Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31012 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 27/11/2019, (ud. 15/10/2019, dep. 27/11/2019), n.31012

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, quale successore ex

lege dell’INPDAP, in persona del Presidente e legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA

29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e

difeso dall’Avvocato PAOLA MASSAFRA;

– ricorrente –

contro

T.G., B.D., P.P., VA.AD.,

F.A., FA.RU., G.M.,

BO.FR., D.S.N., GA.VI., C.G., tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo

studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

S.P., P.F., BA.SA., V.M.,

VA.VI., M.A., D.M., DE.ST.GR.,

L.V., LA.GE.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4140/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/06/2014 R.G.N. 8911/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/10/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

C.A., che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato PAOLA MASSAFRA;

udito l’Avvocato ANDREA MATRONOLA per delega verbale Avvocato PIER

LUIGI PANICI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con il ricorso per cassazione l’I.N.P.S., quale successore ex lege dell’I.N.P.D.A.P., ha esposto che alcuni dipendenti dell’Istituto, per quanto qui ancora interessa, avevano agito davanti al Tribunale di Roma nei confronti dell’ente, al fine di ottenere il riconoscimento di differenze retributive, per i titoli di cui infra, maturate dopo l’1.7.1998.

Il Tribunale denegava la propria giurisdizione, ma la sentenza veniva gravata da alcuni dei dipendenti e ne seguiva la riforma da parte della Corte d’Appello di Roma, con pronuncia poi confermata in sede di legittimità.

In esito alla predetta sentenza di appello, i dipendenti, ivi compresi – ha ancora precisato il ricorrente – cinque di essi che non avevano impugnato la declinatoria di giurisdizione resa in primo grado, riassumevano il processo di merito ancora presso il Tribunale di Roma che accoglieva in favore di tutti la domanda dispiegata.

Proposto appello avverso tale sentenza, la Corte d’Appello di Roma ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dall’I.N.P.S. (quale successore di I.N.P.D.A.P.) nei confronti dei predetti cinque dipendenti, respingendo viceversa nel merito il gravame proposto verso gli altri.

2. L’I.N.P.S. ha quindi proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso congiunto di uno dei predetti cinque dipendenti e degli altri addetti in cui favore vi era stata pronuncia favorevole di merito in appello. L’I.N.P.S. ha altresì depositato memoria illustrativa sia per la fase camerale, cui la controversia era stata originariamente avviata, sia per la successiva trattazione in udienza pubblica.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’I.N.P.S. afferma, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata con riferimento alla parte della pronuncia con cui è stata dichiarata l’improcedibilità dell’appello verso alcuni dei lavoratori ( P.P., D.M., De.Gr., L.V. e La.Ge.).

1.1 In fatto è accaduto che la Corte d’Appello ha dapprima ritenuto che la notifica del gravame ai predetti fosse stata erroneamente eseguita presso il procuratore dei lavoratori indicato nella sentenza di primo grado, disponendone la rinnovazione entro un termine contestualmente fissato.

La rinnovazione tuttavia non veniva eseguita e, in esito alla mancata comparizione delle parti, la causa veniva cancellata dal ruolo.

L’I.N.P.S. provvedeva quindi alla riassunzione della stessa, eseguendo la notifica anche ai lavoratori nei cui confronti era stata disposta la rinnovazione, ma la Corte territoriale, prendendo atto della violazione del termine originariamente concesso, ritenuto perentorio, dichiarava in parte qua improcedibile l’appello.

1.2 L’ente previdenziale, con il motivo in esame, sostiene, da un primo punto di vista, che la Corte di merito avrebbe ingiustificatamente disposto la rinnovazione della prima notifica dell’atto di appello nei riguardi dei lavoratori in questione, in quanto la stessa essa era stata eseguita presso il procuratore indicato nella sentenza di primo grado come domiciliatario dei medesimi.

In proposito la Corte territoriale, sul presupposto che i predetti lavoratori non fossero più parti del giudizio in quanto essi non avevano partecipato all’impugnativa della pronuncia declinatoria della giurisdizione originariamente emessa dal Tribunale di Roma e poi riformata, ha ritenuto che i difensori indicati nella sentenza “non potevano avere e di fatto non avevano procura alcuna per quei cinque lavoratori”.

Per contrastare tale affermazione non è sufficiente il richiamo che fa il ricorrente all’intestazione della sentenza di primo grado, in quanto piuttosto l’I.N.P.S. avrebbe dovuto affermare che la procura in questione vi fosse e dimostrarlo mediante produzione di copia dell’atto; ma in atti manca sia tale affermazione, sia la conseguente dimostrazione.

1.3 In ordine logico l’I.N.P.S. sostiene poi che la Corte avrebbe erroneamente ritenuto che la notifica in rinnovazione rispetto alla successiva udienza fissata potesse avere corso.

Infatti, afferma il ricorrente, la data dell’udienza di prosecuzione dattiloscritta nel provvedimento e rispetto alla quale la notifica avrebbe dovuto essere eseguita, era quella del 1.12.2012, mentre poi vi era stata correzione a penna di essa in quella del 1.2.2012.

L’ente sostiene quindi di avere scadenzato la rinotifica rispetto alla data del 1.12.2012, salvo poi accorgersi di quanto verificatosi, allorquando non era però più possibile procedere alla notifica per l’udienza del 1.2, sicchè era stato solo con la riassunzione della causa dopo la cancellazione che la notifica aveva infine avuto corso.

La Corte territoriale, sul punto, ha respinto le difese dell’ente, sostenendo che, anche a voler ritenere che il medesimo avesse erroneamente inteso l’udienza del 1.2.2012 quale udienza del 1.12.2012, comunque non aveva fornito prova di avere operato la notifica nel termine quale calcolato a ritroso dall’udienza del 1.12.2012, atteso che anche la notifica attuata con il ricorso in riassunzione era comunque successiva.

In altre parole, il senso della pronuncia della Corte d’Appello è quello per cui anche a voler ritenere, in via di ipotesi, che l’I.N.P.S. fosse caduto incolpevolmente in errore, il termine calcolato tenuto conto dell’errore commesso non sarebbe stato comunque rispettato.

Da ciò deriva però che l’ente, nel proporre ricorso per cassazione ed al fine di assicurare la dovuta concretezza dello stesso, avrebbe dovuto fornire elementi idonei a comprovare l’effettiva incolpevolezza dell’errore, ovverosia che la correzione a penna della data di rinvio fosse tale appunto, per le circostanze in cui essa era avvenuta, da determinare il predetto errore.

Nulla è però detto in ricorso su quali siano state le circostanze in cui tale correzione sarebbe avvenuta, ovverosia se a causa di un errore di scrittura originario (a fronte di un’ordinanza pronunciata in udienza – come afferma lo stesso ricorso dell’ente l’ordinanza fu emessa “alla udienza del 10/11/10” – con la data esatta del 1.2.2012) oppure se l’errore fu del giudice d’appello e fu poi corretto, precisandosi quando e come. E’ dunque impossibile qualsivoglia apprezzamento sulle circostanze esatte in cui si inquadra l’omesso adempimento dell’incombente rispetto all’udienza di rinvio del 1.2.2012 e ciò è assorbente, in quanto la violazione di un termine che, come si dirà, ha natura perentoria, comporta di per sè, ove non si provi l’incolpevolezza, l’effetto decadenziale.

1.4 Infine l’I.N.P.S. sostiene che rispetto all’appello nel rito del lavoro non troverebbe applicazione l’art. 291 c.p.c. e quindi il termine per la rinnovazione della notificazione non potrebbe dirsi perentorio.

Si tratta di assunto che è in contrasto con quanto ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 aprile 2013, n. 8125), consolidatasi nel senso che una tale vicenda resta regolata dall’art. 291 c.p.c. (Cass. 17 aprile 2018, n. 9404; Cass. 28 agosto 2013, n. 19818), ma comunque orientata a ritenere perentorio il termine anche sulla base del più risalente indirizzo che ravvisava il fondamento della sua concessione nell’art. 421 c.p.c. (Cass. 1 marzo 2006, n. 4543; Cass. 7 giugno 1999, n. 5585).

1.5 In definitiva il ricorso avverso la pronuncia di improcedibilità del gravame proposto dall’I.N.P.S. nei riguardi di P.P., D.M., De.Gr., L.V. e La.Ge. va respinto.

Il che ovviamente non esclude che, se l’indicazione dei predetti nella sentenza di primo grado fosse stata frutto di errore materiale – come la Corte di Cassazione non può verificare, non essendo competente in proposito – esso possa ancora oggetto di correzione, ma nella sede prevista dal codice di rito (art. 287 c.p.c.).

2. Il secondo ed il terzo motivo sono destinati dall’I.N.P.S. alla censura della restante parte di pronuncia con la quale la Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda dei lavoratori.

2.1 I predetti lavoratori avevano agito deducendo di essere dipendenti I.N.P.D.A.P. con rapporto di lavoro privatistico disciplinato dal c.c.n.l. per i portieri dipendenti da proprietari di fabbricati.

Essi, sostenendo di essere stati tuttavia addetti non alle ordinarie mansioni di portierato, ma alle attività proprie dell’ausiliario di amministrazione, insistevano per il riconoscimento in loro favore del trattamento previsto dalla contrattazione collettiva recepita dal D.P.R. n. 285 del 1988 per i dipendenti I.N.P.D.A.P., con domanda rispetto alla quale la Corte d’Appello di Roma, nella sentenza inter partes n. 2501/1994, poi confermata dalla S.C., riteneva la giurisdizione ordinaria con riferimento al periodo successivo al 1.7.1998.

2.2 La Corte territoriale, nel rigettare l’appello avverso la pronuncia di primo grado di accoglimento della predetta domanda, ha ritenuto che il risalire delle mansioni in concreto svolte dai ricorrenti non ad edifici di uso abitativo, cui si applicava il c.c.n.l. per i proprietari di stabili, ma ad edifici ad uso ufficio e per mansioni funzionali alle attività organizzative e produttive dell’ente, impedisse l’applicazione del predetto contratto collettivo di natura privatistica. Non poteva pertanto che trovare applicazione la disciplina comune ai restanti dipendenti addetti a mansioni proprie delle attività istituzionali dell’I.N.P.D.A.P. e quindi, il D.P.R. n. 285 del 1988.

2.3 L’I.N.P.S., con il secondo motivo lamenta il fatto che la Corte territoriale avesse ritenuto i motivi di gravame privi di specificità ed a tal fine riproduce il proprio ricorso in appello, denunciando l’omessa pronuncia su di essi.

Con il terzo motivo, viceversa, avendo la Corte territoriale manifestato, nei termini sopra detti, il convincimento, anche giuridico, rispetto alla fondatezza della domanda dispiegata, l’ente censura la sentenza impugnata sostenendo la violazione dell’art. 1362 c.c. e ss. e dunque l’erronea interpretazione della contrattazione collettiva attinenti ai portieri di fabbricato, nonchè la violazione della L. n. 70 del 1975, del D.P.R. n. 411 del 1976 e del D.P.R.n. 285 del 1988, nonchè dell’art. 434 c.p.c., assumendo in sostanza che il menzionato c.c.n.l. di diritto privato troverebbe comunque applicazione ai portieri, seppure non addetti a fabbricati utilizzati da terzi e restando tale contratto collettivo salvaguardato, nella propria applicazione, dalle previsioni del D.P.R. n. 411 del 1976.

2.4 Tali motivi, risultando tra loro connessi, vanno trattati congiuntamente.

3. In proposito, è consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui, pur dopo la privatizzazione del pubblico impiego, non è impedita la stipula di contratti di lavoro con la P.A destinati ad essere regolati dalla sola disciplina privatistica e non dalla normativa generale, da ultimo contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001.

Ciò è ammesso quando vi sia una norma che lo preveda (v. Cass., S.U., 15 aprile 2010, n. 8985) ipotesi che anzi, ove sussistente, anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego pubblico non consente una diversa qualificazione del rapporto stesso, in ipotesi sviluppata valorizzando la natura del datore di lavoro e lo stabile inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’ente, perchè risulta essere prevalente, rispetto a detti criteri, la definizione normativa (da ultimo Cass. 22 novembre 2018, n. 30271; in precedenza, Cass., S.U., 8985/2010 cit.; Cass., S.U., 24 novembre 2009, n. 24670).

Al contempo si è altresì precisato che la disciplina generale sulla privatizzazione del pubblico impiego (qui da riferire al D.Lgs. n. 29 del 1993 ed al D.Lgs. n. 165 del 2001) può non essere applicata allorquando i rapporti di lavoro – ritenuti afferire a casi “marginali e sostanzialmente anomali” – siano intrattenuti per ragioni non riconducibili alle specifiche finalità istituzionali dell’ente interessato (Cass. 27 giugno 2007 n. 14809).

Tutti i casi predetti possono essere riportati al pubblico impiego (v., proprio con riferimento ai portieri degli enti previdenziali, ai fini del riparto di giurisdizione a favore del giudice amministrativo secondo le regole dell’epoca, tra le molte, Cass., S.U., 28 novembre 1990, n. 11459), ma si caratterizzano per l’eccezionale destinazione ad un regolamento negoziale di stampo esclusivamente privatistico (v., sempre rispetto ai portieri, Cass. 22 aprile 2010, n. 9555, che ha ritenuto il rapporto a tempo determinato di pubblico impiego ma soggetto a disciplina secondo le regole del rapporto privato, tra cui la conversione a tempo indeterminato).

La vicenda oggetto di causa si inserisce coerentemente in tale quadro di fondo, in quanto la sottrazione della disciplina a quella propria dei rapporti di lavoro con l’ente pubblico di riferimento fu ab origine impostata dal D.P.R. n. 411 del 1976, art. 51, secondo cui la disciplina del rapporto di lavoro pubblico, nell’ambito qui interessato del c.d. parastato, non si applicava “ai dipendenti con rapporto di lavoro regolato da contratti collettivi di diritto privato e instaurato per lo svolgimento di attività privatistiche dell’ente o per servizi di istituto del tutto peculiari”.

3.1 Vi è però necessità di definire che cosa accada, rispetto ai rapporti di lavoro così instaurati, se, dopo l’assunzione, segua (fin dall’inizio o in corso di rapporto) l’adibizione a mansioni diverse da quelle per le quali vi fu l’eccezionale instaurazione in forme privatistiche ed in particolare se vi sia assegnazione a compiti inerenti all’attività amministrativa tipica dell’ente pubblico considerato.

In proposito va intanto detto che il rapporto di pubblico impiego privatizzato, di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993 e D.Lgs. n. 165 del 2001, sorge in stretta relazione tra una dotazione organica (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4, già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 6) e lo svolgimento di procedure concorsuali o selettive (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 36), secondo una dinamica indirizzata al perseguimento degli scopi istituzionali dei diversi enti e quindi tendenzialmente destinata a rimanere estranea alle ipotesi eccezionali qui in esame.

Affinchè un rapporto instaurato nelle forme esclusivamente privatistiche possa evolversi in un rapporto tipico di pubblico impiego privatizzato, non è dunque sufficiente che, di fatto, vi sia svolgimento di mansioni inerenti all’attività amministrativa propria dell’ente di riferimento, occorrendo quanto meno una previsione normativa che disponga in tal senso, anche in ragione dell’eventuale assenza di un originario concorso o selezione pubblica ed in linea con la previsione dell’art. 97 Cost., u.c., u.p..

3.2 Nel caso dei contratti di diritto privato di chi sia stato assunto come portiere di un ente previdenziale, tale previsione normativa, peraltro destinata a riguardare il periodo successivo all’introduzione del ricorso di primo grado (che è del 1999) è da ravvisare nella L. n. 388 del 2000, art. 43, comma 19, secondo cui “i lavoratori, già dipendenti degli enti previdenziali, addetti al servizio di portierato o di custodia e vigilanza degli immobili che vengono dismessi, di proprietà degli enti previdenziali, restano alle dipendenze dell’ente medesimo”.

3.3 Tale norma, prevedendo la prosecuzione dei rapporti di lavoro instaurati in forme esclusivamente privatistiche, pur con l’adibizione a mansioni diverse e dunque attinenti all’attività amministrativa propria dell’ente datore di lavoro, comporta il fuoriuscire dei rapporti stessi dall’ambito di quel riferimento ad attività “privatistiche dell’ente o servizi di istituto del tutto peculiari” che, come detto, ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 51, caratterizzava le eccezionali ipotesi di contratti di caratura esclusivamente civilistica.

Poichè non vi è dubbio che la disciplina del lavoro pubblico privatizzato, di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993 ed al D.Lgs. n. 165 del 2001, costituisca lex generalis, l’effetto dell’assegnazione ex lege a mansioni proprie dell’attività amministrativa tipica dell’ente di riferimento porta naturalmente con sè la corrispondente trasformazione del rapporto di lavoro, che resta dunque ricondotto alle forme comuni dell’impiego pubblico privatizzato.

Pertanto, anche la successiva aggiunta apportata all’art. 43, comma 19, cit. dalla L. n. 3 del 2003, art. 7, comma 4, secondo cui “si applica quanto disposto dal D.Lgs. 20 marzo 2001, n. 165, artt. 33 e 34”, costituisce precisazione normativa di uno sviluppo già insito nella pregressa disposizione dell’art. 43 nella originaria formulazione.

Il riferimento della norma agli “addetti al servizio di portierato” ed al fatto della dismissione degli immobili, quale ragione della permanenza in servizio, non può escludere peraltro che gli effetti così delineati si verifichino anche rispetto a chi, già all’epoca non più addetto a quelle mansioni, fosse tuttavia titolare di un rapporto stipulato per il portierato ed in forme di diritto privato.

Orienta verso tale interpretazione estensiva sia il fatto che anche in tali casi si è di fronte all’allontanamento delle mansioni concrete da quelle rispetto alle quali eccezionalmente si è addivenuti all’utilizzazione del contratto privatistico, sia la comune ratio diretta al mantenimento in servizio dei titolari di contratti civilistici di portierato in sè non più utili come tali per la P.A., a fortiori sussistente nei casi di chi già prima, seppure assunto in quelle forme, fosse stato poi adibito ad altre mansioni.

I rapporti instaurati con contratti di portierato, comunque svoltisi nel corso del tempo, a partire dall’entrata in vigore dell’art. 43, comma 19, cit., sono dunque divenuti a tutti gli effetti rapporti di pubblico impiego privatizzato, con applicazione consequenziale di ogni previsione, anche retributiva, ad esso inerente.

4. Nel caso di specie si pone peraltro ratione temporis l’ulteriore problema di stabilire se lo svolgimento di mansioni diverse e relative all’attività amministrativa, dopo l’assunzione per l’attività di portierato e prima della menzionata trasformazione a tutti gli effetti in rapporti tipici di pubblico impiego privatizzato, comporti viceversa effetti sotto il profilo del trattamento retributivo rivendicato in causa dalla odierna ricorrente.

In proposito va detto che l’eccezionalità di un impiego pubblico regolato da disciplina esclusivamente privatistica, giustificato esclusivamente dalla funzionalità rispetto ad attività estranee alle specifiche finalità istituzionali dell’ente interessato, ha quale conseguenza l’illegittimità dell’assegnazione di mansioni che siano viceversa proprie di tali finalità tipiche.

4.1 L’effetto di tale illegittimità è poi quello di comportare, in parte qua ed in ragione del disposto dell’art. 2126 c.c., l’applicazione, a tutela del lavoratore, del trattamento retributivo proprio delle mansioni quali concretamente svolte, secondo la disciplina propria del rapporto entro cui la corrispondente attività di lavoro dovrebbe trovare inquadramento.

Pertanto, il rapporto, pur proseguendo nella matrice civilistica sua propria, impone, nei periodi in cui le mansioni svolte siano quelli proprie dell’attività funzionali alle tipiche finalità istituzionali dell’ente, il riconoscimento del trattamento retributivo di cui al c.c.n.l. degli enti pubblici non economici, secondo l’inquadramento corrispondente al lavoro quale in concreto svolto e secondo la disciplina che, di tempo in tempo, si riporta al D.P.R. n. 285 del 1988, poi gradualmente transitata, attraverso il disposto del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72, nella successiva contrattazione collettiva del rapporto di pubblico impiego privatizzato.

E’ dunque in questo senso che va corretta la motivazione di merito sviluppata dalla Corte distrettuale, pur confermandosi quanto da essa deciso, favorevolmente rispetto alle rivendicazioni retributive avanzate dai lavoratori.

5. Ne deriva la reiezione del ricorso osservandosi, quanto al secondo motivo, che comunque la deduzione di un asserito vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. sui motivi di appello non potrebbe trovare accoglimento, stante l’infondatezza, sopra ampiamente delineata, delle ragioni giuridiche dell’ente afferenti ai motivi di cui si afferma il mancato esame.

6. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore antistatario avv. Pier Luigi Panici.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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