Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30902 del 29/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 29/11/2018, (ud. 07/03/2018, dep. 29/11/2018), n.30902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17059-2013 proposto da:

P.A., (OMISSIS), D.A.M. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO ITALIA 92 STUDIO

ARSLIBERALIS, presso lo studio dell’avvocato VALENTINA PAGLIA,

rappresentati e difesi dagli avvocati FRANCESCO CAVALLARO, ANTONIO

D’AGOSTINO, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

BUONOTOURIST S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato, EDOARDO ROSSI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 381/2013 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 08/04/2013 r.g.n. 1019/2010 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/03/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONIO D’AGOSTINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.A. con ricorso dell’otto maggio 2006 conveniva in giudizio, davanti al giudice del lavoro di Nocera Inferiore, la BUONOTOURIST S.r.l., facendo presente di aver lavorato alle dipendenze di tale società in forza di vari contratti a termine, a partire dal 18 ottobre 1995 sino al 15 settembre 2004. Chiedeva, quindi, la conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato ed il pagamento delle spettanze lavorative maturate anche per gli intervalli non compresi tra un contratto e l’altro, impugnando altresì l’asserito licenziamento orale, intimato il 15 settembre 2004, stante la nullità e/o l’inefficacia del recesso, ovvero in subordine la sua illegittimità, donde pure la dovuta reintegra nel posto di lavoro e la conseguente tutela risarcitoria. Chiedeva, inoltre, il pagamento di quanto preteso a titolo di custodia e parcheggio, presso la propria abitazione privata, dell’automezzo, affidatogli per la guida come autista dalla società convenuta, nonchè la condanna della BUONOTOURIST al risarcimento dei danni per omesso versamento dei contributi previdenziali, dovuti sia per l’inquadramento in relazione all’orario di lavoro effettivamente osservato, sia in relazione ai periodi per i quali risultava completamente omessa la formalizzazione del rapporto di lavoro. Instauratosi contraddittorio, con la costituzione in giudizio della società convenuta, la quale resisteva alle pretese avversarie, eccependo altresì la prescrizione quinquennale del credito ex adverso vantato, il giudice adito con sentenza in data 18 giugno – 1 luglio 2009 rigettava integralmente le domande dell’attore, compensando le spese di lite.

Con separato ricorso, depositato lo stesso otto maggio 2006, D.A.M. conveniva in giudizio anch’essa la BUONOTOURIST S.r.l., assumendo di aver lavorato alle dipendenze di quest’ultima dal 10 marzo del 1997 al 15 settembre dell’anno 2004, allorchè era stata licenziata verbalmente, svolgendo mansioni di accudiente, cioè di addetta a prestare assistenza ai passeggeri studenti portatori di handicap sull’automezzo della società (guidato dal coniuge, P.A.), nel tragitto dalle loro abitazioni alle scuole e viceversa, nell’ambito del territorio comunale di (OMISSIS). Pertanto, la D. chiedeva accertarsi l’esistenza dell’anzidetto rapporto di lavoro subordinato, con la condanna della convenuta al pagamento in suo favore della somma di 124.431,46 Euro, nonchè l’accertamento della nullità e / o dell’inefficacia dell’asserito licenziamento verbale in data 15 settembre 2004, con ogni conseguente tutela risarcitoria del caso.

Previa instaurazione del contraddittorio, l’adito giudice del lavoro, all’esito della espletata istruttoria mediante escussione dei testimoni ammessi, con sentenza in data 18 giugno – 1 luglio 2009, in parziale accoglimento della domanda, condannava la società resistente al pagamento della complessiva somma di Euro 22.000,00 in favore dell’attrice per spettanze ancora dovute, oltre accessori di legge dalla data della pubblicazione della sentenza, somma di danaro liquidata in via equitativa, attesa l’impossibilità di una individuazione del quantum sulla base degli elementi acquisiti in ordine alla effettiva quantità e qualità del lavoro svolto, limitando quindi il riconoscimento delle pretese azionate a soli 55 mesi di lavoro, per effetto dell’accolta eccezione di prescrizione quinquennale, ex adverso opposta, e rigettando quindi ogni altra domanda (ma senza pronunciarsi sulla impugnativa del dedotto licenziamento verbale e neanche in ordine al trattamento di fine rapporto).

Le anzidette pronunce sono state, quindi, impugnate dai suddetti P.A. e D.A.M. mediante separati ricorsi, poi riuniti dalla Corte di Appello di Salerno, che con sentenza in data 20 marzo / 8 aprile 2013, notificata il 7 maggio 2013, rigettava il gravame interposto dalla D. ed accoglieva parzialmente quello proposto dal P., con conseguente parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarando il diritto di quest’ultimo a percepire la somma di Euro 6985,89 a titolo di differenze retributive non prescritte, oltre accessori come per legge, spese di c.t.u. a carico dell’appellato.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione P.A. e D.A.M. come da atto notificato il cinque luglio 2013 e affidato a sei motivi, cui ha resistito la S.r.l. BUONOTOURIST mediante controricorso in data 25 luglio 2013.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso è stato denunciato l’omesso esame della mancata pronuncia in merito alla richiesta di P.A. di conversione del rapporto a tempo indeterminato.

Sono state, quindi, richiamate le prove documentali prodotte in sede di merito (contratto a termine del 18 ottobre 1995 con scadenza al 31 maggio 1996, busta paga di giugno 1996 recante quale data cessazione rapporto 15 giugno 1996, perciò oltre il termine precedentemente fissato e così via…; modelli CUD dal 1997 al 2000… a conferma della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato relativo a prestazioni rese dal P. in assenza di contratti a tempo determinato).

I contratti di lavoro a tempo determinato risultavano sottoscritti nei seguenti termini: anno scolastico 1995 – 1996, contratto dal 18 ottobre 1995 con scadenza 31 maggio 1996;

anno scolastico 2000 – 2001, contratto con decorrenza 2 ottobre 2000 e scadenza al 30 giugno 2001;

anno scolastico 2002 – 2003, contratto di 7 mesi con decorrenza dal 25 novembre 2002;

anno scolastico 2003 – 2004, contratto a termine di 9 mesi con decorrenza dal 1 ottobre 2003.

Le eseguite prestazioni lavorative si erano protratte oltre il termine finale indicato nei contratti a tempo determinato.

In particolare, con il contratto a termine in data 25 novembre 2002 era stata prevista una durata di 7 mesi, con scadenza quindi al 25 giugno 2003, laddove il rapporto era proseguito anche nei mesi di luglio e agosto dell’anno 2003 come da fogli paga, e da ultima busta paga, la quale indicava come data di assunzione il 25 novembre 2002 e data del licenziamento quella del 23 agosto 2003, con conseguente conversione a tempo indeterminato ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5.

Di conseguenza, l’impugnata pronuncia risultata ulteriormente viziata, per avere la Corte territoriale omesso l’esame di un fatto decisivo della controversia in base alle anzidette prove documentali, pure in relazione al contratto di cui alla lettera di assunzione del 1 ottobre 2003, che come gli altri non contemplava la specifica indicazione per iscritto delle

esigenze legittimanti il ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato: i contratti a tempo determinato di ottobre 1995, settembre 2000, novembre 2002 e 1 ottobre 2003 non riportavano alcuna indicazione in merito alle esigenze di cui all’articolo 1 del decreto n. 368, donde il vizio dell’impugnata sentenza per non essersi pronunciata in merito all’invocata unificazione dei rapporti per effetto di quanto previsto dall’art. 1, comma 2 cit. D.Lgs..

Con il secondo motivo è stato denunciato, altresì, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che aveva formato oggetto di discussione tra le parti: la mancata pronuncia in merito alla richiesta di P.A. del riconoscimento dell’indennizzo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 3.

Con il 3^ motivo entrambi i ricorrenti si sono doluti della violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2nonchè della nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4.

Stante l’indubbia natura di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ne risultavano inficiate anche le conseguenti statuizioni della pronuncia impugnata, fondate sull’erroneo presupposto della sussistenza di un rapporto di lavoro a termine, ivi comprese quelle in tema di licenziamento.

Si contesta quanto osservato dalla Corte d’Appello salernitana, secondo cui i plurimi contratti a termine risultavano tutti cessati per mutuo consenso, giusta la ricezione anche del t.f.r. con la tacita intesa di un mero rinnovo, legato strettamente alle sorti del contratto di appalto intervenuto tra il Comune di Scafati e la BUONOTOURIST. I comportamenti tenuti dalle parti in occasione delle scadenze di ciascuno dei contratti tra il P. e la BUONOTURIST erano altamente significativi della volontà delle stesse, in relazione alle intervenute plurime risoluzioni del rapporto per mutuo consenso ed in nessun caso vi era prova di una qualche estromissione dall’azienda per licenziamento del P..

Secondo parte ricorrente, era stato invece dimostrato il carattere simulato dei diversi contratti intervenuti tra il P. e la società convenuta, nonchè la prosecuzione del rapporto per lunghi periodi senza alcun tipo di contratto, che avrebbero dovuto indurre il giudicante a convertirli in un unico rapporto a tempo indeterminato. Di conseguenza, ne derivava la conversione del rapporto di lavoro per il P. e l’accertamento per entrambi i ricorrenti della illegittimità del licenziamento, perchè intimato verbalmente, oltre che per interposta persona nei confronti della D., donde la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2.

Quanto, in particolare alla D., era inconcepibile l’affermazione della Corte territoriale, secondo cui non si era trattato di licenziamento orale, essendo semplicemente venuta a cessazione efficacia di un contratto a termine, non più rinnovato. L’affermazione risultava in stridente contrasto con le risultanze pacifiche degli atti e documenti del giudizio, perchè era certo e pacifico che non vi fosse stata alcuna regolamentazione scritta del rapporto tra la D. e la BUONOTOURIST, relativamente al rapporto di lavoro irregolare avutosi tra le parti dal 1997 sino al 2004.

Inoltre, la Corte distrettuale aveva fondato il proprio errato convincimento in relazione alla presunta discontinuità dei rispettivi rapporti di lavoro, in base ai quali aveva desunto il preteso mutuo consenso, poichè dalle testimonianze era emerso che entrambi gli appellanti effettuavano servizio di scuolabus (la D. come accudiente per i disabili, solo per alcune ore della giornata con lunghe cause di lavoro nel periodo estivo quando non era necessario porre a disposizione della BUONOTOURIST le proprie energie lavorative), senza alcuna precisazione sul punto. Probabilmente, la Corte d’Appello aveva tenuto conto soltanto delle dichiarazioni dei testi di parte resistente e non anche di quanto documentalmente provato (buste paga rilasciate al P., capitolato speciale di appalto relativo al servizio trasporto alunni portatori di handicap varato dal Comune di Scafati negli anni scolastici dal 1996 al 1998, secondo cui tra l’altro all’art. 2H era espressamente previsto che durante la sospensione delle attività didattiche l’amministrazione comunale si riservava il diritto e la facoltà insindacabile di utilizzare nel territorio comunale gli automezzi della ditta appaltatrice per attività ricreative, sportive e culturali. L’utilizzo di tali automezzi poteva avvenire anche per soggetti non portatori di handicap).

Ne derivava che i ricorrenti erano tenuti all’obbligo di mettere le proprie energie lavorative a disposizione della datrice di lavoro anche nei periodi di sospensione delle attività scolastiche e/o negli orari in cui queste ultime non avevano luogo.

Risultava, pertanto, evidente il salto logico compiuto dalla Corte di merito con il suo ragionamento, perchè non era dato comprendere i motivi che l’avevano indotta alle conclusioni dalla stessa raggiunte: dalla immotivata mancata unificazione del rapporto di lavoro a termine del P., all’asserzione del tutto ingiustificata di rapporto a termine anche in capo alla D.; dal preminente e assorbente rilievo, costituito da prova testimoniale inattendibile alla immotivata omessa valutazione delle prove documentali offerte dalle ricorrenti.

Siffatte incongruenti argomentazioni della Corte d’Appello si traducevano in un vizio della motivazione, come tale soltanto apparente, ma in realtà inesistente, poichè il ragionamento appariva viziato da falsa rappresentazione dei fatti di causa, ovvero da arzigogolate e fallaci valutazioni degli elementi di prova a suo vaglio, donde la nullità della sentenza per la mancanza dell’elemento essenziale ex art. 132 c.p.c., n. 4 (art. 132 c.p.c. – Contenuto della sentenza. – La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano e reca l’intestazione “Repubblica Italiana”. Essa deve contenere:… 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione… – Numero così sostituito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17. Per espressa previsione dell’art. 58, commi 1 e 2 L. cit.: “Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore (avvenuta il 4 luglio 2009). 112. Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano gli artt. 132,345 e 616 c.p.c. e l’art. 118 disp. att. c.p.c., come modificati dalla presente legge”).

I suddetti tre motivi, tra loro evidentemente connessi e perciò esaminabili congiuntamente, vanno senz’altro disattesi, risultando evidente dalla lettura dell’impugnata sentenza come la Corte territoriale si sia indubbiamente pronunciata in modo assorbente sulle richieste degli appellanti (v. anche le rispettive conclusioni, ivi integralmente riportate), avendo motivatamente escluso l’asserito licenziamento verbale dei due ricorrenti, peraltro dando anche atto del giudicato interno, favorevole alla D. relativamente all’accertato rapporto di lavoro subordinato pure nei confronti di quest’ultima alle dipendenze della società convenuta (per effetto della mancata impugnazione da parte di quest’ultima della sua condanna al pagamento delle liquidate differenze retributive, ancorchè in misura inferiore alla domanda dell’interessata). In proposito, invero, la Corte salernitana ha ritenuto attendibili le dichiarazioni fornite dalla teste PA., la quale aveva riferito anche in ordine alle modalità di cessazione del rapporto tra tutte le parti, sicchè non poteva parlarsi di licenziamento orale alcuno, nè del P., nè della D., essendo semplicemente venuta a cessazione l’efficacia di un contratto a termine, non più rinnovato. Del resto, trattandosi, almeno in apparenza, di contratti a tempo determinato, è noto come la mera comunicazione, da parte datoriale, della loro scadenza non equivalga di certo all’intimazione di un vero e proprio licenziamento (cfr. in part. Cass. lav. n. 23756 del 06/10 – 10/11/2009: “… Invero, costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che nell’ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili nè la norma di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, nè quella di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18,ancorchè la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato. Infatti, mentre la tutela prevista dal cit. art. 18, attiene ad una fattispecie tipica, disciplinata dal legislatore con riferimento al recesso del datore di lavoro, e presuppone l’esercizio della relativa facoltà con una manifestazione unilaterale di volontà di determinare l’estinzione del rapporto, una simile manifestazione non è configurabile nel caso di disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, al dipendente, sicchè lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla (Cass. SS. UU. 8 ottobre 2002 n. 14381)….

Giova, in proposito rammentare che, intervenute a comporre il contrasto di giurisprudenza venutosi a determinare sulla questione se l’estromissione del lavoratore dall’organizzazione aziendale per scadenza di un termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro fosse da equiparare a licenziamento ingiustificato, le sezioni unite della Corte (7471/1991) lo hanno composto escludendo la configurabilità di una fattispecie di recesso. Ciò perchè, in linea generale – fatta eccezione per i casi di esternazione della volontà di troncare il rapporto nella consapevolezza della sua permanenza – datore di rapporto, senza esprimere perciò alcuna volontà diretta a produrre l’effetto estintivo, cosicchè natura meramente ricognitiva è da attribuire all’eventuale comunicazione alla controparte della cessazione del rapporto da una certa data (in termini, Cass. 26 maggio 2003 n. 8352). Correttamente, pertanto, la Corte territoriale, riportandosi a tale orientamento, ritenuto applicabile anche alla fattispecie in esame, ancorchè non del tutto sovrapponibile a quella esaminata dalla richiamata giurisprudenza, ma pur sempre sostenuta dalla medesima ratio, ha escluso la presenza di un negozio di recesso, sancendo, in piena coerenza, la continuità del rapporto, con le relative conseguenze, non oggetto di impugnazione da parte della società. Il rigetto della proposta censura comporta l’assorbimento del secondo motivo concernente la pretesa violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18….”. In senso analogo, v. anche Cass. lav. lav. n. 11741 del 21/05/2007: in caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l’onere di impugnazione nel termine previsto a pena di decadenza dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 – che presuppone un licenziamento -, atteso che il rapporto cessa per l’apparente operatività del termine stesso in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla; pertanto, applicandosi la disciplina della nullità in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l’illegittimità’ del termine e chiedere conseguentemente l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la condanna del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro, salvo che il protrarsi della mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda ed il suo prolungato disinteresse alla prosecuzione del rapporto esprimano, come comportamento tacito concludente, la volontà di risoluzione consensuale del rapporto stesso e sempre che il rapporto -apparentemente- a termine non si sia risolto per effetto di uno specifico atto di recesso del datore di lavoro -licenziamento-, che si sia sovrapposto alla mera operatività del termine con la conseguente applicazione, in tale ultimo caso, sia del termine di decadenza di cui all’art. 6 cit., sia della disciplina della giusta causa e del giustificato motivo del licenziamento).

Premesso, ancora al riguardo come l’attrice D. (n.b., i primi due motivi sono testualmente riferiti al solo P., mentre solo il terzo riguarda anche la predetta) non risulti aver dedotto specificamente (ex art. 360 c.p.c., n. 3) la violazione di alcuna norma di legge per quanto concerne la mancanza di forma scritta in ordine al rapporto di lavoro, a tempo determinato, che l’aveva legata alle dipendenze della BUONOTOURIST, e come nemmeno abbia denunciato una eventuale violazione, in proposito, dell’anzidetto giudicato interno, peraltro nemmeno d’ufficio rilevabile in base alle carenti (ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6) enunciazioni sul punto di parte ricorrente, va comunque osservato che con accertamento di fatto, adeguatamente motivato, la Corte di merito ha pure ritenuto la cessazione dei plurimi contratti a termine tra le parti tutti per mutuo consenso (ricezione anche del t.f.r. con la tacita intesa di un loro rinnovo strettamente legato alle sorti del contratto di appalto tra il Comune di Scafati e la Buonotourist….).

Dunque, le doglianze di cui al ricorso in ordine alla contestata risoluzione consensuale sono palesemente inammissibili, al pari di quelle inerenti all’esclusa sussistenza dei pretesi licenziamenti verbali. Ed invero, le censure al riguardo formulate, oltre che non autosufficienti per carenza di compiute allegazioni, sono inammissibili, in quanto dirette a sovvertire in questa sede di legittimità quanto diversamente appurato con sufficienti e lineari argomentazioni, tutt’altro che meramente apparenti e/o di stile, vieppiù inoltre in base alla rigorosa e stringente limitazione imposta in proposito dalla vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 del codice di rito, nella specie ratione temporis applicabile in relazione all’impugnata sentenza in data 20 marzo – 8 aprile 2013, sicchè non risulta violato in proposito il c.d. minimo costituzionale (cfr. sul punto in part. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014), mentre d’altro canto neanche è ravvisabile alcun omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che abbia formato oggetto di discussione tra le parti. Pertanto, non vi è stata alcuna omessa pronuncia (come tale peraltro denunciabile, però esclusivamente ed univocamente in termini di nullità ex art. 112 – art. 360 c.p.c., n. 4) nei sensi rubricati con il primo motivo di ricorso, testualmente riferito al solo P., avendo la Corte di merito escluso non solo l’asserito licenziamento verbale (anche per la D.), ma anche accertato in fatto il mutuo consenso in ordine all’ipotizzata invalidità dei vari contratti a tempo determinato intervenuti tra le parti, di guisa che specialmente a tale ultimo riguardo non occorreva, evidentemente, alcuna esplicita decisione, essendo la questione assorbita per effetto della ritenuta risoluzione consensuale. Di conseguenza, nemmeno si poneva il problema dell’indennizzo L. n. 183 del 2010, ex art. 32 (2 motivo, anche questo testualmente rubricato soltanto in relazione alla posizione del P.), applicabile infatti soltanto laddove fosse intervenuta una decisione di merito favorevole in proposito alla parte attrice.

Ed in punto di diritto, per quanto concerne, l’anzidetto accertato mutuo consenso, il collegio richiama altresì il più recente indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (Cass. lav. n. 29781 del 12/12/2017, cui si rinvia integralmente per ogni altro più puntuale ed opportuno riferimento), secondo cui in tema di contratti a tempo determinato, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente.

Pressochè identiche considerazioni possono, quindi, valere in relazione alle doglianze di cui al terzo motivo, atteso che motivatamente, peraltro conformemente alla prevalente succitata giurisprudenza di legittimità, è stata esclusa ogni ipotesi di recesso orale per entrambi i ricorrenti.

Inoltre, con il 4 motivo è stata denunciata la nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4 – nonchè la violazione o falsa applicazione di norme di diritto dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai danni di P.A. e D.A. in merito alle richieste per differenze retributive ed altri emolumenti economici.

L’ordinanza di conferimento di incarico al c.t.u. risultava alla base delle erronee risultanze della relazione peritale e, quindi, della sentenza impugnata, perchè anch’essa faceva leva su immotivate e inespresse convinzioni, nonchè su fallaci presupposti. Infatti, quanto alla posizione della D., in effetti era stata demandata al perito la quantificazione delle sue spettanze lavorative sulla scorta di una retribuzione percepita di 35,00 Euro giornaliere, ma anche sul punto la sentenza risultava del tutto immotivata, perchè non emergeva alcun elemento di prova che la ricorrente avesse mai percepito una paga giornaliera di 35 Euro, mentre nel ricorso introduttivo con i conteggi ivi allegati era stata specificamente indicata la retribuzione variata nel tempo. Nessuno dei testi sentiti aveva riferito notizie in merito alla paga percepita dalla D.. Risultava così evidente pure la violazione della norma sull’onere della prova ex art. 2697 c.c.. Anche in questo caso il vizio della motivazione si traduceva in nullità della sentenza impugnata.

Ulteriore violazione riguardava l’inquadramento della D. nel 10 livello contrattuale secondo il contratto collettivo di settore, così come statuito dalla Corte d’Appello nell’ordinanza di conferimento dell’incarico al c.t.u., anzichè nel 40 livello, come invece richiesto con l’atto introduttivo del giudizio, avuto riguardo alle mansioni disimpegnate dalla D., la quale si interessava dell’assistenza aì disabili dello scuolabus. Indubbiamente l’assistenza ai disabili richiedeva adeguate cognizioni teorico-pratiche acquisibili in virtù di addestramento e di abilitazioni professionali. Nè si potevano certamente paragonare la sorveglianza, l’assistenza e la cura dei disabili alla mera guardiania di beni materiali.

Nemmeno era dato comprendere in relazione alla D. le ragioni per le quali la Corte territoriale avesse indicato al c.t.u. soltanto tre ore lavorative a giornata dal lunedì al sabato. Non si spiegava come fosse possibile tale limitazione a sole 3 ore giornaliere della prestazione fornita dalla D., considerato che al P. con la medesima ordinanza del 26 settembre del 2012 era stato riconosciuto l’orario ordinario contrattuale, essendo peraltro fuor di dubbio che i due coniugi svolgessero le proprie prestazioni congiuntamente a bordo dello scuolabus.

Risultava, quindi, anche violato l’art. 15 del contratto collettivo 3 luglio 1996 per le autorimesse e il noleggio autobus, laddove in particolare quanto all’orario di lavoro per il personale addetto ai lavori discontinui e o di attesa al punto C si faceva riferimento a 40 ore per i conducenti di autobus e personale viaggiante, nonchè autisti di autofurgoni e autotreni.

Inoltre, contrariamente a quanto previsto dall’art. 38 suddetto contratto collettivo in tema di aumenti periodici di anzianità, erroneamente il c.t.u. aveva calcolato gli scatti di anzianità soltanto a partire dall’anno 2002, pur essendo il rapporto iniziato dal marzo dell’anno 1997. Il fatto che la Corte d’Appello avesse voluto limitare il conteggio alle annualità non prescritte (quinquennio dicembre 1999 – settembre 2004) non avrebbe dovuto incidere sul riconoscimento degli scatti di anzianità maturati durante il periodo anteriore, sicchè anche a voler considerare prescritte le indennità di epoca anteriore al quinquennio, comunque si sarebbero dovuti conteggiare gli scatti maturati.

Analoghe considerazioni valevano per la posizione di P.A., nonchè per entrambi i ricorrenti con riferimento al t.f.r., visto che il conteggio del c.t.u. prendeva in considerazione soltanto le somme accantonate a decorrere dal 17 dicembre 1999, con indebito mancato computo di quelle maturate nei precedenti periodi del rapporto di lavoro, in violazione della L. 29 maggio 1982, n. 297.

Orbene, le anzidette censure di cui al quarto motivo, appaiono inammissibili, poichè non ritualmente autosufficienti, nei sensi invece richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, avendo in particolare omesso i ricorrenti di riprodurre in modo adeguato le richieste in proposito formulate con gli atti introduttivi dei due giudizi, nonchè le conseguenti decisioni di primo grado e la relazione di c.t.u. contabile, sulla quale si appunta si appuntano maggiormente le critiche mosse. Nè risultano idoneamente illustrati gli elementi di prova a sostegno delle specifiche rivendicazioni retributive de quibus, il cui onere evidentemente compete ex art. 2697 c.c. a parte attrice e che, d’altro canto, nemmeno può ritenersi adempiuto per il solo fatto delle allegazioni (per giunta, come detto, carenti ex cit. art. 366) sul punto contenute nell’atto introduttivo.

Ne deriva che le doglianze, variamente prospettare con il quarto motivo, non possono, almeno allo stato e salvo quanto altro di seguito deciso, venire in rilievo in questa sede di legittimità.

Ed invero, con il 5^ motivo è stata lamentata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2948 c.p.c., n. 4 in danno di P.A..

Infatti, non si comprendeva come la Corte territoriale, in parziale accoglimento dell’appello, avesse rigettato il gravame proposto dal P., riconoscendogli soltanto la somma di Euro 6985,89, però calcolata dal c.t.u. prendendo in considerazione unicamente gli ultimi tre anni del rapporto, anzichè gli ultimi 5 come stabilito dall’art. 2948 c.c., n. 4. Per contro, sommando gli importi conteggiati dal consulente per l’ultimo quinquennio, la somma ottenuta e che doveva essere riconosciuta ammontava a Euro 9063,54 (1900,61 ottobre 2003 / agosto 2004 + 2153,64 ottobre 2002 / giugno 2003 + 2931,64 ottobre 2001 / giugno 2002 + 1226,48 ottobre 2000 / giugno 2001 + 851,17 dicembre 1999 / giugno 2000).

Da ultimo, con il sesto motivo è stata denunciata la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 in danno di P.A.. Infatti, i giudici di merito avevano semplicemente affermato, senza tuttavia specificarne i motivi, che il rapporto fosse assistito da stabilità reale, in particolare avendo la Corte salernitana ritenuto significativa la deposizione resa in proposito da Pa.Va., dipendente della BUONOTOURIST sin dal 1985, rigettando però implicitamente quanto sostenuto da parte ricorrente in sede di appello, secondo cui non sussisteva la stabilità reale perchè il posto di lavoro dei predetti era situato nel territorio di Scafati, distante perciò rispetto alla sede aziendale di (OMISSIS), era escluso che la convenuta occupasse più di 15 dipendenti nell’ambito del Comune di Scafati da intendersi quale autonoma unità produttiva; neppure era stato dimostrato che la datrice di lavoro all’atto della cessazione del rapporto occupasse alle proprie dipendenze più di 60 prestatori; il ricorrente svolgeva un’attività ben distinta da quella ordinariamente esercitata dall’azienda; la prestazione iniziava e si esauriva nell’ambito territoriale di Scafati, dove il P. autonomamente provvedeva ad impartire alla D. le direttive necessarie all’espletamento del rapporto e ad erogarle la retribuzione; essi ricorrenti non avevano alcun rapporto con altro personale aziendale, salvo sporadiche occasioni; il contratto di assunzione risalente all’ottobre 1995 indicava espressamente che la residenza aziendale restava fissata in Scafati.

Pertanto, l’attore aveva evidenziato in sede di gravame la mancanza di effettive garanzie di stabilità nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di modo che una lettura costituzionalmente orientata e conforme alla ratio di cui all’art. 18 Statuto dei Lavoratori imponeva di escludere l’applicabilità nella specie del regime di stabilità reale previsto dalla legge e di conseguenza la possibilità della decorrenza del termine di prescrizione in costanza di rapporto. D’altro canto, l’onere della prova in materia incombeva al datore di lavoro e non era stato assolto.

Pertanto, la Corte d’Appello aveva violato la disciplina dettata dal succitato art. 18, in tema di stabilità reale, la quale soltanto consentiva il computo della prescrizione in costanza di rapporto.

L’anzidetto motivo – evidentemente connesso al quinto che lo precede, concernente la questione della prescrizione, invece ritenuta parzialmente fondata dalla Corte di merito, però senza compiuta valutazione delle ineludibili problematiche giuridiche sottesevi – merita accoglimento.

Invero, la sentenza qui impugnata non contiene alcuna espressa pronuncia circa il requisito dimensionale per far luogo alla tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18 (ovviamente secondo il testo all’epoca vigente nella specie ratione temporis applicabile) in relazione alla invocata reintegra nel posto di lavoro, avendo escluso, come già sopra visto, qualsiasi licenziamento, anche orale, da parte della società convenuta, pur dando atto, d’altro canto, che entrambi gli appellanti avevano lamentato, con i rispettivi gravami, il riconoscimento della prescrizione (ancorchè di parte delle vantate prese creditorie) secondo le impugnate pronunce di primo grado (“… Anche il P. deduceva che il rapporto non fosse assistito da stabilità reale, contrastando l’avversa eccezione…”). Quindi, senza ulteriori precisazioni sul punto, la Corte d’Appello richiamava la testimonianza resa da PA.Va., laddove costei aveva riferito, tra l’altro, che la società aveva sempre avuto più di sedici dipendenti, giungendo poi ad affermare che spettavano al P. differenze retributive, nei limiti della prescrizione quinquennale alla stregua dei conteggi svolti dal c.t.u.. Pertanto, a fronte di tali laconiche affermazioni appaiono giustificati i rilievi formulati con il sesto motivo, rubricato formalmente in relazione al solo P.A. (così come, del resto, anche la surriferita quinta censura), per quanto concerne la falsa applicazione del citato art. 18, unicamente in ordine alla circostanza, però non dirimente per la sua estrema genericità, dell’impiego di più 16 dipendenti, senza quindi preoccuparsi minimamente di valutare le specifiche osservazioni in proposito svolte dagli appellanti circa l’effettiva carenza del requisito dimensionale ex cit. art. 18, da cui poter desumere la stabilità reale, così quindi di computare il termine di decorrenza della (eccepita) prescrizione in costanza dei rapporti de quibus (che avevano ricevuto attuazione esclusivamente nel territorio comunale di Scafati, distante dalla sede della società, sita in altro comune, mancanza di elementi probatori da cui poter desumere che in Scafati vi fosse un’autonoma unità produttiva con più di quindici dipendenti e che la convenuta occupasse complessivamente più di sessanta dipendenti e così via).

Del resto, l’art. 18 Statuto (secondo il testo in vigore dal: 26/5/1990 al 29-2-2008), faceva riferimento a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupante alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, nonchè ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Precisava, inoltre, che non si computavano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale, e che il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incideva su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Al riguardo, giova poi richiamare il principio, condivisibilmente affermato da questa Corte con la sentenza n. 7640 del 16/05/2012, secondo cui in tema di prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore, l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale della stabilità reale, ai fini della decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro grava sul datore di lavoro, che tale decorrenza eccepisca, dovendosi ritenere, alla luce della tutela ex art. 36 Cost., che la sospensione in costanza di rapporto costituisca la regola e l’immediata decorrenza l’eccezione. Nè, in senso contrario, rileva il diverso principio, operante nelle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, secondo il quale, a fronte della richiesta di tutela reale del lavoratore, spetta al datore di lavoro la prova dell’assenza della suddetta condizione, che rileva quale fatto impeditivo del diritto del lavoratore alla reintegrazione (in senso analogo Cass. lav. n. 7848 del 19/07/1995: quando è controversa la data di decorrenza del termine breve di prescrizione dei crediti di lavoro in dipendenza dell’assoggettamento o meno del rapporto al regime di stabilità derivante dall’applicazione cumulativa delle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 – ai sensi della sentenza della Corte costituzionale 10 giugno 1966 n. 63 e della successiva elaborazione della giurisprudenza costituzionale e ordinaria -, l’onere della prova relativamente alle circostanze di fatto che determinano la stabilità del rapporto, e quindi la decorrenza della prescrizione in costanza del medesimo, grava, ai sensi dell’art. 2697 c.c., sul datore di lavoro che propone l’eccezione di prescrizione, poichè le stesse circostanze rientrano, insieme al decorso del tempo, nella fattispecie produttiva dell’effetto estintivo. V. parimenti, tra le altre, Cass. lav. n. 10861 del 24/07/2002 e n. 11793 del 6/8/2002).

Ne deriva, altresì, l’irrilevanza, almeno in questa sede di legittimità, di quanto pur genericamente dedotto da parte attrice sub n. 23 del ricorso introduttivo del giudizio pag. 3: “All’atto del licenziamento la convenuta occupava più di 15 dipendenti”, affermazione peraltro fatta con esclusivo riferimento al preteso licenziamento orale, non dimostrato ed escluso correttamente dai giudici di merito, dunque senza alcun positivo accertamento sul punto, tenuto altresì conto del principio stabilito da questa Corte anche con la più recente pronuncia n. 7640/12, circa la diversità di prove in tema di decorrenza e di licenziamento (sicchè quanto alla prescrizione parte datoriale deve provare la sussistenza di idoneo requisito dimensionale, a sostegno dell’opposta eccezione, mentre in caso di recesso è tenuta a dimostrarne, invece, il difetto al fine d’impedire la reintegra invocata ex adverso dal lavoratore illegittimamente licenziato, ovviamene in base al testo del più volte ricordato art. 18 nella specie ancora operante in relazione a fatti risalenti al settembre 2004).

Ne deriva la cassazione sul punto dell’impugnata pronuncia, assorbito il connesso quinto motivo, di guisa che la causa va rimessa, ex artt. 384 e 385 c.p.c., anche per le spese di questo giudizio, alla Corte di merito, individuata in dispositivo, che si atterrà ai succitati principi di diritto, con ogni conseguente occorrente accertamento in punto di fatto, avuto riguardo altresì a quanto pure dedotto dalla controricorrente in proposito circa asserite emergenze probatorie (semprechè ritualmente e tempestivamente già a suo tempo allegate in fatto), derivanti dalle menzionate delibera della Regione Campania dell’otto febbraio 1995 e visura storica Camera di Commercio Salerno del sei aprile 2005.

Infine, visto, che l’impugnazione de qua è risultata, sebbene in parte, fondata, non ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater per far luogo alla declaratoria ivi contemplata in ordine al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte accoglie il sesto e ultimo motivo di ricorso, dichiarando assorbito il quinto. Rigetta i primi quattro. Cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018

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