Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30844 del 29/10/2021

Cassazione civile sez. lav., 29/10/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 29/10/2021), n.30844

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6573-2017 proposto da:

M.A.G., nella qualità di erede di C.R.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 257, presso lo

studio dell’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio dell’avvocato NUNZIO

RIZZO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1166/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 09/03/2016 R.G.N. 10132/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/12/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli accolse in parte la domanda proposta da C.R. nei confronti della (OMISSIS) s.p.a. e condannò la convenuta al pagamento della somma di Euro 56.452,23 a titolo di compenso contrattualmente previsto per l’intera durata minima del rapporto scaturente dal contratto d’opera professionale del 1.7.1998 dal quale la società era receduta senza giusta causa il 2.10.1998.

2. La Corte di appello di Napoli investita del gravame da parte della società, nel contraddittorio ritualmente costituitosi successivamente alla morte del C. ed al fallimento della società, ha dichiarato cessata la materia del contendere nei confronti degli eredi V., M. e C.S. che avevano rinunciato all’eredità del padre e non avevano più interesse alla prosecuzione del giudizio nel quale erano rimasti intimati, mentre ha rigettato l’originaria domanda del C. coltivata da M.A.G. che si era costituita in prosecuzione. Il giudice di appello, per quanto qui ancora interessa, ha ritenuto che la risoluzione del contratto d’opera per giusta causa imputabile al prestatore, ravvisata nella sostanziale inattività tenuta dal C. ed emersa nel corso del giudizio, rendeva inesigibile il risarcimento del danno azionato in relazione ad una durata minima del rapporto convenuta tra le parti.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.A.G. affidato a due motivi al quale ha opposto difese il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l. con controricorso che ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119,2697 c.c., art. 2222 c.c. e ss. e dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.1. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che i fatti accertati integrassero una giusta causa di recesso, vale a dire quel notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che non avrebbe consentito la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. Il giudice di appello nel pervenire a tale convincimento avrebbe trascurato di considerare che la società non aveva dimostrato, come era suo onere, quale era il numero di contratti di vendita stipulati dal C. dal quale si era indotta l’inattività posta a base del recesso. Rileva che, peraltro, la mancata conclusione dei contratti ben potrebbe essere la conseguenza della esistenza di congiunture sfavorevoli non imputabili al C. e pertanto per integrare una giusta causa la società avrebbe dovuto dimostrarne la riferibilità ad un comportamento dello stesso. In sostanza, secondo la ricorrente, la sentenza ha proceduto ad una ricostruzione delle emergenze istruttorie finalizzata ad accertare una grave conflittualità tra il C. e la società e contestuali inadempimenti senza considerare che tale situazione ben poteva essere imputabile ad entrambe le parti e non, come ritenuto, riferibile, in via esclusiva, ad una sua condotta inappropriata.

6. Con il secondo motivo di ricorso viene denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che la Corte sarebbe incorsa nella denunciata violazione avendo trascurato di considerare che proprio dalla lettera di revoca dell’incarico del 2.10.1998 si evinceva l’insussistenza della giusta causa atteso che conteneva un chiaro riferimento al preavviso di un mese che, previsto nel contratto, era incompatibile con la risoluzione ad nutum del rapporto. Inoltre il giudice di secondo grado avrebbe valorizzato il contenuto sfavorevole della deposizione del teste I. e non avrebbe considerato, come invece aveva fatto il giudice di primo grado, che questa era relativa a fatti di cui il teste non aveva conoscenza diretta.

7. Il ricorso non può essere accolto poiché la Corte territoriale, nella sua ricostruzione dei fatti e nella sussunzione degli stessi nell’ambito di una giusta causa di recesso dal contratto, non è incorsa negli errori di diritto denunciati né tanto meno ha trascurato di prendere in esame circostanze decisive ai fini di un diverso esito della controversia.

7.1. Rileva il Collegio che la sentenza muove da una corretta indicazione dei presupposti necessari a configurare una giusta causa di recesso dal rapporto e, solo all’esito di una analitica ricostruzione delle modalità con le quali si era svolto, ha accertato che si era sviluppata una accentuata conflittualità, sfociata anche in iniziative giudiziali aventi ad oggetto atti di concorrenza sleale e di male gestio, ed accompagnata da una sostanziale inattività del C. che per tre mesi si era sottratto, ingiustificatamente, ad importanti incontri ed all’obbligo, convenzionalmente assunto con la società, di rendicontare la sua attività.

7.2. Il giudice di appello ha proceduto ad un’accurata analisi delle emergenze dell’istruttoria svolta e con una ricostruzione del tutto plausibile, seppure opposta a quella del primo giudice, ha evidenziato che ne era risultato provato un comportamento gravemente inadempiente del C. in tutto il periodo, breve ma significativo, in cui accanto ad altri compiti gli fu affidata anche la direzione delle vendite. L’indagine del giudice di appello, sebbene non si concentri su specifici dati numerici (numero di contratti di vendita stipulati dal C.), tuttavia accerta quella che il giudice di secondo grado qualifica appunto come una sostanziale inattività asseverata anche dalla manifestata intenzione di non andare più in azienda di cui uno dei testi escussi ha riferito per diretta percezione. Si tratta all’evidenza di una ricostruzione di fatto che non viola le norme richiamate poiché, sulla base degli elementi di prova offerti dalla società a sostegno della correttezza del suo agire, e correttamente accerta che la risoluzione del rapporto è intervenuta a causa di un inadempimento del lavoratore ritenuto così grave da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto. Nessun vizio di sussunzione ma piuttosto un accertamento dei fatti che appartiene al giudice di merito e non può essere rivisto davanti al giudice di legittimità.

7.3. Per quanto riguarda poi la denunciata mancata valutazione da parte della Corte territoriale del tenore testuale della lettera di recesso che rinvierebbe ad un periodo di preavviso, ritenuto incompatibile con la revoca per giusta causa dell’incarico, la censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 è generica poiché non riproduce il contenuto del documento ed impedisce alla Corte di apprezzare la fondatezza dei rilievi formulati. Va qui ribadito che se l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), tuttavia è necessario che la censura si muova nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per cui il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. per tutte Cass. Sez. U. 07/04/2014 n. 8053). Peraltro il richiamo all’istituto del preavviso si riverbera semmai sugli effetti economici della risoluzione del rapporto ma non esclude affatto che possa dirsi irrimediabilmente incrinato il vincolo fiduciario necessario ai fini di una sua prosecuzione.

8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R., se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2021

 

 

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