Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30890 del 29/11/2018

Cassazione civile sez. I, 29/11/2018, (ud. 30/10/2018, dep. 29/11/2018), n.30890

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19554/2017 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via della Giuliana n.

32, presso lo studio dell’avvocato Liberati Enrico, che lo

rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno – Commissione Territoriale per il

Riconoscimento della Protezione Internazionale di Bari;

– intimato –

avverso la sentenza n. 680/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 23/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/10/2018 dal Pres. Dott. SCHIRO’ STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) Con ricorso notificato il 25 luglio 2017 M.F., cittadino del Bangladesh, ha impugnato per cassazione, sulla base di due motivi, la sentenza della Corte di appello di Lecce n. 680/2017 del 23 giugno 2017, con la quale era stato rigettato l’appello dal medesimo proposto avverso l’ordinanza in data 13 luglio 2016 del Tribunale di Lecce, che aveva respinto la sua richiesta di riconoscimento di una misura di protezione internazionale.

2) A fondamento della sentenza qui impugnata, la Corte di appello, precisato che “l’oggetto dei motivi di ricorso è soltanto il mancato riconoscimento dei requisiti per la concessione della protezione internazionale umanitaria”, ha osservato che in sede di audizione effettuata dalla Commissione territoriale lo straniero aveva dichiarato di essersi allontanato dal paese d’origine perchè denunciato e ricercato dalla polizia in quanto ritenuto responsabile di scontri avvenuti al mercato, dove lavorava come dipendente, e per aver avuto in precedenza accese discussioni con il suo datore di lavoro e con il figlio di questo per aumenti stipendiali e per non essere licenziato. Di conseguenza la vicenda oggetto del racconto, “in disparte ogni pur condivisibile considerazione sulla scarsa verosimiglianza” del racconto stesso “sì inserisce comunque in un ambito di rapporti di tipo prettamente privato, sicchè difficilmente potrà avere conseguenze significative, con specifico riferimento alla sua personale incolumità, apparendo il racconto piuttosto un pretesto per giustificare la richiesta di protezione”. Ad avviso dei giudici di appello, non emergono dal racconto dello straniero e dalla documentazione in possesso della Corte fondati motivi per ritenere che, se l’appellante ritornasse nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un danno grave alla persona e non possa, in presenza di tale rischio, avvalersi della protezione di tale paese. In conclusione, “pur considerato l’esame della grave situazione di conflitto interno che caratterizza attualmente il Bangladesh…non ricorrono a parere del Collegio le condizioni per la concessione del richiesto permesso di soggiorno umanitario, perchè il reclamante non ha fornito, neanche sotto questo profilo, alcuna prova della sussistenza di una situazione individualizzante il pericolo di persecuzione nel Paese di origine che legittimi, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, il divieto di espulsione”.

3) Il Ministero intimato non ha svolto attività difensiva.

Il Pubblico ministero non ha depositato conclusioni scritte.

Nell’odierna Camera di consiglio, il Collegio ha deliberato di adottare la forma di motivazione semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4) Rileva preliminarmente il collegio che il ricorso è stato irritualmente notificato al Ministero dell’Interno – Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, presso la sede di Bari. Deve tuttavia ritenersi che “il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione “prima facie” infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti” (Cass. n. 12515/2018).

5) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per non avere la Corte di appello applicato nella specie il principio dell’onere probatorio attenuato e per non aver valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dalla suddetta disposizione.

Con il secondo motivo si prospetta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di appello omesso l’esame del fatto decisivo costituito dall’avvenuto deposito in giudizio del contratto di apprendistato professionalizzante con attestazione dell’impiego del ricorrente come aiuto cuoco in un ristorante di Roma.

6) Il primo motivo è inammissibile. La Corte di appello ha precisato in motivazione che “l’oggetto dei motivi di ricorso è soltanto il mancato riconoscimento dei requisiti per la concessione della protezione internazionale umanitaria”, concludendo nel senso che non ricorrono le condizioni per la concessione del richiesto permesso di soggiorno umanitario.

Il ricorrente, invece, a sostegno della propria censura per violazione di legge, ha richiamato principi e orientamenti giurisprudenziali riguardanti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria (Sentenze della Corte di giustizia n. 172 del 2009, nel caso Elgfaji contro Paesi Bassi, e n. 285 del 2012 nel caso Diakitè; Ordinanza Corte di cassazione n. 15466 del 7 luglio 2014), muovendo quindi doglianze non attinenti al “decisum” della sentenza impugnata.

7) Il secondo motivo è privo di fondamento, in quanto il dedotto fatto non tenuto in considerazione dai giudici di appello (impiego dello straniero come aiuto cuoco in un ristorante di Roma in forza di contratto di apprendistato professionalizzante) è privo di carattere decisivo. Osserva il collegio che, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Non può, inoltre, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Sentenza CEDU 8/4/2008 Ric. 21878 del 2006 Caso Nyianzi c. Regno Unito) (Cass. n. 17072 del 2018).

L’esito del giudizio sul motivo in esame non muta, peraltro, anche alla luce delle nuove disposizioni di cui al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, indipendentemente dalla loro applicabilità alla fattispecie concreta che non assumono rilievo alcuno rispetto ai fatti dedotti a fondamento della originaria domanda di protezione umanitaria.

8) Al rigetto del ricorso non consegue la pronuncia sulle spese, non avendo il Ministero intimato svolto difese.

Poichè il ricorrente è stata ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018

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