Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30995 del 30/11/2018

Cassazione civile sez. III, 30/11/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 30/11/2018), n.30995

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 470/2015 proposto da:

P.I.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA. UGO DE

CAROLIS 34-B, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO CECCONI, che

lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

ZURICH INSURANCE PLC RAPPRESENTANZA GENERALE PER L’ITALIA, in persona

del procuratore speciale Dott. GA.PI., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA G. VASARI 5, presso lo studio dell’avvocato

RAOUL RUDEL, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a

margine del controricorso;

M.G., G.G.M., M.P., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA G.G. BELLI 27 presso lo studio

dell’avvocato GIANMICHELE GENTILE che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato PAOLO MEREU giusta procura speciale in calce

al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 6013/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2018 dal Consigliere Dott. PASQUALE GIANNITI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha chiesto

l’accoglimento del motivo l di ricorso.

Fatto

RILEVATO IN FATTO E RITENUTO IN DIRITTO

1. La Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla Dott.ssa P.I.M., liquidando il danno in Euro 48 mila (“con gli interessi ed il lucro cessante, come stabiliti dal Tribunale”), ha parzialmente riformato la sentenza n. 25401/2004 con la quale il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento della domanda proposta dalla stessa Dott.ssa P., aveva condannato i convenuti avvocati G.G.M., M.P., M.G. e la chiamata in causa s.a. Zurich al pagamento, in solido tra loro ed in favore della Dott.ssa P., della somma di Euro 28500, oltre lucro cessante, interessi e spese del giudizio.

2.Nel novembre 2001 la P. aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Roma, gli avvocati M.G., G.G.M. e M.P., per sentirli condannare, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale sofferto (quantificato in complessive 1.197.712.679 delle vecchie Lire), a seguito dell’inadempimento al contratto d’opera professionale con gli stessi stipulato.

A fondamento della domanda l’attrice aveva dedotto che:

– era stata destituita dal servizio di insegnante presso la scuola pubblica, a seguito della commissione di reati contro la personalità dello Stato, accertati con sentenza passata in giudicato nel 1988;

– aveva ottenuto la riabilitazione con provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza nel 1995 e, avvalendosi della speciale procedura regolata dalla L. n. 19 del 1990, art. 10, aveva inoltrato al Provveditore agli Studi di Roma istanza (ricevuta il 1 agosto 1995) diretta ad ottenere la riammissione nel servizio di insegnante;

– su detta istanza l’amministrazione si era espressa negativamente, soltanto con decreto del 30 maggio 1996 (a lei comunicato il 2 luglio successivo);

– il rigetto l’aveva indotto ad affidare agli avv.ti M.G., G.M. e M.P., l’incarico di ricorrere al T.A.R. del Lazio, al fine di ottenerne l’annullamento del suddetto provvedimento;

– i legali officiati, dopo aver predisposto e fatto notificare il ricorso, avevano omesso di depositarlo presso la segreteria del giudice amministrativo;

– tale mancato deposito aveva impedito la ripresa del procedimento amministrativo, in esito al quale, a suo dire, il suo ricorso sarebbe stato accolto per mancato rispetto del termine previsto dalla L. n. 19 del 1990, art. 10; ciò in quanto, secondo quanto disposto da detta norma, il procedimento disciplinare, che nasce a seguito della domanda del dipendente diretta alla riammissione in servizio, deve essere iniziato entro 90 giorni dalla presentazione della richiesta e deve essere concluso entro i successivi 90 giorni; mentre nella specie gli addebiti le erano stati contestati il 24 ottobre 1995 ed il procedimento era stato fissato per la prima volta in data 11 aprile 1996 (e cioè oltre il termine previsto dal citato art. 10); in definitiva, secondo la ricorrente, se fosse stato depositato il ricorso, il provvedimento di destituzione sarebbe stato annullato e lei sarebbe stata reintegrata nel servizio nel ruolo di insegnante statale.

Tanto premesso in fatto, la prof.ssa P. aveva chiesto che i legali convenuti venissero condannati a risarcirle il pregiudizio patrimoniale subito per effetto della non corretta esecuzione dell’incarico professionale conferito (pari alla mancata corresponsione degli arretrati fino all’agosto 1995 e degli stipendi fino al 2013, anno di maturazione dell’età per la pensione, nonchè all’omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali).

I legali convenuti si erano costituiti in giudizio, contestando in fatto e in diritto la domanda attrice, ma comunque chiedendo ed ottenendo di poter chiamare in garanzia la S.A. Zurich, con la quale avevano in corso una polizza di assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale.

La compagnia assicuratrice, costituitasi in giudizio, si era associata alle tesi difensive svolte dai legali assicurati, contestando a sua volta la domanda attorea sia sotto il profilo dell’an che sotto quello del quantum debeatur.

Il Tribunale di Roma con sentenza n. 25401/2004 aveva accolto parzialmente la domanda attorea e, per l’effetto aveva condannato i legali convenuti avv.ti G.G.M., M.P., M.G. e la chiamata in causa s.a. Zurich, al pagamento, in via tra loro solidale ed in favore della P., della somma di Euro 28.500,00 oltre lucro cessante, interessi e spese del giudizio.

Avverso la sentenza del giudice di primo grado aveva proposto appello esclusivamente la P., chiedendo: in punto di an, che la Corte affermasse che, all’esito del giudizio davanti al TAR, “in modo certo o altamente probabile” il decreto di destituzione sarebbe stato annullato e lei sarebbe stata reintegrata in servizio; e in punto di quantum, che il danno fosse liquidato nella misura richiesta in primo grado, detratta la somma percepita per effetto della sentenza di primo grado e in subordine il danno da perdita di chance fosse determinato in misura non inferiore all’80% della somma richiesta in via principale.

Si erano costituiti anche nel giudizio di appello i legali, già convenuti in primo grado, e la compagnia, chiedendo entrambi il rigetto del gravame.

La Corte territoriale con la impugnata sentenza – dopo aver precisato che in mancanza di impugnazione si era formato il giudicato sull’indennnizzabilità del pregiudizio – in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla P., come sopra rilevato, ha parzialmente riformato la sentenza n. 25401/2004, liquidando il danno in Euro 48 mila (“con gli interessi ed il lucro cessante, come stabiliti dal Tribunale”).

3. Avverso la sentenza della corte territoriale ricorre la Dott.ssa P., articolando cinque motivi.

3.1. Precisamente, in punto di an, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: con il primo motivo (pp. 23-36): nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c.; sostiene che la Corte, dichiarando inammissibili i primi due motivi di appello (che, ai fini dell’autosufficienza, trascrive integralmente alle pp. 27-36), non ha esaminato il loro contenuto e non ha deciso le censure mosse alla sentenza del giudice di primo grado (nella parte in cui questi aveva negato la sussistenza della certezza o comunque dell’elevata probabilità di vittoria nel procedimento giurisdizionale amministrativo, che non era stato instaurato per effetto del lamentato mancato deposito del ricorso, ed aveva riconosciuto un mero danno da perdita di chance, in luogo di un danno patrimoniale, retributivo e pensionistico); deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, l’atto di appello conteneva “una puntuale disamina della giurisprudenza dimostrativa secondo cui il termine di cui alla L. n. 19 del 1990, art. 10, comma 3, aveva un contenuto perentorio o comunque perentorio temperato”, con la conseguenza che, ove il ricorso al TAR fosse stato depositato, il provvedimento impugnato sarebbe stato annullato e lei sarebbe stata reintegrata nell’impiego dal quale era stata dichiarata decaduta.

3.2. Sempre in punto di an, ma in via subordinata rispetto al primo motivo, la ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con il secondo (pp. 37-44) e con il terzo motivo (pp. 44-46), denuncia: omesso esame circa un fatto decisivo e controverso, costituito dal fatto che, come precisato nell’atto di appello e nella comparsa conclusionale (che, sempre ai fini dell’autosufficienza, viene trascritta alle pp. 39-42), la Corte territoriale ha erroneamente deciso la controversia: senza considerare che, al tempo in cui avrebbe dovuto essere deciso il ricorso al TAR (affidato al patrocinio dei legali convenuti), esisteva una interpretazione orientata nel senso della perentorietà del termine di cui alla L. n. 19 del 1990, art. 10 e comunque, quand’anche il termine fosse stato inteso come “perentorio temperato”, le vicende e le fasi di sviluppo del procedimento, in concreto verificatesi, escludevano nella specie che il suo superamento fosse giustificato; e senza considerare che lei, per effetto del mancato deposito del ricorso da parte degli avvocati ai quali aveva conferito mandato, aveva perso (non semplicemente una legittima chance di discussione delle proprie ragioni e di vittoria giurisdizionale, ma) una certezza e comunque una apprezzabile probabilità di accoglimento del suo ricorso.

3.3. Con il quarto motivo (pp.46-50), la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che lei, per effetto del mancato deposito del ricorso da parte degli avvocati ai quali aveva conferito mandato, aveva perso semplicemente una legittima chance di discussione delle proprie ragioni e di vittoria giurisdizionale (e non una certezza e comunque una apprezzabile probabilità di accoglimento del suo ricorso); al riguardo, sottolinea che la domanda proposta in giudizio aveva ad oggetto il risarcimento del danno per mancato conseguimento del risultato economico sperato (e non il risarcimento da perdita di chance, ovvero da perdita di una mera possibilità di conseguire il risultato), con la conseguenza che avrebbe dovuto essere a lei riconosciuto il danno patrimoniale subito, nella forma di lucro cessante, per perdite sotto il profilo retributivo e pensionistico.

3.4. Infine, con il quinto ed ultimo motivo (pp. 50-55), la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, omesso esame circa un fatto decisivo e controverso, costituito dal fatto che la Corte territoriale avrebbe quantificato il danno da perdita di chance senza considerare i parametri fattuali che lei aveva indicati nel terzo motivo di appello (che, sempre ai fini della autosufficienza del ricorso, trascrive alle pp. 51-53), con violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. (che indica aver la sola funzione di colmare le lacune insuperabili nella determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso, in considerazione dell’impossibilità o della grande difficoltà di dimostrarne la misura).

4. Resistono con rispettivi controricorsi sia i legali assicurati che la compagnia assicuratrice.

In particolare i contro ricorrenti, richiamando giurisprudenza amministrativa, sostengono che l’inutile decorso del termine di 90 giorni, stabilito dalla L. n. 19 del 1990, art. 10, comma 3, per la conclusione del procedimento disciplinare, non avrebbe comunque determinato l’automatica riammissione in servizio della P..

Secondo i contro ricorrenti, detta riammissione, che peraltro avrebbe avuto effetto ex nunc, sarebbe stata comunque subordinata ad un favorevole apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione (che doveva portare ad escludere nel merito la sussistenza di condizioni preclusive alla riassunzione della qualità di pubblico dipendente, derivanti dalla condanna penale e dagli illeciti in detta sentenza accertati).

In definitiva, secondo i controricorrenti – anche a voler ritenere che (in caso di deposito del ricorso al TAR) il mancato rispetto del termine avrebbe costituito motivo di annullamento del decreto ministeriale di destituzione dal servizio – la sentenza del Tar non avrebbe che comportato la necessità della reiterazione del giudizio disciplinare (che, verosimilmente, si sarebbe concluso con nuovo atto negativo, all’esito della valutazione discrezionale di incompatibilità della interessata, già formulata dall’amministrazione nel corso del procedimento).

5.In vista dell’odierna adunanza il Procuratore Generale conclude chiedendo l’accoglimento del primo motivo.

Depositano memorie anche le parti, insistendo rispettivamente nell’accoglimento e nel rigetto del ricorso.

6. Il primo motivo, concernente la erronea declaratoria di inammissibilità per genericità del primo motivo dell’atto di appello, è fondato. Si ripercorrono di seguito i passaggi fondamentali.

6.1. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25401/2004 dopo aver ripercorso la giurisprudenza amministrativa e costituzionale formatasi in materia di natura del termine di cui alla L. n. 19 del 1990, art. 10; e dopo aver sottolineato che il Consiglio di Stato soltanto in una occasione (con sentenza n. 1191/1995) aveva affrontato la questione (pp. 3-7), pronunciandosi nel senso del “carattere ordinatorio del termine, con argomentata e razionale motivazione”, ma in più occasioni aveva avuto modo di ritenere legittimo il superamento di detto termine laddove vi sia la necessità di svolgere altre fasi endoprocedimentali (ad es. con sent. n. 226 e 580 del 1996) – ha escluso l’esistenza di un “diritto vivente” orientato nel senso della perentorietà del termine ex art. 10.

Tuttavia, il giudice di primo grado, rilevando “la perdurante estrema oggettiva difficoltà interpretativa della materia in esame”, ha affermato che l’attrice, “per effetto del mancato deposito del ricorso” da parte dei suoi legali, aveva perso (non già e non tanto una certezza ovvero un’apprezzabile probabilità di accoglimento del ricorso, bensì) “una legittima chance di discussione delle proprie ragioni”, “anche sotto il profilo di un possibile mutamento di indirizzo da parte del giudice amministrativo”. E – dopo aver rilevato che alcuni “tempi vuoti dell’istruttoria del procedimento disciplinare” non apparivano “di entità tale da dimostrare con la forza dell’evidenza una volontà di inerzia della P.A” – ha ritenuto che, anche a voler accogliere la tesi attorea della c.d. “perentorietà temperata” del termine di cui al citato art. 10, poteva “ragionarsi correttamente” soltanto in termini di perdita di chance (e non di perdita certa o probabile del risultato avuto di mira).

6.2. Avverso la sentenza del Tribunale di Roma, la Dott.ssa P. ha proposto atto di appello, nel quale, dopo aver ripercorso lo svolgimento del giudizio (pp. 1-13), ha sostenuto nel primo motivo: a) in via principale (pp. 14-16), la natura perentoria del termine di cui alla L. n. 19 del 1990, art. 10, con riferimento alla sentenza n. 415/1991 della Corte costituzionale ed alla sentenza n. 638/1993 del TAR Lazio (cioè di quello stesso organo giudizio che avrebbe deciso il suo ricorso, se lo stesso fosse stato depositato); b) in via subordinata (pp. 16 ss.), la natura perentoria temperata dello stesso termine, nel senso che: il superamento del termine previsto dall’art. 10, è legittimo ove sia giustificato dalla necessità di svolgimento di attività endoprocedimentali del procedimento disciplinare (per lo svolgimento delle quali sia rispettato il termine fissato), mentre è illegittimo, ove non sussistano tali esigenze.

Sotto detto ultimo profilo, la P. ha contestato il giudizio di non rilevanza dei tempi vuoti, pur riscontrati dal giudice di primo grado, affermando che nella specie il superamento del termine di 90 giorno per lo svolgimento del procedimento disciplinare non era giustificato da alcuna esigenza endoprocedimentale (pp. 17-21), con la conseguenza che (pp. 21-22) “ove il ricorso fosse stato depositato, il provvedimento di destituzione sarebbe stato annullato in modo certo o comunque con elevata probabilità e la Dott.ssa P. sarebbe stata reintegrata nel posto di lavoro”.

6.3. La Corte di appello di Roma, nella impugnata sentenza, ha ritenuto inammissibile per genericità il primo motivo dell’atto di appello, con la motivazione che segue (p. 2):

“a fronte della esaustiva motivazione della sentenza e della considerazione conclusiva per la quale è stata esclusa l’esistenza, nel momento in cui avrebbe dovuto essere presentato il ricorso, di un diritto vivente orientato nel senso della perentorietà del termine L. n. 19 del 1990, ex art. 10, la P. non ha, nell’atto di appello, confutato adeguatamente la ricognizione giurisprudenziale operata dal Tribunale al fine di dimostrare, come era suo onere, la sussistenza di un prevalente orientamento giurisprudenziale in senso a lei favorevole”.

6.4. Orbene, la Corte territoriale – ritenendo inammissibile per difetto di specificità il primo motivo dell’atto di appello della Dott.ssa P. – è incorsa nella denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c..

Invero, in detto motivo dell’atto di appello, erano state formulate specifiche censure alle affermazioni, svolte dal giudice di primo grado, sulla natura ordinatoria del termine e sulla irrilevanza dei pur riscontrati vuoti procedimentali.

Con la conseguenza che la Corte territoriale non avrebbe dovuto fermarsi ad una pronuncia di inammissibilità ma avrebbe comunque dovuto esaminare nel merito tali censure (se del caso rigettandole).

7. Ne consegue che, in accoglimento del primo motivo, assorbiti gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma.

PQM

La Corte:

cassa la sentenza impugnata – in accoglimento del primo motivo – con rinvio alla Corte di appello di Roma perchè, in diversa composizione, proceda a nuovo esame nel merito.

Dichiara assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso.

Demanda alla Corte territoriale la regolamentazione delle spese processuali tra le parti in relazione al presente giudizio di legittimità.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2018

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