Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31030 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. un., 27/11/2019, (ud. 05/11/2019, dep. 27/11/2019), n.31030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente di Sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20340-2018 proposto da:

O.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA PINETA

SACCHETTI 229/I, presso lo studio dell’avvocato DIEGO GIANNOLA, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS) TERAMO, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA LEONARDO GREPPI 77, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

RUGGERO BIANCHI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIETRO

REFERZA;

– controricorrente –

per modifica del decreto presidenziale n. 11160/2019 del Primo

Presidente della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, depositato il

23/4/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/11/2019 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Antonio Ruggero Bianchi per delega dell’avvocato

Pietro Referza.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Con sentenza pubblicata in data 29/12/2017, n. 31228, le Sezioni Unite di questa Corte hanno dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, per motivi inerenti alla giurisdizione, da O.P. contro la sentenza del Consiglio di Stato del 13/4/2016, n. 1472, resa nel contraddittorio con l’Azienda Unità Sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Teramo (d’ora in avanti solo AUSL), e ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, liquidate in Euro 5000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso spese forfettarie nella misura del 15% e altri accessori di legge.

2.- Contro la sentenza, la O. ha proposto ricorso per revocazione (iscritto al numero di R. G. 20340 del 2018), censurando il capo relativo alle spese; al ricorso ha tuttavia rinunciato con atto notificato alla controparte in data 11/2/2019.

3.- La Ausl non ha aderito alla rinuncia e, nella pendenza del termine per l’udienza di discussione, con decreto pubblicato in data 23/4/2019, n. 11160, il Primo Presidente ha dichiarato l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 391 c.p.c., comma 1, come modificato da ultimo dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. i), n. 1, convertito con modificazioni nella L. 25 ottobre 2016, n. 197; ha quindi condannato la O. al pagamento delle spese, liquidate in Euro 1000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi.

4.- Con istanza notificata alla controparte in data 2/5/2019 la O. ha chiesto, ai sensi dell’art. 391 c.p.c., comma 3, la fissazione dell’udienza.

5.- La AUSL ha resistito al ricorso con memoria difensiva, chiedendo il rigetto dell’istanza e la condanna della ricorrente al pagamento di una somma equitativamente determinata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

6.- In prossimità della pubblica udienza, la O. ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con l’istanza ex art. 391 c.p.c., comma 3, la ricorrente pone due questioni.

1.1.- Con la prima, si duole della sua condanna al pagamento di Euro 1000,00 a titolo di compensi professionali: al riguardo, rappresenta che a) il ricorso per revocazione (iscritto al n. 20340/2018) era di contenuto identico ad altro ricorso (iscritto con il n. di R.G. 20333/2018), proposto contro la sentenza gemella di queste Sezioni Unite n. 31229 del 2017, e anche i controricorsi della AUSL nei rispettivi giudizi erano di contenuto identico; b) contestualmente alla rinuncia al ricorso iscritto al n. R.G. 20340/2018, aveva depositato analogo atto di rinuncia per il ricorso iscritto al n. 20333/2018, anch’esso non accettato dalla AUSL, e questa Corte, con ordinanza pubblicata in data 17/4/2019, n. 10766, aveva dichiarato l’estinzione del processo e condannato la ricorrente al pagamento delle spese, nella stessa misura di 1000,00 per compensi e 200,00 per esborsi.

1.2.- La ricorrente assume che l’identità dell’oggetto dei due giudizi e delle difese spiegate dalla AUSL di Teramo, avrebbe dovuto comportare, in sede di estinzione dei processi, la liquidazione di un unico onorario, oppure una sua forte riduzione, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, commi 2 e 4.

2.- Con la seconda questione, la ricorrente prospetta la erroneità della sua condanna al pagamento, in favore della AUSL, di Euro 200,00 per esborsi, in mancanza di idonea documentazione.

3.- In via preliminare, deve darsi atto che l’ambito della cognizione devoluta a questa Corte è limitato alla pronuncia sulle spese, ferma restando l’estinzione del processo: le parti, infatti, nulla deducono sul merito del provvedimento di estinzione, vale a dire sulla correttezza dei presupposti in base ai quali il Presidente ha assunto il proprio provvedimento (cfr. Cass. Sez.Un., 23/9/2014,n. 19980).

4.- La prima censura è infondata.

4.1.- La norma che viene in rilievo è il D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 4 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6).

Esso, nella parte che qui interessa (comma 2), così dispone: “Quando in una causa l’avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale, il compenso unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20% fino ad un massimo di 10 soggetti, e del 5% per ogni soggetto oltre i primi 10, fino ad un massimo di 20. La disposizione di cui al periodo precedente si applica quando più cause vengano riunite, dal momento dell’avvenuta riunione e nel caso in cui l’avvocato assista un solo soggetto contro più soggetti.”.

L’art. 4, comma 2, ricalca la lettera del precedente D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 5, comma 4, e, prima ancora, del D.M. 5 ottobre 1994, art. 5.

4.2.- Le sentenze di questa Corte che si sono espresse sull’interpretazione delle norme citate hanno affermato che presupposto necessario affinchè possa liquidarsi un unico onorario, aumentato in misura percentuale in ragione del numero delle parti assistite o del numero delle controparti, è che vi sia un unico processo o più processi che, benchè separatamente introdotti, siano stati successivamente riuniti (Cass. 20/9/2017, n. 21829).

Diversamente, nel caso in cui l’avvocato assista la stessa parte in una pluralità di cause, che, pur se aventi ad oggetto identiche questioni di fatto e di diritto, non siano state riunite, la liquidazione degli onorari deve essere effettuata separatamente, in relazione a ciascun procedimento: deve, cioè, escludersi che l’onorario relativo alla seconda causa (ed a quelle eventualmente successive) possa essere determinato nella misura del 20% di quello già liquidato per la prima di esse che sia stata definita, o nella quale il giudice abbia casualmente provveduto ad emettere il primo provvedimento di liquidazione.

4.3.- Le pronunce di segno contrario (Cass. 26/8/2015, n. 17147, seguita da Cass. 27/8/2015, n. 17215, e da Cass. 30/10/2017, n. 25803, quest’ultime due rese in casi di più parti difese dallo stesso avvocato con distinti atti ma in uno stesso processo, sicchè si versa proprio nell’ipotesi attualmente disciplinata dall’art. 4, comma 2) non appaiono persuasive, al cospetto del chiaro tenore letterale della norma e di un’interpretazione che tenga conto dell’evoluzione storica delle disposizioni.

Entrambi questi criteri convergono nel senso di delimitare l’ambito applicativo della norma al solo caso in cui l’avvocato assicuri la difesa di più parti (o, al caso simmetrico, in cui la difesa riguardi un solo soggetto contro più soggetti) all’interno dell’unica causa o di più cause riunite.

4.4.- In primo luogo, viene in rilievo l’incipit della norma, che prevede il compenso unico quando l’assistenza dell’avvocato è prestata a più soggetti “in una causa”, espressione quest’ultima che non può che essere intesa come “uno stesso processo”; in secondo luogo, assume valore determinante il riferimento alla riunione delle cause, quale momento a partire dal quale è consentita la liquidazione unitaria (“La disposizione… si applica quando più cause vengono riunite, dal momento dell’avvenuta riunione…”), desumendosi in tal modo, a contrario, che prima della riunione, ci saranno tanti compensi quante sono le parti assistite o quanti sono i soggetti contro cui la stessa parte è difesa.

4.5.- Rafforzano la tesi argomenti di carattere storico-sistematico.

L’attuale testo della norma, che riproduce in modo pressochè identico la lettera del precedente D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 5, comma 4, e, prima, del D.M. 5 ottobre 1994, art. 5, si pone in modo innovativo rispetto al precedente omologo delle tariffe approvate con D.M. 24 novembre 1990, n. 392 (art. 5, comma 4).

Quest’ultima norma, infatti, prevedeva la parcella unica, con aumento percentuale per ogni parte, “nei casi di assistenza e difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale, anche se non interviene riunione di cause”: l’eliminazione di questo inciso nei DD.MM. successivi e la sua sostituzione con una frase di segno opposto sono chiari indici della volontà normativa di riconoscere il compenso unico solo in caso di riunione e dal momento in cui essa è disposta.

In tal senso, si è già espressa questa Corte in numerose seppur risalenti pronunce (cfr. Cass. 6/12/2002, n. 17354; Cass. 15/04/1999, n. 3758; Cass. 16/7/1997, n. 6482), a cui queste Sezioni Unite intendono dare continuità.

4.6.- Non soccorre a sostenere la tesi della ricorrente la lettera del comma 4 dello stesso art. 4, a norma del quale “nell’ipotesi in cui, ferma l’identità di posizione processuale dei vari soggetti, la prestazione professionale nei confronti di questi non comporta l’esame di specifiche distinte questioni di fatto e di diritto, il compenso altrimenti liquidabile per l’assistenza di un solo soggetto è di regola ridotto del 30%”.

Come si desume dalla formulazione della norma, il potere di riduzione del compenso spettante al professionista che abbia assistito più soggetti aventi identica posizione processuale ha natura discrezionale, sicchè il suo mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 10/1/2017, n. 269; nello stesso senso, Cass. 18/04/2005, n. 8084, in motivazione; Cass. 03/07/2003, n. 10532).

4.7.- Per la stessa ragione, non è censurabile il provvedimento nella parte in cui non sono state compensate le spese di lite, perchè, la compensazione in tutto o in parte delle spese di lite rientra nel potere discrezionale del giudice, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, e non è pertanto sindacabile in cassazione (ex plurimis, cfr. Cass. 23/11/2017, n. 27871, ed ivi ampi richiami).

4.8.- Il motivo di ricorso, nella sua complessiva articolazione, deve pertanto essere rigettato, dovendosi affermare in questa sede che il D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 2, che prevede la liquidazione di un unico compenso nel caso in cui l’avvocato assista più soggetti aventi la stessa posizione processuale o una sola parte contro più soggetti, con possibilità di un suo aumento percentuale per ogni soggetto oltre il primo, presuppone, secondo la formula della norma in esame, le ipotesi dell’unicità della causa o di una pluralità di cause riunite e non è pertanto operante nella diversa ipotesi di assistenza e difesa di più persone aventi la stessa posizione processuale, o di un unico soggetto contro più soggetti, in procedimenti separatamente promossi e non riuniti, ancorchè aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto e di diritto.

5.- Anche la seconda censura è infondata.

Il D.M. n. 55 del 2014, art. 2 prevede che all’avvocato spetti), oltre al compenso, il rimborso delle spese documentate e di una somma per rimborso spese forfettarie, di regola, nella misura del 15% del compenso totale.

Spese documentate sono tutte quelle rese necessarie dal processo, come il contributo unificato, le marche da bollo necessarie durante il procedimento, i compensi versati al consulente di parte, e tutti gli esborsi per i quali è previsto un documento specifico che ne attesti l’esborso e l’ammontare.

5.1.- Diverso è il rimborso c.d. forfetario delle spese generali, che costituisce una componente necessaria delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, e che spetta automaticamente al difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, da ritenersi implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (Cass. 30/05/2018, n. 13693, ed ivi ulteriori richiami; da ultimo, Cass. 04/04/2019, n. 9385).

Come si evince dalla relazione illustrativa al Decreto Ministeriale esaminato, “la previsione di tale rimborso mira a ristorare il professionista di quelle voci di spesa (ad esempio quelle relative alla gestione dello studio) che sono effettive ma non documentabili”.

Esse attengono a costi di carattere generale, nel senso che non sono strettamente inerenti alla singola pratica ma rientrano nelle spese necessarie per la conduzione dello studio (come stipendi dei dipendenti, assicurazione professionale, utenze, materiale di cancelleria, ecc.).

5.2.- Vi sono tuttavia altre spese, diverse tanto da quelle generali quanto da quelle documentate, che sfuggono ad precisa elencazione ma che di fatto sono sostenute dal professionista nello svolgimento del singolo incarico (si pensi ad esempio, agli esborsi per gli spostamenti necessari per raggiungere l’ufficio giudiziario in occasione delle udienze o degli adempimenti di cancelleria, diversi dalle spese di viaggio e trasferta indicate nel D.M. n. 55 del 2014, art. 27, ai costi per fotocopie, per l’invio di mail o per comunicazioni telefoniche inerenti al processo e sostenute al di fuori dello studio): per esse, in ragione della loro variabilità e scarsa rilevanza economica, nonchè per l’assenza di documenti fiscali che ne attestino l’esborso, sarebbe oltremodo difficile chiedere uno specifico rimborso. L’impossibilità o la rilevante difficoltà di provare il preciso ammontare di tali costi, unita alla considerazione della loro effettiva ricorrenza secondo l’id quod plerumque accidit, conduce ad una loro liquidazione equitativa, che nella specie risulta adeguata e congrua, trattandosi di procedimento dinanzi al giudice di legittimità.

6.-Quanto alla liquidazione dei compensi compiuta nel decreto presidenziale di estinzione, essa è congrua rispetto all’attività svolta e, contrariamente a quanto opina la AUSL nella sua memoria difensiva, rispettosa dei valori minimi della tariffa professionale, ove si consideri, da un lato, che il valore della controversia deve essere determinato – in ossequio al principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata – sulla base del disputatum (che, nella specie, è dato dall’importo delle spese liquidate da questa Corte nella sentenza oggetto di revocazione, ossia Euro 5000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi: cfr. sul criterio di determinazione del valore della controversia, Cass. 23/11/2017, n. 27871, Cass. 12/06/2015, n. 12227), e che, dall’altro, nessun compenso spetta per la fase decisionale relativa al giudizio di revocazione, essendo la rinuncia intervenuta prima dell’udienza di discussione.

7.-Il ricorso deve dunque essere rigettato. Le spese di questo procedimento devono essere poste a carico della ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza e nella misura indicata nel dispositivo.

Non si ritiene, invece, che sussistono i presupposti per la condanna della O. ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

La responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, pur non richiedendo la domanda di parte nè la prova del danno, esige in ogni caso, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicchè possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. Sez.Un. 20/04/2018, n. 9912; Cass. 18/1/2010 n. 654; Cass. Sez. Un. 11/12/2007 n. 25831).

Nel caso in esame, non si ritiene che sussistano queste condizioni, in presenza di un indirizzo giurisprudenziale non del tutto univoco sull’interpretazione dell’art. 4.

Poichè il procedimento in esame non è un’impugnazione, ma si risolve solo nella richiesta di trattazione del ricorso in pubblica udienza (in tal senso, Cass. Sez.Un. 19980/2014, cit.), esso non è soggetto all’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 1000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e agli altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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