpato con la giornalista (sul caso “(OMISSIS)” e, in particolare, sul contrasto tra uffici giudiziari in relazione alla posizione del capitano S.), alla qualifica dei soggetti di tale colloquio (magistrato/giornalista), all’attenzione mediatica sulla vicenda “(OMISSIS)”, al fatto che il Procuratore capo f.f., coinvolto in prima persona nel rapporto con i mezzi d’informazione (tanto da aver richiesto espressamente il massimo riserbo sulla vicenda da parte dei magistrati coinvolti), era stato posto nella condizione di interloquire con una “esperta” giornalista “senza avere un quadro completo degli accadimenti”, ossia, senza essere a conoscenza del precedente colloquio dell’incolpato con la stessa giornalista, tanto da non potersi determinare in modo consapevole circa le dichiarazioni da rilasciare o se, invero, non rilasciarle affatto.

Su tale ultimo profilo ha, peraltro, insistito la Sezione disciplinare quanto alla esistenza di una “grave scorrettezza”, evidenziando ulteriormente come il “fatto” – da intendersi, quindi, nella sua interezza e non solo riferito alla condotta scorretta dell’incolpato – era da connotarsi come “grave” perchè si collocava nel quadro di una “situazione eccezionalmente delicata, potenzialmente lesiva dell’immagine di entrambi gli uffici giudiziari” (p. 43 sentenza impugnata).

2.5. – In siffatti termini, la sentenza impugnata si sottrae alle critiche, dedotte con il ricorso, di errores in iudicando e di vizi di motivazione (rispetto ai quali ultimi il sindacato di questa Corte, ai sensi dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. e, è circoscritto al controllo di relativa congruità, adeguatezza e logicità, essendo, invece, preclusa ogni rivalutazione del fatto in rapporto alle risultanze processuali: cfr., tra le altre, Cass., S.U., 19 marzo 2019, n. 7691), avendo definito, nella portata innanzi circoscritta, la concretizzazione del comportamento gravemente scorretto, suscettibile di sanzione disciplinare, in armonia con i principi sopra ricordati e, segnatamente, con quello che impone al magistrato il dovere di leale collaborazione (tra gli altri) con i propri superiori, cui si pone in contrasto la condotta contestata ed accertata giudizialmente.

2.5.1. – Anzitutto, non coglie nel segno la doglianza che lamenta che il giudice disciplinare abbia attribuito rilievo ad “esternazioni” o “pubbliche dichiarazioni” rese dall’incolpato alla giornalista, avendo la sentenza impugnata, invece, incentrato la valutazione dell’illecito proprio sul presupposto che il colloquio tra i due avesse carattere del tutto informale (una conversazione “salottiera”) e che la contestazione disciplinare non riguardasse affatto il divieto di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazioni sull’attività giudiziaria dell’Ufficio, non potendo, quindi, ravvisarsi una interferenza lesiva rispetto alla libertà, costituzionalmente garantita anche al magistrato, sia pure temperata in relazione agli specifici doveri incombenti sullo stesso (Cass., S.U., 23 ottobre 2017, n. 24969), di manifestare il proprio pensiero.

2.5.2. – Così come non assume consistenza il rilievo critico sul fatto che il Dott. W. non fosse, al momento del colloquio con la giornalista, più titolare delle indagini “(OMISSIS)”, trasmesse alla Procura di Roma per competenza, giacchè, in ogni caso, l’illecito funzionale contestato non ha riguardo, come detto, al solo esercizio di funzioni giudiziarie, ma a comportamenti ad esse connessi, che, nella specie, risaltano in modo particolarmente stretto, venendo in evidenza, rispetto ad inchiesta già radicata presso l’Ufficio di Procura di appartenenza dell’incolpato, i rapporti di quest’ultimo Ufficio con la Procura di Roma in quanto destinataria per competenza di parte importante di quella stessa inchiesta.

2.5.3. – Del pari, non concludenti sono i profili di censura che intendono accreditare un travisamento delle prove in punto di non conoscenza, da parte del Dott. W., della volontà della M. di pubblicare un articolo a seguito del colloquio riservato e del contenuto stesso di tale articolo, posto che la sentenza impugnata – contrariamente a quanto sostenuto in ricorso e con motivazione adeguata e congruente – non solo ha evidenziato come l’incolpato, già la sera dell’11 aprile 2017, dopo il colloquio avuto con la giornalista sui temi della vicenda “(OMISSIS)”, fosse preoccupato circa la pubblicazione di un articolo che rappresentasse il contenuto di detto colloquio (essendosi, quindi, premurato di sollecitare altro giornalista affinchè contattasse la M. per impedire che ciò avvenisse), ma, soprattutto, ha messo in risalto come il Dott. W., la sera del 12 aprile, si fosse prontamente attivato per mettere in contatto il Dott. F. con la giornalista (senza, tuttavia, riferirgli del colloquio del giorno precedente) proprio perchè aveva appreso da quest’ultima che quell’articolo, per pressanti esigenze manifestate dall’editore, sarebbe stato pubblicato, come poi avvenne il successivo 13 aprile.

2.5.4. – Priva di fondamento è, poi, la censura che deduce un’errata considerazione del c.d. “patto di riservatezza” intercorso tra l’incolpato e la giornalista circa i contenuti dell’informale colloquio sulla vicenda “(OMISSIS)”, con conseguente violazione degli artt. 2 e 15 Cost., oltre che della norma (L. n. 69 del 1963, art. 2) che impone il segreto professionale sulla fonte delle notizie.

Invero, quel “patto” – come accertato dalla sentenza impugnata (in particolare, pp. 40, 41, 44, 47 e 48) – riguardava il divieto, imposto dall’incolpato e accettato dalla giornalista (sebbene, poi, dalla stessa successivamente infranto), della pubblicazione, da parte di quest’ultima, di un articolo di stampa avente ad oggetto il contenuto del colloquio tra i due “paciscenti”, ma non aveva affatto ad oggetto l’impegno del magistrato di non riferire ad altri di quel colloquio e, segnatamente, vertendo esso su temi delicati che riguardavano direttamente l’Ufficio di appartenenza, di non riferirlo al proprio dirigente nel peculiare contesto che si era venuto a determinare per l’inchiesta “(OMISSIS)”, come innanzi ricordato.

Si pongono, dunque su piani diversi e non interferenti la promessa di non pubblicare sulla stampa il contenuto di un colloquio confidenziale e di tutelare la fonte di quel colloquio assunta dalla giornalista nei confronti del magistrato incolpato e il dovere di correttezza di quest’ultimo che, nei termini anzidetti, imponeva di rendere edotto del colloquio il dirigente del proprio Ufficio.

2.5.5. – Anche le censure sulla “gravità” della scorrettezza, come tale ritenuta dalla sentenza impugnata, non scalfiscono la congruenza del relativo impianto motivazionale, che, a tal fine, non solo pone in rilievo il peculiare e delicato contesto in cui la condotta contestata si è realizzata (caso “(OMISSIS)” e, in particolare, l’ipotizzato, dai mezzi di informazione, contrasto tra Procure di Roma e Napoli sulla posizione del capitano S.), ma insiste particolarmente sulle modalità oggettive (con una pluralità di condotte omissive ed attive) e soggettive del comportamento scorretto (anche successivamente alla pubblicazione dell’articolo il giorno (OMISSIS); cfr. p. 48).

Con ciò vengono meno anche le ulteriori doglianze sulla asserita confusione di piani con la delibazione in punto di applicazione dell’art. 3 bis (su cui vertono i restanti motivi di ricorso), posto che la “gravità del fatto”, complessivamente inteso, non è da sovrapporsi, come tale, alla “condotta gravemente scorretta”, mentre (come si evidenzierà in sede di scrutinio dei restanti motivi) la delibazione sulla scarsa rilevanza del fatto, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis non prescinde dalla specifica previsione dell’illecito tipizzato e, nella specie, da quella di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) volta a preservare, e a tutelarlo come specifico bene giuridico, anche (ma non solo) il buon andamento del servizio.

2.5.6. – Infine, dovendo ribadirsi quanto già argomentato in punto di irrilevanza del c.d. “patto di riservatezza” tra l’incolpato e la giornalista sull’intercorso colloquio confidenziale, nonchè sulla asserita mancata conoscenza da parte del primo del contenuto dell’articolo che sarebbe stato poi pubblicato, rimane su un piano di inammissibile rivalutazione del fatto la critica che intende accreditare una erronea lettura delle risultanze probatorie là dove contrariamente a quanto opinato in ricorso – la sentenza impugnata, con motivazione adeguata e congruente, ha rilevato come tra il contenuto dell’anzidetto colloquio (con cui il Dott. W. esprimeva considerazioni “favorevoli” nei confronti del capitano S.) e la manifestata intenzione del Procuratore capo f.f. di evitare commenti ed esternazioni che potessero “suonare come una dichiarazione di conferma di fiducia al Capitano S. o al N.O.E.” non vi fosse coincidenza, bensì una chiara discrasia.

3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed e), violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) e art. 3-bis (“Inosservanza o erronea applicazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza. Mancata assunzione di una prova decisiva. Mancanza assoluta di motivazione”).

La sentenza impugnata avrebbe omesso totalmente la motivazione in ordine alla questione della rilevanza del fatto di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis sebbene oggetto delle difese dell’incolpato.

In ogni caso, la Sezione disciplinare avrebbe ingiustificatamente negato l’assunzione della prova testimoniale (segnatamente, l’esame del Procuratore della Repubblica di Napoli, Dott. Me.) volta a dimostrare circostanze decisive sui temi della rilevanza del fatto addebitato.

4. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) e art. 3-bis (“Violazione di legge. Inosservanza o erronea applicazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza. Illogicità manifesta”).

Il ricorrente sostiene che non sarebbe possibile desumere la motivazione sulla “scarsa rilevanza” D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3-bis da quella sulla “gravità del fatto”, inerente ad elemento costitutivo dell’illecito, rispondendo detti concetti a ratio diverse e “a presidio di beni giuridici differenti”, là dove, nel caso dell’art. 3-bis, si è inteso introdurre in materia disciplinare il “principio di offensività” e tutelare, con riferimento a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, il bene giuridico “dell’immagine del magistrato”.

La sentenza impugnata non solo avrebbe mancato di verificare in concreto la sussistenza della “scarsa rilevanza del fatto”, ma avrebbe, in taluni “passaggi logici”, contraddittoriamente con le premesse, escluso che vi fosse un pericolo di compromissione dell’immagine del magistrato o del suo ufficio di appartenenza (l’incolpato, in linea con l’opinione del Dott. F., aveva riferito alla giornalista dei positivi rapporti tra le Procure di Napoli e Roma; l’opinione sulla condotta dello S. “era del tutto inidonea a porre in pericolo l’immagine” del Procuratore f.f., la quale, comunque, non era attinta dal comportamento dell’incolpato circa l’omessa informazione delle confidenze fatte alla giornalista).

Del resto, la stessa immagine e prestigio dell’incolpato non poteva dirsi vulnerati dalla condotta contestata, giacchè: l’articolo pubblicato, sulla base non di dichiarazioni, ma di confidenze, non conteneva “alcuna supposizione… su presunti contrasti fra gli uffici giudiziari di Roma e di Napoli”; la pubblicazione dell’articolo non provocò alcuna “frattura interna fra i magistrati coinvolti in quelle vicende”; il “clamore suscitato dalla vicenda” era derivato semmai dalla pubblicazione dell’articolo e “non dal comportamento tenuto dal magistrato con il suo capo”; l’aver la sentenza escluso ogni profilo di illiceità deontologica della “intervista” si pone in contraddizione con il presumere la perdita di prestigio essere “legata al silenzio tenuto con il Procuratore”; nel comportamento del Dott. W. “manca totalmente il dolo”; il Dott. W. “è stato ed è tuttora stimato dai colleghi, dai dirigenti e dal personale amministrativo e di polizia giudiziaria”.

5. – Con il quinto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 606, lett. e), violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) e art. 3-bis (“Vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Travisamento della prova”).

La sentenza impugnata avrebbe travisato la prova là dove ha ritenuto che “il pericolo per l’immagine della magistratura risiede nell’aver affermato l’esistenza di un conflitto fra gli uffici giudiziari di Roma e Napoli”, in ciò confondendo le “notizie apparse su diverse testate giornalistiche con l’articolo pubblicato dalla M.”, che espone, invece, la tesi opposta, frutto di “una complessiva coincidenza fra le dichiarazioni di W. e F., nel rappresentare l’assenza di conflitti fra gli uffici giudiziari”.

Peraltro, l’opinione espressa dall’incolpato “sul presunto gravissimo errore del capitano S.” era inidonea a cagionare pericoli per l’immagine del Procuratore F., “trattandosi di vicende di competenza della Procura di Roma”, là dove l’interferenza con i magistrati titolari di quelle indagini era addebito disciplinare (contestato al capo C) rimasto escluso dalla stessa sentenza impugnata in questa sede.

5.1. – I motivi dal terzo al quinto – che, in quanto strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente – sono fondati per quanto di ragione e nei termini di seguito precisati.

5.2. – Come enunciato in più di un’occasione da queste Sezioni Unite, la norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis (secondo cui l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza), è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione, che per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi previste negli artt. 2 e 3 medesimo decreto, anche quando la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, e perfino quando integri la commissione di un reato.

Ai fini dell’applicazione di tale esimente, il giudice deve procedere ad una valutazione d’ufficio, sulla base dei fatti acquisiti al procedimento e prendendo in considerazione le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, anche riferibili al comportamento dell’incolpato, purchè strettamente attinenti allo stesso, con giudizio globale diretto a riscontrare se l’immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito (Cass.” S.U., 31 marzo 2015, n. 6468; Cass., S.U., 5 giugno 2017, n. 13911; Cass., S.U., 10 settembre 2019, n. 22577).

L’art. 3-bis, dunque, introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, per cui richiede un riscontro, in concreto ed ex post, della lesione del bene giuridico tutelato (tra le altre, Cass., S.U., 13 dicembre 2010, n. 25091), che, come detto, è da individuarsi, in particolare, nell’immagine, pubblica, del magistrato, ossia nel prestigio di cui il medesimo deve godere nell’ambiente in cui lavora, e, in senso lato, nella “giustizia” (Cass., S.U., 8 ottobre 2018, n. 24672) e, quindi, nel “prestigio dell’ordine giudiziario” (Cass., S.U., 24 giugno 2010, n. 15314).

Va, tuttavia, precisato (come messo in rilievo dalla citata Cass., S.U., n. 13911/2017) che l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari e tale “valutazione va effettuata anche considerando come diversamente si atteggi, in relazione alle ipotesi specifiche di illecito, l’insieme degli interessi generali considerati e protetti dal legislatore disciplinare, che talora delineano intrinsecamente l’offensività di cui la condotta sanzionata è portatrice”.

E’ questa, dunque, la prospettiva che consente l’osmosi tra l’orientamento innanzi ricordato – che, nella valutazione di offensività, ascrive centralità alla portata stessa dell’art. 3-bis e, proprio tramite questa norma, al bene giuridico tutelato dell'”immagine del magistrato” – con l’orientamento, sovente seguito da queste stesse Sezioni Unite (cfr. Cass., S.U., 29 marzo 2013, n. 7934; Cass., S.U., n. 6468/2015, cit.; Cass., S.U., 17 luglio 2019, n. 19228), che incentra l’applicazione della predetta norma in ragione della concreta lesione del bene giuridico a tutela del quale un determinato comportamento è stato in astratto considerato dal legislatore idoneo ad integrare un illecito tipizzato.

Sicchè, ove non ricorra il caso in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare coincida con quello generalmente tutelato dall’art. 3-bis come “immagine del magistrato”, il giudizio di “scarsa rilevanza del fatto” dovrà anzitutto tener conto della consistenza della lesione arrecata a quel bene giuridico “specifico” (siccome tipizzato insieme all’illecito considerato dalla singola fattispecie legale), che se apprezzabile in termini di grave offesa verrà ad esaurire quel giudizio in termini di esclusione dell’esimente.

Diversamente, se l’offesa non sia apprezzabile o non lo sia in termini di gravità, occorrerà verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine, pubblica, del magistrato.

La valutazione sulla “scarsa rilevanza del fatto”, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis si svolge, quindi, su due piani distinti, ma comunicanti, là dove il bene giuridico protetto dalla previsione di un illecito tipizzato si distingua da quello delrimmagine del magistrato”, tutelato immediatamente dal citato art. 3 bis.

Nello specifico della previsione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) – ossia con particolare riferimento ai rapporti tra magistrati – il bene giuridico direttamente tutelato, tramite la “correttezza” delle relazioni interpersonali e, quindi, del loro interagire con le dinamiche proprie dello svolgimento del servizio, è (come già precisato) essenzialmente quello del buon andamento dell’ufficio giudiziario e della sua stessa unitarietà funzionale.

La valutazione sulla “scarsa rilevanza del fatto” potrà, dunque, arrestarsi (escludendo l’operatività dell’esimente) ove la lesione di detto bene giuridico si presenti in termini di gravità; altrimenti, occorrerà verificare se quello stesso fatto abbia ridondato i suoi effetti pregiudizievoli sull’immagine, pubblica, del magistrato e, quindi, dello stesso ufficio giudiziario in cui esso presta servizio.

Giova, comunque, ribadire che, in tutti i casi, però, si richiede necessariamente (come detto) che la lesione del bene giuridico protetto (previsto dalla norma di tipizzazione dell’illecito disciplinare o più in generale tramite il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis) venga apprezzata nella dimensione effettuale determinata dal fatto costituente illecito disciplinare e, dunque, in concreto ed ex post e non già essere frutto di una verifica in astratto ed ex ante.

5.3. – Invero, la sentenza impugnata – sebbene non richiami esplicitamente la norma dell’art. 3 bis – ha, comunque, operato la valutazione sulla “gravità del fatto”, distinguendola da quella sulla “gravità della scorrettezza”, ancorando la prima alla portata dell’illecito nella sua interezza e, quindi, oltre lo scrutinio sui soli “comportamenti gravemente scorretti” (e, quindi, sulla condotta tipizzata dalla norma disciplinare).

Nel far ciò, la Sezione disciplinare ha, quindi, polarizzato la propria attenzione sull’incidenza dell’illecito disciplinare in termini di “potenzialità lesiva dell’immagine di entrambi gli uffici giudiziari” (p. 43) e, comunque, di “concreto e conseguente rischio di arrecare un danno all’immagine e al prestigio dello stesso Ufficio giudiziario di appartenenza” (p. 50), siccome derivanti dal contesto nel quale la grave scorrettezza era maturata (ossia, quello del caso “(OMISSIS)” e, in particolare, dell’ipotizzato contrasto tra le Procure di Roma e Napoli sulla attività del capitano S.).

Una siffatta valutazione, però, non esprime il necessario giudizio, da effettuarsi in concreto ed ex post, anzitutto sulla lesione di “non scarsa rilevanza” del bene giuridico direttamente tutelato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), e, semmai, di quello dell’immagine del magistrato, implicato dallo stesso D.Lgs. n. 109, art. 3-bis rimanendo su un piano di (non consentita) astrattezza nel postulare soltanto una potenziale (o un rischio di) lesione dell’immagine dell’ufficio giudiziario di appartenenza dell’incolpato (o, finanche, della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma), senza dare contezza di ciò che avrebbe sostanziato l’offesa non irrilevante ai beni giuridici implicati.

In ciò, dunque, colgono le censure di parte ricorrente, là dove insistono sull’assenza di una verifica in concreto sulla sussistenza dell’esimente, adducendo, tra l’altro, che la sentenza impugnata non avrebbe considerato che alcuna “frattura interna fra i magistrati coinvolti in quelle vicende” si era determinata, che non era apprezzabile, quale diretta conseguenza della condotta illecita, alcuna lesione effettiva dell’immagine dei dirigenti della Procura di Roma, nè tantomeno di quella di Napoli, nè, ancor prima, dell’immagine dell’incolpato, nei confronti del quale era, peraltro, rimasta immutata la stima dei colleghi e dei collaboratori (tanto che, successivamente, il Procuratore capo Dott. Me. gli aveva affidato il settore dei reati con la P.A.).

6. – Vanno, dunque, rigettati i primi due motivi di ricorso e accolti, per quanto di ragione, i restanti motivi, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Sezione disciplinare del C.S.M., in diversa composizione, che dovrà provvedere a delibare, alla luce dei principi e rilievi innanzi esposti, la sussistenza o meno dell’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis.

P.Q.M.

rigetta i primi due motivi di ricorso e ne accoglie, per quanto di ragione, i restanti;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezioni Unite Civili della Corte suprema di Cassazione, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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