Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30985 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. II, 27/11/2019, (ud. 17/05/2019, dep. 27/11/2019), n.30985

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17534/2015 proposto da:

T.E., L.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

PAOLO EMILIO, 7, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MADEO,

rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE PERICA;

– ricorrenti –

contro

S.G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

EUGENIO CISTERNA 44, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ALESSIO,

che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

C.M.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2641/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/05/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può riepilogarsi nei termini seguenti:

– S.G.G. e C.M.G., agendo nei confronti di T.E. ed L.E., s’erano visti rigettare dal Tribunale la domanda con la quale i predetti avevano chiesto demolirsi il fabbricato dei convenuti, adibito a residenza, e, invece, accogliere quella di arretramento fino a m. 7,5 dal confine dell’edificio dei convenuti, adibito a ricovero d’attrezzi; con la medesima statuizione, accolta domanda riconvenzionale, gli attori erano stati, a loro volta, condannati ad arretrare il loro piano sottotetto fino alla distanza di m. 7,5 dal confine e ad espiantare una siepe posta a meno di 50 cm. dal confine;

– la Corte d’appello di Roma, alla quale si erano rivolti il S. e la C. e, in via incidentale, il T. e la L., con la sentenza di cui in epigrafe, accogliendo parzialmente l’impugnazione principale, aveva condannato il T. e la L. ad arretrare anche l’abitazione fino a 7,5 m. dal confine con il fondo degli appellanti;

ritenuto che avverso la decisione d’appello T.E. ed L.E. propongono ricorso corredato da sette motivi e che degli intimati il solo S. resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 872-873 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che:

– il P.R.G. del Comune di Valmontone, contenente la regola sulle distanze applicata dalla sentenza gravata, era stato approvato dalla Regione Lazio il 26/10/1980 ed era entrato in vigore nel 1981, con la pubblicazione sul B.U.R. (n. 3/1981), nel mentre i convenuti avevano assunto di aver realizzato il loro manufatto negli anni 1979/1980;

– la Corte d’appello, violando gli artt. 2697 e 873 c.c., in contrasto il consolidato orientamento maturato in sede di legittimità (Sez. 2, n. 141, 9/1/1998, ma già prima Cass. n. 4511/’85), aveva affermato essere onere dei convenuti dimostrare di aver costruito in epoca antecedente all’entrata in vigore dello strumento urbanistico locale derogatorio del codice civile, valendo, invece l’opposto principio, secondo il quale spetta al proprietario che chiede la demolizione dimostrare che il vicino ha edificato sotto la vigenza della regola locale;

– per rinunciare al vantaggio derivante dal legale riparto dell’onere della prova sarebbe occorsa una inequivoca rinuncia (Cass. nn. 141/98, 3167/88, 3446/87), che nella specie non c’era stata;

considerato che la doglianza non è condivisa dal Collegio, pur imponendosi correzione della motivazione della sentenza d’appello, invero:

– questa Corte ha reiteratamente affermato che spetta al proprietario che chiede la demolizione dell’opera in violazione della normativa sulle distanze dimostrare che al momento dell’entrata in vigore della disciplina più rigorosa essa non era completata, mentre il convenuto può limitarsi a contestare, senza altro onere probatorio, neppure nel caso abbia articolato prova testimoniale sul punto, sempre che non vi sia inequivoca rinuncia ai vantaggi derivantigli dai principi che disciplinano la prova il principio corretto impone a colui che invoca la illegittimità della costruzione per difformità dallo strumento urbanistico locale provare la posteriorità dell’opera (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 141, 9/1/1998, Rv. 511406);

– la Corte romana erra, quindi, nell’enunciare opposto principio, senza, peraltro, confrontarsi con il consolidato, indirizzo di legittimità sopra riportato;

– l’errore in parola, tuttavia, non importa la cassazione della decisione, ma la sola emenda correttiva, al fine di riportare la pronuncia alla corretta interpretazione della legge (art. 384 c.p.c., comma 4), in quanto la sentenza, a pag. 4, dalle emergenze di causa trae il convincimento della sussistenza in atti della prova che l’intervento edilizio venne effettuato sotto la vigenza dello strumento urbanistico locale, di talchè la erronea individuazione dell’onere probatorio è rimasta priva di conseguenze;

ritenuto che con il secondo motivo i ricorrenti prospettano violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1103, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando l’argomento attraverso il quale la sentenza d’appello aveva giudicato raggiunta la prova della posteriorità della costruzione, fondato sul rilievo che “il T. e la L. hanno avuto la esclusiva disponibilità del loro fondo successivamente alla divisione del 1982 e senza che prima di tale data si siano documentali riscontri sull’esistenza del loro fabbricato”, osservando che la circostanza che la loro contitolarità indivisa fosse di 1/3 non costituiva impedimento all’edificazione, ben potendo il comproprietario fare pieno uso della cosa comune e la circostanza che nell’atto di divisione non si era menzionata la costruzione era dipeso dal fatto che l’abusività di questa avrebbe viziato di nullità l’atto di divisione;

considerato che il motivo è inammissibile in quanto invoca un diverso apprezzamento delle valutazioni insindacabili di merito, peraltro sulla base di asserti meramente ipotetici e congetturali;

ritenuto che con il terzo motivo il T. e la L. deducono l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sulla base di quanto segue:

– la decisione aveva escluso essersi maturato il ventennio di legge per l’acquisto per usucapione del diritto a mantenere l’edificio nella posizione attuale argomentando dal fatto che la disponibilità del fondo doveva farsi risalire a non prima del 1982 e che l’azione interruttiva della controparte si collocava nel 2001;

– andava, per contro, osservato che il solo S. con citazione del 9/6/2001 aveva convenuto il solo T.; dietro autorizzazione giudiziale il T., con citazione del 24/12/2001, aveva citato nel giudizio avviato dal S. la moglie di quest’ultimo, nonchè comproprietaria, C.M.G.; disposta integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altra comproprietaria (moglie del convenuto T.), L.E.; con chiamata del 20/1/2010, costei si era costituita il 27/5/2010, facendo proprie tutte le domande, eccezioni e difese del marito;

– di conseguenza il termine utile all’usucapione non si era interrotto il 2001, ma aveva continuato a decorrere fino al compimento del ventennio, stante che l’integro contraddittorio dei comproprietari che contestavano la pretesa si era avuto solo il 20/1/2010;

– nè poteva affermarsi applicabilità dell’art. 1310 c.c., il quale era valevole solo per i diritti d’obbligazione e non per i diritti reali (Cass., Sez. 2, n. 28721, 30/12/2013);

considerato che la doglianza è infondata per l’insieme delle ragioni di cui appresso:

a) i ricorrenti omettono di mettere a disposizione della Corte gli atti processuali e, in particolare, dell’atto costitutivo della L., (da quest’ultimo sarebbe dato trarre che la L. avrebbe inequivocamente eccepito il diritto a mantenere la costruzione a distanza illegale per usucapione, al contrario di quanto sostenuto dai resistenti alle pagg. 18 e 19 del controricorso);

b) poichè i documenti in parola vengono invocati dai ricorrenti per la loro incidenza sul diritto sostanziale rivendicato, dipendendo da essi la maturazione del ventennio utile, l’omissione integra un insanabile difetto di specificità sotto il profilo della mancanza di autosufficienza;

c) costituiva onere dei convenuti provare l’infondatezza dell’actio negatoria servitutis, nella quale si sostanziava la pretesa degli attori, odierni controricorrenti, dovendosi precisare che costituisce “actio negatoria servitutis” non solo la domanda diretta all’accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù, ma anche quella volta alla eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà realizzate dal medesimo, sì da ottenere la effettiva libertà del fondo ed impedire che il potere di fatto del terzo, corrispondente all’esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l’acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui (Sez. 2, Sentenza n. 27405 del 29/12/2014, Rv. 634337); convenuti i quali avrebbero dovuto dimostrare di avere usucapito il diritto, bastando agli attori provare la loro titolarità, senza che occorresse soddisfare la cd. probatio diabolica (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 472, 11/01/2017);

ritenuto che con il quarto motivo i ricorrenti prospettano violazione della L. n. 1150 del 1942, artt. 8 e segg., siccome modificata dalla L. n. 765 del 1967, L. n. 1187 del 1968 e L. n. 136/1999, nonchè dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè la sentenza d’appello aveva affermato che essi ricorrenti non avevano provato di aver edificato in epoca anteriore all’approvazione, nell’anno 1980, del P.R.G., senza tener conto che l’entrata in vigore della normativa locale era da collocare nell’anno 1981, dopo la pubblicazione di essa sul B.U.R.;

considerato che il motivo è inammissibile per difetto di rilievo, avendo la sentenza individuato nell’anno 1982 il termine iniziale per la costruzione;

ritenuto che con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione degli artt. 2699 e 2727 c.c. e segg. e art. 155 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sulla base di quanto segue:

– l’autocertificazione allegata all’istanza di sanatoria non avrebbe potuto giudicarsi ininfluente perchè estranea al contraddittorio, trattandosi, per contro, di dichiarazione riscontrata dalla P.A., effettuati gli opportuni accertamenti;

– le dichiarazioni che si ricavavano dalla relazione di servizio di un agente della polizia locale avrebbero dovuto assumere pieno valore probatorio, non potendosi condividere l’affermazione di cui in sentenza, secondo la quale avrebbero dovuto trovare riscontro in un atto pubblico; asserto, in ogni caso “oscuro” e che non teneva conto del fatto che trattavasi di attestazioni godenti di fede privilegiata fino a querela di falso;

– nella comparsa di risposta di nuovo procuratore si ammetteva che “il T. costruì soltanto parte dell’immobile adibito ad abitazione nel 1979”;

considerato che il motivo non merita di essere accolto per una pluralità di convergenti ragioni:

– l’auto-attestazione, pur se compilata nelle forme della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 46 e 47, non costituisce di per sè prova idonea, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, salvo la refluenza nell’art. 115 c.p.c., in presenza di non contestazione della controparte (cfr., S.U., n. 12065, 29/05/2014), essendo evidente che diversamente opinando si pervertirebbe il sistema delle prove, consentendo alla parte, sia pure attraverso dichiarazioni che ne impegnano la responsabilità anche penale, di (pre)costituirsi la prova in proprio favore;

– costituiscono atti pubblici, a norma dell’art. 2699 c.c., soltanto gli atti che i pubblici ufficiali formano nell’esercizio di pubbliche funzioni certificative delle quali siano investiti dalla legge, mentre esulano da tale nozione gli atti dei pubblici ufficiali che non siano espressione delle predette funzioni; pertanto, non è proponibile querela di falso nei confronti della relazione di servizio redatta dai Carabinieri e dell’allegato rilevamento tecnico descrittivo, ove diretta avverso il contenuto informativo di quanto appreso o constatato dai verbalizzanti (nella specie, individuazione del conducente di un veicolo al momento di un sinistro), atteso che tali atti, non essendo espressione di una funzione pubblica certificativa, godono di fede privilegiata relativamente alle sole circostanze certificate dai militari in relazione all’attività direttamente svolta (data di redazione dell’atto, nominativi dei verbalizzanti, ecc.), ma non anche relativamente alle informazioni in essi contenute (cfr. Sez. 3 -, n. 18757, 28/07/2017, Rv. 645166);

– peraltro, la invocata dichiarazione non riguarda fatti immediatamente e direttamente percepibili e implica valutazioni del tutto estranee alla oggettiva constatazione;

– la trasposizione di una singola frase, estrapolata da un atto processuale (e da esso decontestualizzata) a firma del difensore della parte, non investe il giudice della legittimità del riesame del vaglio probatorio, di dominio esclusivo del giudice del merito, ove, come nel caso in esame, quest’ultimo abbia esplicitato le ragioni della ricostruzione fattuale;

ritenuto che con il sesto motivo i ricorrenti prospettano omesso esame di fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, deducendo che:

– essi ricorrenti avevano acquistato il terreno, sul quale erano stati poi edificati i fabbricati, indivisamente con i coniugi Ce.Lu. e P.N., con atto del 26/10/1982 il fondo era stato diviso in tre parti, come da frazionamento, e il lotto assegnato ai ricorrenti si era così trovato a confinare con quello dei coniugi S. – C.;

– nell’anno 1987, dopo che i convenuti avevano edificato, i S. – C. avevano contestato la divisione, assumendo di aver avuto assegnata una superficie di minore estensione rispetto alle altre due, si era così addivenuti ad una scrittura privata con la quale, al fine di scongiurare la lite, “il confine è stato spostato verso il fabbricato T. – L. nell’anno 1987 quando sicuramente il fabbricato di costoro era stato realizzato, la sentenza della Corte di merito nel condannare T.E. e L.E. (all’arretramento) avrebbe dovuto precisare che il confine di riferimento al fine del computo delle distanze legali doveva considerarsi quello esistente al momento della costruzione e cioè quello risultante dall’atto di divisione e non quello attuale stabilito con la scrittura del 19/11/1987”;

considerato che il motivo è inammissibile in quanto nuovo (agita vicenda rimasta estranea alla vicenda siccome accertata), oltre a presentarsi del tutto aspecifico, sotto il profilo della mancanza di autosufficienza;

ritenuto che con il settimo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 1062, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto “se il fabbricato degli attuali ricorrenti fosse stato costruito dopo l’entrata in vigore del PRG ma prima della divisione effettuata con rogito del 26/10/1982 non si porrebbe un problema di distanze legali per essere i proprietari comunisti del terreno e di tutte le accessioni costituite dai medesimi manufatti, sicchè sarebbe configurabile, a seguito della divisione dell’ottobre 1982, una servitù per destinazione del padre di famiglia”;

considerato che anche quest’ultimo motivo è inammissibile:

– si deduce per la prima volta servitù per destinazione del padre di famiglia;

– si pone in apodittico contrasto con quanto affermato in sentenza in ordine all’epoca della costruzione, collocata in epoca successiva alla divisione del 1982 (pag. 4 della sentenza), prospettando una mera congettura ipotetica;

considerato che in virtù del principio di soccombenza i ricorrenti dovranno rimborsare alla controparte le spese legali del giudizio di legittimità, nella misura, stimata congrua, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte, di cui in dispositivo;

ritenuto che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte dei ricorrenti a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese legali in favore del resistente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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