Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30862 del 29/11/2018

Cassazione civile sez. III, 29/11/2018, (ud. 18/10/2018, dep. 29/11/2018), n.30862

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11821/2017 R.G. proposto da:

C.B., e C.G.M., rappresentati e difesi

dall’Avv. Andrea Caronna;

– ricorrenti –

contro

Unicredit S.p.A., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Nicola

Piazza, con domicilio eletto in Roma, piazza del fante, n. 2, presso

lo studio dell’Avv. Giovanni Palmeri;

– controricorrente –

e nei confronti di:

P.D., D.F., R.F.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo, n. 806/2016,

pubblicata il 29 aprile 2016;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 ottobre

2018 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Il Banco di Sicilia, Società per Azioni, a tutela delle ragioni di credito derivanti dal saldo di tre conti correnti intestati ad Alisea Airlines S.p.A., convenne in giudizio davanti al Tribunale di Palermo, insieme con la debitrice principale, i fideiussori C.B., C.G.M., R.F., D.F. e P.D., chiedendone la condanna in solido al pagamento del relativo importo.

C.B. e G.M. eccepirono, tra l’altro, la contrarietà a correttezza e buona fede del comportamento della banca, avendo essa, dopo il rilascio delle fideiussioni, concesso alla correntista nuove aperture di credito, consentendo anche di fatto il superamento dei limiti dei fidi accordati, senza darne comunicazione alcuna ai fideiussori.

C.G.M. chiese anche, in via riconvenzionale, la condanna della banca alla restituzione dei titoli costituiti in pegno a garanzia delle aperture di credito in uno dei suddetti conti correnti.

Nel corso del giudizio tutte le parti diedero atto del sopravvenuto fallimento della società debitrice e venne inoltre depositata dichiarazione di rinuncia alla domanda in quanto proposta nei confronti dei convenuti D. e P., da questi accettata.

Con sentenza del 28/9/2011 il tribunale dichiarò improcedibili le domande nei confronti di Alisea Airlines S.p.A. ed estinto il processo tra la banca ed i convenuti D. e P.; condannò C.G.M., C.B. e R.F. al pagamento, in favore dell’attrice, delle somme già poste a loro carico con ordinanza ingiunzione ex art. 186-ter c.p.c., emessa in corso di causa (pari a Euro 1.071.732,43); rigettò la domanda riconvenzionale proposta da C.G.M., condannando quest’ultimo, in solido con C.B. e R.F., al pagamento delle spese del grado.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Palermo ha confermato tale decisione, rigettando l’appello interposto da C.G.M. e C.B. e condannandoli alle spese del grado in favore della banca e degli altri appellati costituiti, P.D. e D.F..

3. Avverso tale decisione i soccombenti propongono ricorso per cassazione articolando sei motivi, cui resiste Unicredit S.p.A. (nel frattempo asserita mente subentrata all’originaria attrice nella titolarità del credito, a seguito di intermedie vicende), all’originaria attrice, depositando controricorso.

Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Rilevano che:

– nel corso del giudizio di primo grado la stessa banca attrice diede atto di aver insinuato i propri crediti, in via chirografaria, al passivo del fallimento di Alisea Airlines S.p.A.;

– in separato giudizio promosso dalla curatela contro la medesima banca per la revocatoria delle rimesse solutorie effettuate dalla società nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, il Tribunale di Palermo, con sentenza del 2013, condannò la convenuta al pagamento, in favore del fallimento, della somma di Euro 13.619.576,20, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo;

– successivamente la banca propose una transazione, autorizzata dal tribunale fallimentare con decreto del 18/7/2013, alle condizioni indicate in ricorso, tra le quali la rinuncia da parte della banca ad insinuare al passivo del fallimento sia il credito per cui aveva effettuato un pagamento a titolo transattivo L. Fall., ex art. 71, sia il credito chirografario di Euro 993.916,63 per cui era già stata ammessa al passivo fallimentare.

Ciò premesso, i ricorrenti evidenziano che di tale transazione essi “si occuparono ampiamente nella comparsa conclusionale depositata il 14/3/2016, attribuendovi la natura di rinunzia al diritto di credito” e che sul tema controparte disquisì nella memoria di replica, eccependo l’inammissibilità della deduzione ex art. 345 c.p.c. e, nel merito, l’infondatezza della tesi che da quella transazione faceva derivare l’inesistenza sopravvenuta dell’obbligazione di Alisea, dal momento che la banca aveva rinunziato esclusivamente all’ammissione del credito al passivo fallimentare.

Lamentano quindi che “sul fatto storico addotto, sull’oggetto della transazione e sugli effetti giuridici” – tra i quali, assumono, anche l’estinzione del vincolo fideiussorio, avendo quella rinuncia anche determinato, sostengono, il venir meno dei diritti di surroga e regresso ex artt. 1949 e 1950 c.c. – la Corte di appello non ha speso nemmeno una parola.

1.1. La censura è inammissibile.

E’ in tal senso assorbente il rilievo che: a) il testo della transazione tra la banca e la curatela non risulta mai essere stato prodotto da alcuna delle parti in causa; b) i ricorrenti non hanno trascritto le clausole dalle quali risulterebbe la correttezza della propria interpretazione; c) è riferito solo il contenuto della proposta di transazione e del successivo decreto del tribunale fallimentare che la autorizza a condizioni parzialmente modificate, ma nulla viene detto sul se e in che termini la transazione sia stata poi effettivamente conclusa; d) i ricorrenti omettono di specificare se, come e quando i suddetti documenti (proposta transattiva e decreto autorizzativo del tribunale fallimentare) siano stati prodotti, limitandosi a indicarne la collocazione nel fascicolo processuale; e) nemmeno viene specificato in quale atto e in che termini la banca poi abbia effettivamente rinunciato alla domanda di ammissione al passivo (nè tantomeno tale atto viene localizzato nell’incartamento processuale, nè ne viene trascritto o adeguatamente riassunto il contenuto, in violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Può comunque anche rilevarsi la non decisività del fatto del quale si lamenta l’omessa considerazione.

Pur ammettendosi che la transazione sia stata effettivamente conclusa nei termini nei quali la stessa era stata autorizzata, dovrebbe comunque ritenersi (o, quanto meno, non potrebbe escludersi) che la rinuncia alla quale con essa si obbligava la banca sia stata limitata, giusta quanto eccepito dalla controricorrente, alla sola domanda di ammissione del credito medesimo al passivo del fallimento, ciò che però non comporta che essa abbia fatto rinuncia anche c.d. tutela postfallimentare delle proprie ragioni creditorie nei confronti della società debitrice, una volta tornata in bonis, venendo così anche meno il presupposto sul quale i ricorrenti fondano la tesi del conseguente venir meno dell’obbligazione fideiussoria.

La tesi poi secondo la quale tale rinuncia determinerebbe comunque di per sè il venir meno dell’obbligo fideiussorio, ai sensi dell’art. 1955 c.c., è inammissibile e comunque infondata.

Inammissibile perchè pone una questione nuova, che non risulta trattata nel giudizio di merito.

Infondata perchè, come questa Corte ha ripetutamente precisato, il fatto del creditore, rilevante ai sensi dell’art. 1955, deve costituire violazione di un dovere giuridico imposto dalla legge o nascente dal contratto; esso deve consistere, pertanto, in un fatto quanto meno colposo, o comunque illecito, che abbia sottratto al fideiussore concrete possibilità esistenti nella sfera del creditore al tempo della garanzia, che gli avrebbero consentito l’attuazione dell’obbligazione garantita (v. ex multis Cass. n. 9634 del 2003; n. 7603 del 1997; n. 3080 del 1995); il pregiudizio deve, inoltre, essere giuridico, non solo economico, e concretizzarsi nella perdita di un diritto, e non nella maggior difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del patrimonio del debitore (v. Cass. n. 9634 del 2003; n. 4444 del 2002; n. 3161 del 1997).

La scelta del creditore di non chiedere la (o rinunciare alla) ammissione al passivo del fallimento del debitore principale, da un lato, costituisce opzione del tutto legittima che difficilmente appare ascrivibile a violazione di doveri gravanti sul creditore, dall’altro, non può comunque considerarsi idonea a comportare di per sè un pregiudizio giuridico nel senso predetto, non potendo considerarsi essa causa addirittura della perdita del diritto di surrogazione o di regresso, atteso che, l’azione nei confronti del debitore principale può sempre essere esperita mediante un’insinuazione tardiva (ove la procedura sia ancora aperta) ovvero verso il debitore in bonis.

Rimane, certo, il pregiudizio rappresentato dall’elevato rischio di non poter partecipare alla distribuzione dell’attivo, ma non può revocarsi in dubbio che questo rappresenti un pregiudizio non giuridico(ma esclusivamente di natura economica, come tale non rilevante ai fini dell’operatività della richiamata causa di estinzione della garanzia (v. esattamente in termini, proprio con riferimento alla mancata domanda di ammissione al passivo del fallimento del debitore principale, Cass. 17/04/2003, n. 6171, secondo cui la chiusura del fallimento del debitore principale “non è certo giuridicamente ostativa al successivo esercizio, nei suoi confronti, dei diritti di surrogazione e regresso spettanti al fideiussore che abbia dovuto fronteggiare debiti facenti capo al fallito”).

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonchè dell’art. 210 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello respinto il motivo di gravame con il quale gli appellanti si dolevano del rigetto della richiesta di emissione di ordine di esibizione di documentazione relativa ai rapporti tra la banca e la società (richieste di fido presentate da Alisea e accordate con riferimento a tutti e tre i conti correnti; bilanci e conti economici a corredo; delibere adottate e relazioni inviate all’ufficio superiore competente; delibere da questo adottate; vari ordini di bonifico e accredito; contratti di cessione di credito con terze società; distinta di versamento relativo all’operazione di Euro 900.000; ordine di prelevamento relativo ad un’operazione di Euro 1.600.000): documentazione tutta dalla quale, secondo i ricorrenti, sarebbe emerso il comportamento dell’istituto bancario non conforme ai doveri di correttezza e buona fede imposti dalle norme richiamate.

2.1. La censura è inammissibile.

L’esercizio del potere discrezionale concesso al giudice di ordinare l’esibizione alla parte o a terzi di documenti o altre cose di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo non è sindacabile sul piano del rispetto delle regole processuali, nè tantomeno di quelle sostanziale evocate, ma solo sul piano della motivazione, nei limiti peraltro in cui ciò è adesso consentito dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. in tal senso, Cass. 20/06/2011, n. 13533; v. anche conff. Cass. 24/01/2014, n. 1484; in precedenza v. Cass. n. 6439 del 2010, n. 19521 del 2004, n. 16047 del 2004, n. 10043 del 2004, n. 12611 del 2003, n. 3290 del 2003, n. 9815 del 2002 e n. 12507 del 1999; contra, nel senso della insindacabilità assoluta in cassazione dell’esercizio di tale potere, nemmeno per difetto di motivazione, v. però Cass. n. 24188 del 2013, n. 23120 del 2010, n. 22196 del 2010, n. 4375 del 2010, n. 2262 del 2006, n. 10357 del 2005, n. 12997 del 2004, n. 5908 del 2004, n. 19054 del 2003 e n. 13443 del 2003).

La censura nella specie dedotta non si muove, evidentemente, su tale piano, omettendo anzi i ricorrenti di confrontarsi in alcun modo con la motivazione sul punto espressa in sentenza, donde anche il preliminare rilievo di aspecificità del motivo.

La Corte d’appello ha infatti rilevato che, come già evidenziato dal primo giudice, la richiesta si esponeva a diversi profili di inammissibilità, sia in quanto meramente esplorativa (essendo “una mera ipotesi che… (il peggioramento delle condizioni patrimoniali della società, n.d.r.)… risulti da alcuni dei documenti elencati (tuttora non è stato specificato quali documenti e per quali ragioni dovrebbero provare le circostanze di cui sopra)”), sia per difetto del requisito di indispensabilità (potendosi presumere che gli odierni ricorrenti, in virtù della loro qualità rispettivamente di socio e amministratore di Alisea, fossero in condizioni di venire in possesso degli atti in questione), sia ancora per l’irrilevanza dell’obiettivo probatorio perseguito, dal momento che la qualità rivestita dagli appellanti, odierni ricorrenti, in seno alla società, implicava che gli stessi “ben conoscessero o dovessero conoscere le condizioni economiche e finanziarie della stessa”.

Con tali argomenti i ricorrenti omettono di confrontarsi in alcun modo limitandosi a svolgere considerazioni generiche, circa l’opportunità di “conoscere la valutazione che l’erogatore del credito ha fatto del potenziale debitore prima della concessione”, che non fanno altro che confermare anzi la natura meramente esplorativa della richiesta in questione.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1956 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello ritenuto che la sola mancanza di liquidità possa non essere indice del peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore principale.

3.1. Anche tale motivo si appalesa inammissibile, per aspecificità, e comunque infondato.

La regula iuris applicata dal giudice di merito si conforma a principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui in tema di fideiussione per obbligazioni future e di liberazione del fideiussore, ciò che conta a norma dell’art. 1956 c.c., comma 1, non è la contezza di un’eventuale mancanza di liquidità del debitore, ovvero di un suo bisogno di ulteriore liquidità, bensì quella del mutamento delle condizioni economiche del medesimo rispetto al sorgere del rapporto e dell’ulteriore rischio che ciò induce rispetto ad altre aperture di credito (Cass. 16/02/1998, n. 1645; 09/04/1990, n. 2965): presupposto, questo, che la Corte d’appello ha ritenuto non provato.

In ogni caso, la decisione trova autonomo e di per sè solo sufficiente fondamento anche nell’ulteriore rilievo, già sopra ricordato, secondo cui gli odierni ricorrenti, per la posizione ricoperta all’interno della società, non potevano non essere al corrente delle condizioni patrimoniali della stessa.

Tale accertamento risulta solo incidentalmente contestato in ricorso, alla stregua però di mera contraria asserzione, priva come tale di alcun rilievo censorio.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 e dell’art. 1954 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito negato rilievo al pagamento effettuato da P.D. e D.F. nell’ambito del processo esecutivo instaurato a seguito di ordinanza ex art. 186-ter c.p.c..

Rilevano che in quella sede i predetti confideiussori avevano versato a titolo definitivo al Banco di Sicilia la somma di Euro 420.000 e che conseguentemente l’assegnazione delle somme pignorate a carico di essi ricorrenti era stata ordinata soltanto per la somma di Euro 824.191,53.

Lamentano che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto tale circostanza come posta ad oggetto di domanda nuova e comunque infondata, essendo stata la somma corrisposta nell’ambito di altro rapporto.

4.1. Anche tale censura è inammissibile.

Anzitutto per la palese violazione dell’onere imposto al ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di “specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”.

La censura si basa infatti su atti, che si assume essere stati depositati in primo grado, dei quali però i ricorrenti omettono di trascrivere il contenuto, o comunque di riassumerlo in modo esaustivo; nè indicano a quale fascicolo essi siano allegati, e con quale indicizzazione (v., in proposito, ex multis, Cass. Sez. U del 05/07/2013, n. 16887; Cass. 27/03/2018, n. 7513; 28/09/2016, n. 19048; 15/07/2015, n. 14784; 07/02/2011, n. 2966).

Può comunque soggiungersi, sotto altro profilo, che con si ricavano dalla sentenza impugnata, in parte qua, affermazioni in diritto ovvero l’applicazione di una regola di giudizio in contrasto con le norme evocate.

La Corte d’appello, invero, ha negato rilievo alla circostanza dedotta non perchè abbia ritenuto che il pagamento effettuato da condebitori in solido non possa avere effetto totalmente o parzialmente estintivo del debito anche a vantaggio degli altri coobbligati, con conseguente diritto di regresso del fideiussore adempiente contro gli altri fideiussori (questione, quest’ultima, peraltro totalmente estranea al tema di lite).

Ha piuttosto posto a base della decisione:

a) un rilievo di carattere processuale (novità della domanda);

b) la diversità del rapporto cui afferiva il pagamento eseguito da D. e P..

Nessuno di tali rilievi risulta fatto segno di conferente censura con il motivo in esame.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2794 c.c., in relazione al rigetto della domanda riconvenzionale proposta da C.G.M. tendente a ottenere la restituzione dei titoli costituiti in pegno: rigetto motivato dal rilievo che, secondo la norma codicistica, l’obbligo di restituzione del pegno sorge per il soggetto ricevente solo con l’estinzione dell’obbligazione garantita, nella specie non verificatasi.

Sostengono i ricorrenti che l’emissione di ingiunzione di pagamento, seguita da esecuzione fruttuosa in favore del creditore, deve essere considerata momento estintivo dell’obbligazione garantita all’atto del passaggio in giudicato della sentenza definitiva.

5.1. Anche tale censura è inammissibile.

Anche in tal caso non viene evidenziato l’errore di diritto (di interpretazione della norma ovvero di sussunzione in essa del fatto così come accertato) in cui sarebbe incorsa la Corte di merito, la quale invero ha rigettato la domanda sul duplice rilievo secondo cui:

a) l’art. 2794 c.c., prevede che l’obbligo di restituzione del pegno sorge per il creditore pignoratizio solo con l’estinzione dell’obbligazione garantita (regula iuris in sè non fatta segno di alcuna censura e pienamente conforme comunque al dettato normativo);

b) tale estinzione nella specie non si era verificata.

La critica si appunta in realtà su tale secondo rilievo e lo fa attraverso argomenti del tutto eccentrici rispetto al tipo di vizio dedotto e peraltro intrinsecamente contraddittori.

La tesi infatti secondo cui nel caso di specie l’effetto estintivo dell’obbligazione garantita si sarebbe già realizzato è anzitutto fondata su elementi di fatto (la conclusione del procedimento esecutivo avviato sulla base dell’ordinanza ingiunzione emessa in corso di causa) che non emergono affatto dalla sentenza impugnata; nè viene sul punto dedotto vizio di motivazione, tanto meno nei termini richiesti dal paradigma censorio di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Anche in tal caso inoltre la doglianza è fondata su atto (quello di assegnazione di somme ex art. 553 c.p.c.) senza il rispetto degli oneri di specifica indicazione e localizzazione imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

Essa è inoltre intrinsecamente contraddittoria posto che subordina comunque l’effetto estintivo al passaggio in giudicato della sentenza di merito che, confermando l’ordinanza ingiunzione posta a base dell’esecuzione forzata, accerti definitivamente il credito azionato: condizione questa che ovviamente non può sussistere al momento in cui la sentenza è emessa.

E’ peraltro anche infondata dal momento che, secondo principio incontrastato, l’assegnazione del credito, in quanto disposta in pagamento salvo esazione ai sensi dell’art. 553 c.p.c., non opera anche l’immediata estinzione del credito per cui si è proceduto in via esecutiva, la quale è assoggettata alla condizione sospensiva del pagamento che il terzo assegnato esegua al creditore assegnatario (art. 2928 c.c.), evento con il quale si realizza il duplice effetto estintivo del debito del debitor debitoris nei confronti del debitore esecutato e del debito di quest’ultimo verso il creditore assegnatario (Cass. 31/03/2011, n. 7508; 11/12/2007, n. 25946).

6. Resta conseguentemente assorbito l’esame del sesto motivo di ricorso con il quale i ricorrenti lamentano l’erroneità, per violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., della condanna alle spese, assumendo che le stesse, per il principio della soccombenza, avrebbero dovuto essere poste a carico della banca o delle altre parti, in conseguenza del rigetto della domanda nei loro confronti proposta (a sua volta auspicato, s’intende, quale conseguenza dell’accoglimento dei presenti motivi di ricorso).

7. Per le considerazioni che precedono il ricorso, in definitiva, deve essere dichiarato inammissibile.

Non v’è luogo a provvedere su regolamento delle spese dovendosi considerare inammissibile il controricorso di Unicredit S.p.a., in difetto di prova – come eccepito dai ricorrenti nella propria memoria – della propria legittimazione ad causam in quanto dalla stessa dedotta in virtù di delibera di retrocessione del credito da Unicredit Credit Management S.p.a. (a sua volte cessionaria dei crediti del banco di Sicilia) che però non risulta prodotta.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018

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