Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30955 del 29/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 29/11/2018, (ud. 21/03/2018, dep. 29/11/2018), n.30955

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21739-2016 proposto da:

M.S. E FIGLI S.R.L. P.I. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA GAVORRANO n.12, presso lo studio dell’avvocato MARIO

GIANNARINI, rappresentata e difesa dall’avvocato SILVANA RICCA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI GRAVINA DI CATANIA C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato ARTURO OLIVERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1266/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 21/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 21/03/2018 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Catania, con sentenza n. 3814 del 2009, rigettava la domanda, proposta dalla ” M.S. e Figli s.r.l.”, di svincolo della somma pari al controvalore in Euro di 300.000.000, versata dal convenuto Comune di Gravina di Catania su un libretto di deposito intestato alla società attrice, quale residuo prezzo del contratto di compravendita del 6 agosto 1990, avente ad oggetto le unità immobiliari che la società aveva realizzato in esecuzione del Peep, sul rilievo della insussistenza delle condizioni di esigibilità di dette somme; respingeva altresì la domanda di risarcimento danni dipendenti dal ritardato svincolo della detta somma, condannando la società attrice alla refusione delle spese processuali.

A seguito di appello interposto dalla società ” M.S. e Figli”, la Corte d’appello di Catania, rigettava il gravame, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, la società propone ricorso per cassazione, fondato su due motivi.

Il Comune di Gravina di Catania resiste con controricorso.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale sono state depositate memorie illustrative dalla ricorrente.

Atteso che:

con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1362 e ss., 1175 e 1375 c.c., per aver la Corte di appello male interpretato la reale volontà dei contraenti. In particolare, il giudice del gravame avrebbe erroneamente interpretato la clausola 6 del contratto di compravendita avente ad oggetto le unità immobiliari edificate dalla società ” M.S. e Figli s.r.l.”, quale delegata alla procedura espropriativa. Tale clausola subordinava lo svincolo di Lire 100.000.000 all’avvenuta realizzazione dei parcheggi, realizzazione che doveva avvenire, secondo quanto disposto dall’atto d’obbligo del 27/06/1990, su semplice richiesta del Comune. Ebbene, l’ente pubblico, disinteressandosi alla costruzione dei parcheggi per oltre un decennio dalla realizzazione delle opere primarie e mutando la destinazione a verde del luogo ove avrebbero dovuto essere realizzati, ad avviso della ricorrente aveva rinunciato alla prestazione, facendo così prescrivere il relativo diritto all’esecuzione; ciò avrebbe dovuto comportare l’accoglimento della domanda di svincolo del prezzo di Lire 100.000.000.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e degli artt. 1353, 1358, 1359 c.c.., in relazione agli artt. 1362 ss., 2909 e 2946 c.c., per aver il giudice di merito erroneamente qualificato la sopracitata clausola contrattuale come condizione di esecuzione del contratto, anzichè condizione di efficacia parziale dell’obbligazione contrattuale di pagamento del residuo prezzo.

I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, vertendo entrambi sulla interpretazione della medesima clausola contrattuale, devono essere dichiarati inammissibili.

Occorre premettere che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.. Ne discende l’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme di interpretazione del contratto e si risolva, in realtà, nella proposta di un’interpretazione diversa da quella data dal giudice di appello (Cass. n. 17125 del 2011).

Il ricorso per cassazione, del resto, quale giudizio di legittimità, è inidoneo allo scopo di far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito all’opinione che di essi abbia la parte.

Nella specie, la Corte d’appello di Catania ha correttamente qualificato la clausola contrattuale come condizione attinente all’esecuzione del contratto, anzichè come condizione di efficacia dello stesso, difettando la medesima del requisito essenziale dell’incertezza.

La reale volontà delle parti, infatti, doveva intendersi nel senso di ritardare e non di condizionare la realizzazione dei parcheggi alla richiesta del Comune, quale evento futuro e certo.

11 giudice di merito ha, dunque, correttamente ritenuto applicabile al contratto in esame la disciplina relativa al tempo dell’adempimento (inteso quale modalità di esecuzione di un’obbligazione certa e già sorta con la stipulazione del contratto) e non quella in materia di elementi accidentali del contratto. In tal modo, la Corte d’appello ha fatto applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui “qualora i contraenti, contemplando un evento futuro (nella specie, la richiesta del Comune di Gravina di Catania), abbiano ad esso correlato non l’efficacia del vincolo negoziale, ma soltanto il tempo dell’adempimento di una determinata prestazione (nella specie, la realizzazione dei parcheggi), resta esclusa l’invocabilità dei principi inerenti alla condizione od al termine, quali elementi accidentali del negozio incidenti sulla sua efficacia, e rimane applicabile la disciplina sul tempo dell’adempimento, di cui agli artt. 1183 ss. c.c.” (Cass. n. 17125 del 2011). Conseguentemente, il credito sarebbe divenuto esigibile dalla società ricorrente soltanto nel momento e nella misura in cui la stessa avesse avuto ad eseguire la sua prestazione, rimanendo irrilevante la circostanza che la realizzazione dei parcheggi sia rimasta inadempiuta per l’inerzia dell’obbligato piuttosto che per la mancata iniziativa della controparte che ne aveva diritto “a semplice richiesta”. La società, invece, di fronte alla mancata richiesta del Comune, non ha nè adempiuto nè tantomeno fatto offerta della prestazione dovuta, lasciando che la realizzazione dei parcheggi rimanesse definitivamente inadempiuta. Si deve, pertanto, ritenere che non si sia verificata l’unica condizione legittimante la liberazione del vincolo cauzionale.

In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata sembra rispettare i canoni legali di ermeneutica contrattuale, dando un’interpretazione della clausola negoziale come condizione attinente all’esecuzione del contratto esente da vizi logici o errori giuridici. Appare evidente, dunque, che le censure ad essa rivolte dalla ricorrente si sostanzino in realtà nella contrapposizione di una lettura della clausola come condizione potestativa mista per sè preferibile, prospettando una valutazione inammissibile in questa sede.

Le censure si pongono, pertanto, al di fuori dei limiti imposti al sindacato di legittimità, vincolato al controllo della conformità a diritto della decisione secondo il parametro individuato dai tassativi vizi deducibili con il ricorso ex art. 360 c.p.c..

In conclusione il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico, art. 13, il comma 1-quater di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore del Comune controricorrente che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-2 Sezione Civile, il 21 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018

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