Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30993 del 27/12/2017


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Cassazione civile, sez. un., 27/12/2017, (ud. 05/12/2017, dep.27/12/2017),  n. 30993

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’avv. P.D., con sentenza definitiva, è stato condannato per i delitti di appropriazione indebita e falso in scrittura privata, a seguito di fatti divenuti oggetto pure d’incolpazione ai sensi degli artt. 5, 6, 35 del vecchio ordinamento disciplinare. Era accaduto che, negli anni 2006-2007, il professionista si fosse appropriato dell’autovettura di una società cliente, ricevuta da persona comodataria per curarne la restituzione alla società proprietaria, e che il professionista avesse addirittura falsamente compilato e firmato il CID per un sinistro occorsogli con la detta autovettura, usando abusivamente le generalità della persona comodataria.

1.1 Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza, con decisione del 14 maggio 2014, ha applicato all’interessato la sanzione della cancellazione dall’albo, avverso la quale l’avv. P. ha proposto ricorso al Consiglio nazionale forense, che, con sentenza del 12 luglio 2016, ha rideterminato la sanzione disciplinare nella sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per il periodo di tre anni.

1.2 Per la cassazione di tale pronunzia il condannato ha proposto ricorso, con contestuale richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione; il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza ha resistito con deduzioni difensive.

2. Le sezioni unite della Corte, con ordinanza n. 13915 del 5 giugno 2017, hanno sospeso cautelativamente (tenuto conto anche della sospensione pre-sofferta) l’esecuzione della sentenza, avuto riguardo al solo quarto motivo di ricorso, sul quale hanno osservato come si ponesse, rispetto alla successione delle norme disciplinari, la questione di quale fosse la misura della sanzione applicabile, laddove, individuato il tipo di sanzione in base alle norme vigenti, per tale sanzione queste stabiliscano limiti massimi superiori a quelli fissati dalle norme oramai abrogate e l’organo disciplinare superi, in concreto, il limite massimo irrogabile per quel tipo di sanzione nel regime previgente.

2.1 Da ultimo, il ricorrente replica con memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso, l’avv. P. infondatamente denuncia nullità del capo di incolpazione modificato, violazione del diritto di difesa in relazione a detta modifica, mancata rinnovazione istruttoria. Infatti, pur essendo stato rettificato il capo di incolpazione, è pacifico che la rettifica sia stata tempestivamente portata a conoscenza dell’interessato, il quale ha svolto le proprie difese dinanzi al Consiglio dell’ordine degli avvocati, laddove, nel frattempo, era comunque intervenuto vincolante giudicato penale di condanna.

2. Col gli altri due motivi, da trattarsi congiuntamente, l’avv. P. denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – violazione dell’art. 40, n. 4), r.d.l. 27/11/1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore) e dell’obbligo di motivazione (motivo 2), nonchè del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40, n. 3), degli artt. 1 e 2 cod. pen. e dell’art. 25 Cost. (motivo 3).

3. Preliminarmente va negativamente stigmatizzata la tendenziale promiscuità della formulazione delle censure contenute nel secondo motivo che avviluppa sia asseriti vizi della motivazione, sia l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge disciplinare. Si tratta di censure difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto motivazionale che sorregge la sentenza impugnata.

3.1 Comunque, riguardo al secondo ed al terzo motivo, il ricorrente pare dolersi del fatto che il Consiglio nazionale forense, rideterminando la sanzione disciplinare della (abrogata) cancellazione inflitta dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza nella sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale, avrebbe svolto una non consentita attività di “commutazione”. Il che non risponde al vero, essendosi il giudice di merito limitato a prendere atto dello jus superveniens e a infliggere la sanzione secondo il principio del favor rei, in riferimento alle vicende successorie della legge professionale e delle correlate disposizioni disciplinari. Dunque, il Consiglio nazionale forense ha adottato una decisione più favorevole per l’avv. P. rispetto a quella che sarebbe derivata dall’applicazione del principio del tempus regit actum. Ciò avrebbe comportato l’irrogazione della sanzione della cancellazione, in effetti comminata, in prima battuta, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza, con il provvedimento riformato dal Consiglio nazionale forense.

3.2 Questo, invece, ha fatto corretta applicazione della regola secondo cui le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato. Infatti la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), ha recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum (Cass., Sez.U., 16/02/2015, n. 3023). Così come ha fatto corretta applicazione dell’altra regola secondo cui l’art. 22 cod. deont. e la L. n. 247 del 2012, art. 53 non prevedono più la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo. Sicchè, trattandosi di disciplina più favorevole per l’incolpato rispetto al regime previgente, quella sanzione è inapplicabile – per effetto dell’art. 65, comma 5, cit. – anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore. (Cass., Sez.U., 20/09/2016, n. 18394; conf. Cass., Sez.U., 27/10/2015, n. 21829). Dunque, i due motivi devono essere interamente disattesi.

4. Infine, col quarto motivo, l’avv. P. denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5) – violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40, n. 3), degli artt. 1 e 2 cod. pen., dell’art. 25 Cost. e della L. n. 247 del 2012. In estrema sintesi, il ricorrente sostiene che il giudice di merito, una volta rilevata l’abrogazione della sanzione della cancellazione dall’albo, avrebbe dovuto applicare la lex mitior costituita dalla previgente sanzione della sospensione da due mesi ad un anno, giammai infliggere la sospensione per tre anni, secondo la più gravosa disciplina della sospensione introdotta dallo jus superveniens.

5. Come si è detto, l’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate; mentre le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato (la L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5).

5.1 Per stabilire le norme disciplinari più favorevoli si pongono, dunque, interrogativi simili a quello che si sono posti per stabilire la legge più favorevole in materia penale. Innanzitutto è logicamente da escludere che si possa procedere alla variegata combinazione delle disposizioni più favorevoli, previgenti e sopravvenute. Il nuovo codice deontologico forense è stato approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 241 del 16 ottobre 2014 e, ai sensi dell’art. 73, è entrato in vigore il 16 dicembre 2014, cioè decorsi sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Dunque, quando il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza ha adottato la decisione del 14 maggio 2014, la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo era ancora vigente, mentre non lo era più al momento della sentenza del Consiglio nazionale forense, che, dunque, ne ha preso atto. Infatti, secondo l’art. 22 cod. deont. e la L. n. 247 del 2012, art. 53, le sanzioni disciplinari sono l’avvertimento, la censura, la sospensione e la radiazione (art. 30, reg. 21/02/2014, n.2). Manca, invece, la cancellazione. Si rammenta che, con riferimento alla re-iscrizione all’albo degli avvocati di chi ha subito la sanzione disciplinare della cancellazione, non trovava applicazione il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 47, secondo cui l’avvocato radiato dall’albo non poteva esservi nuovamente iscritto prima che fossero trascorsi cinque anni dal provvedimento di radiazione, essendo la cancellazione meno grave della radiazione; sicchè la durata del tempo decorso dalla cancellazione poteva essere autonomamente valutata ai fini dell’apprezzamento della sussistenza del requisito della condotta “specchiatissima ed illibata” che l’art. 17 del medesimo r.d.l. richiedeva per l’iscrizione all’albo (Cass., Sez.U., 12/05/2008, n. 11653).

5.2 Di contro l’attuale radiazione consiste nell’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro, impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro ed è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo, elenco o registro (art. 22, lett. d), cod. deont.; conf. L. n. 247 del 2012, art. 53, comma 4; v. art. 30 reg.). Dunque, una volta scomparsa dal catalogo delle sanzioni la cancellazione dall’albo per effetto della sopravvenuta lex mitior, non resta che applicare al caso di specie integralmente lo jus superveniens. Esso, in luogo della cancellazione, prevede la sanzione meno afflittiva della sospensione, attualmente consistente nell’esclusione temporanea, ampliata sino a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura (art. 22, lett. d), cod. deont.; conf. L. n. 247 del 2012, art. 53, comma 4; v. art. 30, reg.). Se vale, dunque, il principio che la disposizione più favorevole non può risultare dalla combinazione della vecchia con la nuova normativa, non se ne può ricavare arbitrariamente una terza, amalgamando frammenti dell’una e dell’altra (conf. Cass. pen., 04/11/2016, n. 6545).

5.3 Una volta stabilita, con riferimento al caso concreto, quale sia la disciplina più favorevole, essa non può che essere applicata nella sua integrità. E’ necessario, in altre parole, applicare peri ntero quella delle due discipline che, nel suo complesso, risulti più favorevole all’interessato (conf. Cass. pen., 28/03/1985, n. 2861). La relativa valutazione non può essere fatta in astratto (conf. Cass. pen., 22/06/1994, n. 2336; 28/11/1997, n. 10919), perchè entrambe le discipline tra cui si pone il raffronto contengono disposizioni più favorevoli e disposizioni meno favorevoli, bensì deve essere effettuata confrontando tutte le conseguenze che deriverebbero, applicando integralmente ciascuna delle due discipline al caso concreto (Cass. pen., 10/02/2004, n. 23274).

Orbene, l’art. 22 del nuovo codice deontologico forense, l’art. 53 del nuovo dell’ordinamento della professione forense (L. n. 247 del 2012) e dell’art. 30 dell’attuale regolamento disciplinare prevedono le sanzioni crescenti dell’avvertimento, della censura, della sospensione da due mesi a cinque anni e della radiazione; manca, come si è detto, la sanzione della cancellazione. Dunque, si tratta di nuovo assetto che, entrato in vigore il 16 dicembre 2014, è globalmente più favorevole per l’avv. P. rispetto al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40, che all’epoca dei fatti prevedeva l’avvertimento, la sospensione dall’esercizio della professione per un tempo non inferiore a due mesi e non maggiore di un anno, la cancellazione dall’albo, la radiazione dall’albo.

5.4 Come si è visto la cancellazione dava luogo a conseguenze meno gravi rispetto alla radiazione e più gravi rispetto alla sospensione dall’albo. Perciò, una volta appurata la più favorevole scansione delle sanzioni – che, oltre alla più grave radiazione, oggi non contempla più la cancellazione, ma una sospensione dall’albo più ampia – è la nuova lex mitior a trovare nel caso di specie integrale applicazione, nei nuovi limiti edittali da due mesi a cinque anni di sospensione. Essi, introdotti per coprire anche quegli illeciti di maggior gravità una volta sanzionati con la cancellazione, sono stati rispettati dal Consiglio nazionale forense. Questo ha integralmente applicato la sopravenuta lex mitior, laddove non prevede più la cancellazione dall’albo, ma correlativamente riconosce ambiti temporali più ampi alla sanzione di specie diversa e meno grave della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale, qui concretamente circoscritta al periodo di tre anni, inferiore al massimo edittale di cinque anni.

5.5 In proposito va sottolineato come tutte le violazioni ascritte nei capi d’incolpazione – riguardo agli artt. 5 (doveri di probità, dignità, decoro), 6 (doveri di lealtà e correttezza), 35 (rapporto di fiducia) del previgente codice deontologico (in relazione alla norma di chiusura dell’art. 60) – trovino puntuale riscontro negli attuali artt. 9 (dovere di probità, dignità, decoro, etc.), 11 (rapporto fiduciario) e 12 (dovere di diligenza), in correlazione con la generale responsabilità disciplinare dell’art. 20 e con la violazione della legge penale contemplata dall’art. 4. Inoltre, va tenuto conto, che, così come in passato (Cass., Sez. U., 19/09/1967, n. 2178; 16/11/1996, n. 10046; 23/02/1999, n. 98), oggetto di valutazione resta tuttora il comportamento complessivo dell’incolpato (art. 21, comma 2, cod. deont.), senza che rilevi un principio di stretta tipicità dell’illecito, che, in effetti, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, laddove, più che una tassativa elencazione di comportamenti vietati, v’è l’enunciazione dei doveri fondamentali – tra cui quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza (artt. 5 e 6 cod. deont.) – ai quali l’avvocato deve improntare la propria attività (Cass., Sez. U., 18/07/2017, n. 17720). Ne deriva che – attraverso il sintagma “per quanto possibile” della L. n. 247 del 2012, art. 3, comma 3 – è possibile perseguire l’illecito sulla base della norma di chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” (comma 2). Mentre la risposta punitiva prevista dal nuovo codice deontologico (artt. 20 e seg.) consente di rapportare la sanzione alle condizioni soggettive dell’incolpato e alle circostanze oggettive dei fatti (Cass., Sez. U., 11/07/2017, n. 17115).

In ragione del contenuto del ricorso, peraltro, non si porrebbe neppure il problema della tipizzazione degli illeciti e della completezza della normativa riguardo all’art. 20 cod. deont., rispetto all’esplicita disposizione di chiusura che il previgente codice aveva introdotto con l’art. 60.

6. In conclusione, il ricorso deve essere integralmente rigettato. L’assoluta novità di gran parte delle questioni dibattute avuto particolare riguardo alla corretta individuazione della lex mitior – costituisce giustificato motivo per procedere alla integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali. Ai sensi della D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2017

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