Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30996 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 27/11/2019, (ud. 08/10/2019, dep. 27/11/2019), n.30996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19408-2015 proposto da:

IL GAZZETTINO S.P.A, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO, 23/A,

presso lo studio dell’avvocato GUIDO ROSSI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANDREA BORTOLUZZI;

– ricorrente principale –

contro

M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, V.AMEDEO CRIVELLUCCI

21, presso lo studio dell’avvocato ANDREA LAMPIASI, rappresentato e

difeso dall’avvocato CATIA SALVALAGGIO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

IL GAZZETTINO S.P.A;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 655/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 24/01/2015 R.G.N. 1071/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/10/2019 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto principale, rigetto

ricorso incidentale;

udito l’Avvocato ANDREA BERTOLUZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Venezia in parziale accoglimento delle domande proposte da M.L. nei confronti della s.p.a. Il Gazzettino, accertava che il ricorrente, redattore dell’omonima testata, aveva subito un demansionamento nel periodo 1/8/2007-30/6/2010 e condannava la parte datoriale al risarcimento del danno all’immagine professionale, nella misura del 20% della retribuzione spettante.

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che con sentenza resa pubblica il 24/1/2015, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società, condannava quest’ultima al risarcimento del danno in favore del M., in relazione al ridotto periodo 1/8/200710/3/2009.

La Corte territoriale perveniva a tale convincimento sul rilievo che il ricorrente, fino al mese di agosto 2007, aveva svolto attività di giornalista professionista in qualità di inviato nel settore sportivo (segnatamente basket) firmando gli articoli, mentre, successivamente, era stato adibito esclusivamente ad attività di desk. Dopo aver scrutinato il materiale probatorio acquisito e condividendo gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza, a fondamento del decisum, ribadiva che la nozione di equivalenza fra le mansioni legittimante l’esercizio dello jus variandi, andava riferita non solo all’oggettivo valore professionale, ma anche alla attitudine delle mansioni ascritte a consentire la piena utilizzazione o l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.

Nell’ottica descritta, la Corte distrettuale deduceva che per un giornalista professionista redattore l’invio in trasferta con possibilità di attingere a varie fonti di conoscenza e descrizione degli eventi come appresi in diretta, oltre alla possibilità di firmare i relativi articoli, costituivano espressione di acquisita professionalità, che l’adibizione solo a mansioni cd. di desk non aveva tutelato, in violazione dei dettami di cui all’art. 2103 c.c..

Per la cassazione di tale decisione, propone ricorso “Il Gazzettino s.p.a.” sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso il M. che dispiega ricorso incidentale sostenuto da unico motivo al quale Il Gazzettino s.p.a. oppone difese ai sensi dell’art. 371 c.p.c..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

La causa, chiamata in sede di adunanza camerale, è stata rinviata alla data odierna per la trattazione in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e art. 2697 c.c. nonchè degli artt. 414 e 421 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che la Corte di merito, pur correggendo l’iter motivazionale seguito sul punto dal giudice di prima istanza, non abbia disposto corretta applicazione del principio secondo cui, ove si controverta in tema di illegittimo esercizio dello jus variandi, sul lavoratore grava l’onere di provare i fatti allegati ed indicativi del denunciato demansionamento, mentre alla parte datoriale compete dimostrare di aver legittimamente esercitato il potere direttivo. Si deduce che erroneamente il giudice del gravame avrebbe “posto a carico di parte datoriale l’onere di provare che non vi fosse stato demansionamento”, accentuando i poteri istruttori officiosi sanciti dall’art. 421 c.p.c. e ritenendo sulla scorta di essi, dimostrato il disposto demansionamento.

2. Il secondo motivo prospetta violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si lamenta che la Corte distrettuale non abbia “risposto alle censure mosse dalla società sulla erronea inversione dell’onere probatorio contenuta nella sentenza di primo grado” illegittimamente integrando la motivazione della sentenza di primo grado e così incorrendo nel vizio di extra petizione.

3. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattesi.

E’ infatti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio alla cui stregua la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo (cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni), non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (ex plurimis, vedi Cass.5/9/2006, n. 19064; Cass. 17/6/2013, n. 15107; Cass. 21/2/2018, n. 4241).

Nel caso di specie la Corte distrettuale ha accertato, con argomentare sovrapponibile a quello già elaborato dal giudice di prima istanza, che il ricorrente, prima dell’agosto 2007 firmava articoli ed era inviato a seguire eventi sportivi (in particolare basket), attività queste, non più espletate successivamente.

Ha al riguardo dedotto che i fatti descritti ed allegati dal ricorrente, non oggetto, peraltro, di alcuna contestazione da parte convenuta, erano risultati confermati alla stregua della attività istruttoria espletata.

In tale prospettiva, l’eventualità che la valutazione delle acquisizioni probatorie da parte del giudicante sia stata incongrua e che il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata avesse assolto l’onus probandi non integra, quindi, violazione dell’art. 2697 c.c., ma soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente nei rigorosi limiti sanciti dal novellato testo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella interpretazione resa dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053).

Deve, pertanto, escludersi, alla stregua delle esposte considerazioni, che il giudice del gravame sia incorso nella enunciata violazione dei principi evocati in tema di ripartizione dell’onere della prova, così come delle norme che disciplinano l’esercizio officioso dei poteri istruttori nel processo del lavoro, essendosi limitato ad espletare, congruamente, l’attività ermeneutica del quadro probatorio delineato in prime cure che ad esso compete.

4. Nè può sottacersi, per esigenze di completezza espositiva che il secondo motivo è connotato da ulteriori profili di inammissibilità, giacchè pur prospettando un error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. non reca alcun riferimento alle conseguenze (nullità del procedimento e della sentenza) derivanti dall’errore sulla legge processuale.

Va infatti richiamato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui in questa ipotesi, pur non essendo indispensabile la formale ed esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è peraltro necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dal vizio denunciato, dovendosi reputare inammissibile il gravame che si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. S.U. 24/7/2013, n. 17931; v. anche Cass. 17/9/2013, n. 21165, Cass. 28/09/2015 n. 19124).

Sotto tutti i profili delineati, i motivi vanno, dunque, disattesi.

5. Con la terza censura è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 5 c.c.n.l. giornalisti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che nell’esprimere un giudizio in ordine alla equivalenza delle mansioni svolte dal giornalista, la Corte distrettuale si sia attenuta ad un concetto meramente formale e non sostanziale, tralasciando di considerare le competenze professionali proprie della figura di redattore, in concreto espletate dal dipendente. Si deduce che dal quadro istruttorio definito in prime cure era emerso che il M., anche dopo l’agosto 2007, aveva continuato a svolgere mansioni di redattore, occupandosi della cronaca sportiva che comprendeva il preponderante lavoro di “desk”, tipico della qualifica di redattore, espletando le stesse mansioni che già in precedenza gli erano state attribuite quando non veniva incaricato di seguire un evento sportivo.

Si precisa al riguardo, che nel contenuto tipico della attività giornalistica di redattore – come affermato anche in precedente pronuncia di legittimità rientra sicuramente l’attività di elaborazione, trattazione e sistemazione del materiale proveniente dalle redazioni decentrate, come pure il taglio, la revisione del testo, la scelta e la collocazione in pagina dell’articolo, la titolazione dei pezzi e dei servizi (cd. compiti di desk); attività queste espletate dal M. nel periodo controverso, sicchè nessuna concreta dequalificazione poteva ritenersi configurabile nella fattispecie.

6. Anche tale doglianza non può essere condivisa.

La ricorrente ripropone in questa sede le osservazioni poste a fondamento dell’atto di appello, con le quali aveva avvalorato la tesi relativa alla identità dei compiti assegnati al giornalista sia nel periodo anteriore che successivo all’agosto 2007, e della insussistenza di alcun profilo di illegittimità nell’esercizio dello jus variandi, procedendo ad una ricognizione delle testimonianze raccolte nel giudizio di merito ritenute idonee a corroborare l’assunto relativo alla insussistenza di alcun mutamento – nell’arco temporale di riferimento – delle mansioni a lui ascritte.

Alle doglianze formulate in sede di gravame, la Corte distrettuale ha congruamente dato riscontro, stigmatizzando la angusta prospettiva delle critiche formulate, con il quale la società aveva fatto riferimento esclusivamente ad un criterio di equiparazione formale delle mansioni, ritenute rientranti – astrattamente – tutte nell’ambito della qualifica rivestita di redattore.

I giudici del gravame, richiamando i più significativi approdi della giurisprudenza di legittimità, hanno correttamente chiarito che ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente.

Nell’ottica descritta, dopo aver proceduto ad una ricognizione del quadro probatorio acquisito, hanno quindi condiviso il giudizio espresso dal giudice di prima istanza secondo cui per un redattore, pur non rivestente la qualifica di inviato quale il ricorrente, l’invio in trasferta con possibilità di attingere a varie fonti di conoscenza nonchè la possibilità di firmare i relativi articoli, costituivano espressione di acquisita professionalità che l’adibizione a mansioni solo di desk non aveva in concreto tutelato.

Le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di merito risultano conformi a diritto perchè coerenti coi dicta di questa Corte in tema di “ius variandi” del datore di lavoro, secondo cui (vigente l’art. 2103 c.c. nella formulazione anteriore alla novella operata con il D.Lgs. n. 81 del 2015) il divieto di variazione in “peius” opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori sicchè nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali. A tal fine l’indagine del giudice di merito deve essere rivolta a verificare i contenuti concreti dei compiti precedenti e di quelli nuovi onde formulare il giudizio di equivalenza, da fondare sul complesso della contrattazione collettiva e delle determinazioni aziendali (cfr. in tali sensi: Cass. 2/10/2002 n. 14150, cui adde, Cass. 30/7/2004 n. 14666, Cass. 3/2/2015 n. 1916, Cass. 8/6/2009 n. 13173, Cass. 6/11/2018 n. 28240).

Al riguardo è stato poi precisato che le nuove mansioni possono considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anzi di arricchire, il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (cfr. Cass. 28/3/1995 n. 3623; Cass. 30/7/2004 n. 14666, Cass. 11/4/2005 n. 7351).

L’accertamento svolto dalla Corte del merito si pone nel solco del ricordato insegnamento e risulta sorretto da una motivazione congrua che fa leva proprio sul depauperamento professionale di cui in concreto il M. aveva risentito – come emerso dalle testimonianze e dai dati istruttori acquisiti per essere stato adibito esclusivamente a compiti di desk, dopo essere stato abitualmente inviato ad assistere ad eventi sportivi ed a firmare gli articoli, con pregiudizio del corredo professionale acquisito.

In tal senso il motivo, con il quale si prospetta un error in judicando nel quale sarebbe incorsa la Corte di merito, tende invece a pervenire ad una rivalutazione del compendio probatorio acquisito, non consentita in questa sede di legittimità.

7. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1218,1223,1226,2043,2059,2087,2697 e 2729 c.c. nonchè dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito per aver ritenuto comprovato il rivendicato danno all’immagine professionale valorizzando la categoria della prova presuntiva.

8. Anche tale critica non può essere condivisa.

E’ infatti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il principio in base al quale il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (ex multis, vedi Cass. 3/1/2019 n. 21).

Nello specifico, la Corte di merito ha dato atto che la pretesa attorea non era stata basata su di una nozione di danno in re ipsa, ma era desumibile da circostanze specifiche addotte dal lavoratore e ritenute suscettibili di valutazione presuntiva oltre che in parte, anche suffragate da prova (durata del demansionamento di diciassette mesi, venir meno dell’esercizio ed affinamento della capacità di informare e di raccogliere informazioni, danno all’immagine ed all’Identità professionale nei confronti di colleghi e suoi lettori”, per non aver potuto redigere articoli dopo oltre trent’anni di servizio).

In tal senso il giudice di merito ha statuito in conformità a diritto, con argomentare congruo, che si sottrae ad ogni censura nella presente sede.

8. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il M. censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,414 e 420 c.p.c..

Lamenta che la Corte distrettuale, accogliendo il quarto motivo di appello della società, abbia escluso il risarcimento del danno da demansionamento per il periodo successivo al trasferimento a Treviso. Sostiene di avere, nelle note conclusive di primo grado, ridotto la domanda risarcitoria in ragione del pensionamento, non essendo pertanto necessaria alcuna autorizzazione ai sensi dell’art. 420 c.p.c., e si duole che la Corte di merito abbia omesso di esaminare i dati relativi al contenuto delle mansioni svolte, emersi in sede istruttoria e di note conclusive.

9. Il ricorso è inammissibile, perchè notificato oltre il termine di legge di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, la ammissibilità del ricorso incidentale è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini – l’abbreviato o l’annuale – di impugnazione, di guisa che deve ritenersi ammissibile l’impugnazione tardiva che abbia rispettato il termine di cui agli artt. 370 e 371 cit., mentre non lo è quella tempestiva ai sensi degli artt. 325 e 327 c.p.c. che però non abbia rispettato il suddetto termine di quaranta giorni (Cass. 29/3/1995 n. 3738, Cass. S.U. 20/3/2017 n. 7074).

Nello specifico, il controricorso recante il ricorso incidentale, risulta spedito in data 6/10/2015, oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale (27/7/2015), e depositato in cancelleria il 22/10/2015.

Consegue, da quanto sinora detto, che va emanata pronuncia, in rito, di inammissibilità del ricorso incidentale.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della compensazione, in ragione della situazione di reciproca soccombenza fra le parti.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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