Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30850 del 29/10/2021

Cassazione civile sez. lav., 29/10/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 29/10/2021), n.30850

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1501/2019 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

GRACCHI, 189, presso lo studio dell’avvocato ENRICO MELE, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente principale –

SEVITALIA SICUREZZA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA, 295,

presso lo studio dell’avvocato CARLA OLIVIERI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4001/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/10/2018 R.G.N. 2678/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/03/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA

Mario, ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 29 ottobre 2018, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare comminato alla guardia giurata F.M. da Sevitalia Sicurezza Srl e, in applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, come novellato, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro ed ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari ad 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori; ha compensato parzialmente le spese di lite nella misura della metà, tenendo conto del “complessivo esito del presente giudizio”, ponendo le residue a carico della soccombente;

2. la Corte ha premesso che “il lavoratore risulta essere stato licenziato sulla base di due distinti addebiti disciplinari, commessi entrambi nella mattinata del 26/11/2016 ed oggetto della lettera di contestazione del 29/11/2016”, consistiti nell’abbandono anticipato della propria postazione, lasciandola priva del servizio di vigilanza, senza avvertire la centrale operativa e senza attendere sul posto il collega del turno successivo, nonché nell’essere stato trovato, alle ore 4.20 di quel mattino, nel corso di un controllo ispettivo, con la radio in dotazione spenta;

la Corte, valutato il materiale istruttorio, ha ritenuto l’esistenza di una prassi che escludeva che la prima condotta del lavoratore potesse essere qualificata, “sotto un profilo soggettivo, come abbandono del posto di lavoro”: “trattasi – secondo la Corte di condotta alla quale non può attribuirsi un diretto rilievo disciplinare proprio in quanto caratterizzata dall’assenza di qualsiasi volontà o consapevolezza di violare direttive ricevute e/o di tradire la fiducia del proprio datore di lavoro e che, in ogni caso, per tali motivi non potrebbe reputarsi tale neanche se sommata all’ulteriore addebito contestato (definito dalla stessa società nella lettera di contestazione del 29/11/2016 di “minore gravità”), da giustificare l’applicazione di una sanzione espulsiva”;

in punto di tutela applicabile la Corte territoriale ha osservato che “i fatti addebitati al lavoratore non possono comunque ritenersi insussistenti”: ha infatti considerato “come non sia stata oggetto di impugnazione specifica la ritenuta sussistenza, all’esito delle precedenti fase del giudizio, dell’ulteriore addebito disciplinare relativo alla mancata accensione della radio di servizio sull’autovettura, fondatezza dell’addebito che era stata oggetto di istruttoria orale in fase sommaria ed era stata espressamente posta a fondamento della decisione tanto nell’ordinanza che ha definito tale fase che nella gravata sentenza”; pertanto, ritenuto che “ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”, la Corte ha riconosciuto la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 novellato;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso principale il F. con 4 motivi, cui ha resistito la società con controricorso, contenente impugnazione incidentale affidata ad un unico motivo;

4. la Procura Generale ha comunicato requisitoria scritta in cui ha concluso per il rigetto del ricorso incidentale e per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale, assorbiti gli altri;

entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. per ragioni di pregiudizialità giuridica, deve essere esaminato il ricorso incidentale della società con cui si eccepisce che la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare “inammissibile il reclamo” del lavoratore e si denuncia la violazione degli artt. 112 e 100 c.p.c.;

si argomenta che la Corte territoriale avrebbe riconosciuto in sentenza che non era stato oggetto di impugnazione specifica la ritenuta sussistenza, nel giudizio di primo grado, dell’ulteriore addebito disciplinare relativo alla mancata accensione della radio di servizio; di talché la stessa Corte non si sarebbe dovuta pronunciare “su una delle ragioni che sostenevano la sentenza di primo grado non investita dai motivi di reclamo”;

la censura è infondata;

e’ stato affermato il principio secondo cui il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicché non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio (Cass. n. 8604 del 2017; Cass. n. 1377 del 2016; Cass. n. 443 del 2011);

nel caso di specie, quindi, il reclamo era rivolto alla riforma integrale della sentenza di primo grado, sul presupposto della illegittimità del licenziamento intimato, per cui al giudice del gravame era sicuramente devoluta l’intera questione del se l’intera condotta contestata fosse o meno idonea a giustificare il recesso; né può dirsi che sulla legittimità del licenziamento ritenuta in primo grado si sia formato un giudicato interno, atteso che, una volta impugnata la pronuncia di rigetto del ricorso del lavoratore, non era suscettibile di passare in giudicato solo quella parte relativa alla sussistenza dell’addebito “minore”, così come non lo è una qualunque asserzione contenuta nella motivazione d’una sentenza, riferendosi l’art. 329 cpv. c.p.c., soltanto alla sequenza logica “fatto norma – effetto giuridico” attraverso la quale si afferma l’esistenza d’un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. Cass. n. 14670 del 2015; Cass. n. 4572 del 2013; Cass. n. 16583 del 2012; Cass. n. 16808 del 2011; Cass. n. 27196 del 2Ó06; Cass. n. 10832 del 1998; Cass. n. 6769 del 1998);

2. il primo motivo del ricorso principale del lavoratore denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, per il mancato riconoscimento della tutela reintegratoria; si sostiene che la Corte territoriale avrebbe ritenuto che “entrambi gli addebiti mossi al lavoratore, nel loro complesso, non avevano un diretto rilievo disciplinare e non erano tali da giustificare il licenziamento”, per cui, stante l’insussistenza del fatto addebitato in senso giuridico e non materiale, avrebbe dovuto essere riconosciuta la reintegrazione, risultando erronea “ogni questione e riferimento alla proporzionalità fra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità”;

la censura non è accoglibile perché fondata su di una lettura della motivazione della sentenza impugnata che è parziale e non condivisibile;

non corrisponde al vero che la Corte territoriale abbia negato integralmente ogni rilevanza disciplinare della condotta contestata, la quale, come si riporta nello storico della lite, consisteva in un addebito duplice; la Corte romana nella motivazione esplicitamente esclude, allorquando deve verificare la tutela applicabile, dopo aver verificato l’inidoneità dell’addebito a giustificare la massima sanzione espulsiva (applicando correttamente il giudizio cd. “bifasico” conforme all’insegnamento di questa Corte, v. tra le recenti: Cass. n. 3076 del 2020; Cass. n. 17492 del 2020), che i fatti possano ritenersi insussistenti, facendo esplicitamente riferimento “all’ulteriore addebito disciplinare relativo alla mancata accensione della radio di servizio sull’autovettura”; del tutto coerentemente ha richiamato, dunque, l’aspetto del difetto di proporzionalità che, per consolidata giurisprudenza, non consente la reintegrazione nel posto di lavoro, verificandosi una di quelle “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali dell’art. 18, comma 5, prevede la tutela indennitaria cd. forte (ab imo: Cass. n. 13178 del 2017; tra le molte successive conformi v. Cass. n. 18823 del 2018; Cass. n. 25534 del 2018; Cass. n. 31529 del 2019);

peraltro, secondo questa Corte, “in caso di contestazione di una pluralità di addebiti (..) la “insussistenza del fatto” si configura solo qualora sul piano fattuale possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotta – fra i fatti oggetto di contestazione di per sé solo astrattamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva, oppure, specularmente, secondo quanto già ritenuto, qualora si realizzi l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità” (Cass. n. 18418 del 2016); quanto ora rammentato “costituisce sviluppo, nel contesto del novellato art. 18, del principio ripetutamente affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento (Cass. 28/07/2017 n. 18836; Cass. 30/05/2014 n. 12195; Cass. 31/10/2013 n. 24574; Cass. 14/01/2003 n. 454)” (così Cass. n. 14192 del 2018);

in definitiva: “in tema di licenziamento disciplinare, nel caso di pluralità di addebiti, l’insussistenza del fatto contestato attorno alla quale ruota la disciplina di cui all’art. 18, comma 4, st. lav. novellato, è configurabile solo qualora nessuno degli addebiti – ciascuno autonomamente considerato da presumere base idonea per giustificare la sanzione – sia sussistente o se, comunque, possa dirsi che anche i fatti accertati come verificatisi siano disciplinarmente del tutto irrilevanti” (Cass. n. 26764 del 2019);

3. il secondo motivo denuncia ancora violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5 e “del CCNL delle imprese di Vigilanza privata e servizi fiduciari”, avuto sempre riguardo alla negata tutela reintegratoria; si deduce che l’art. 101, lett. D), del contratto collettivo nazionale richiamato “non prevede quale motivo di licenziamento per giusta causa la fattispecie del mantenimento della radio di servizio spenta” e che tale residuo fatto addebitato al F. sarebbe comunque punibile con una sanzione conservativa, dovendosi configurare come “lieve irregolarità nell’adempimento dei suoi doveri o nel comportamento in servizio” o come esecuzione “senza la necessaria diligenza del lavoro affidatogli”;

la doglianza è in parte inammissibile ed in parte infondata;

la questione della punibilità della condotta contestata con una sanzione di tipo conservativo prevista dalla contrattazione collettiva applicabile non è affrontata in sentenza, né parte ricorrente specifica quando e come la questione sia stata introdotta nel giudizio; secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS.UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004; più di recente: Cass. n. 32084 del 2019; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 27568 del 2017);

la censura è anche infondata nel duplice aspetto in cui è articolata;

invero la previsione, nel contratto collettivo, di fattispecie integranti giusta causa di licenziamento rappresenta uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., ma non è vincolante per il giudice, il quale può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica o del comune vivere civile (tra le più recenti v. Cass. n. 13412 del 2020 e Cass. n. 17321 del 2020)

quanto poi al rapporto tra contrattazione collettiva e sanzioni conservative questa Corte ha affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla L. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa al fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, potendosi procedere ad un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali soltanto ove esse appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione, e non già nel caso in cui il risultato sia quello di ridurre la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni; ne consegue che solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà anche meritevole della tutela reintegratoria (ab imo: Cass. n. 12365 del 2019; conformi successive: Cass. n. 13533 del 2019; Cass. n. 14500 del 2019; Cass. n. 31839 del 2019);

4. il terzo mezzo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in ragione di una asserita contraddittorietà della motivazione impugnata che si ravvisa nell’opinione che la Corte di Appello da una parte avrebbe qualificato come insussistente l’abbandono del posto di lavoro e, d’altro canto, avrebbe poi dichiarato che i fatti contestati “non possono comunque ritenersi insussistenti”;

il motivo è manifestamente infondato perché, come detto, ricostruisce in modo parziale le argomentazioni della Corte di Appello che, pur ritenendo non idonea a giustificare il licenziamento la condotta addebitata, ha poi ritenuto applicabile la tutela indennitaria proprio perché comunque residuava un addebito di rilievo disciplinare;

5. parimenti non può trovare accoglimento l’ultimo motivo del ricorso principale con cui si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per aver la Corte territoriale omesso “di motivare le ragioni per cui le spese legali debbano essere compensate tra le parti”;

infatti deve ribadirsi che la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91 c.p.c., comma 1, in questa sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle spese processuali, costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo ove la motivazione posta a fondamento della statuizione di compensazione risulti palesemente illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per la sua inconsistenza o evidente erroneità, il processo decisionale del giudice (v., per tutte, Cass. SS.UU. n. 20598 del 2008), mentre nella specie risulta che la Corte distrettuale ha ritenuto di dover compensare, peraltro in misura parziale, motivando sulla base del “complessivo esito del presente giudizio”, tenendo conto evidentemente delle alterne vicende dello stesso e dell’accoglimento solo parziale della domanda introduttiva e del reclamo, quanto alla tutela richiesta;

in proposito questa Corte ha statuito che “la regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91 c.p.c.), ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92 c.p.c., comma 2); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorché quest’ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento” (Cass. n. 3438 del 2016; Cass. n. 21684 del 2013);

6. conclusivamente entrambi i ricorsi devono essere respinti e la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in via principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi proposti, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale e compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in via principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i ricorsi presentati a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2021

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