Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30828 del 22/12/2017


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Civile Ord. Sez. 5 Num. 30828 Anno 2017
Presidente: BRUSCHETTA ERNESTINO LUIGI
Relatore: LUCIOTTI LUCIO

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20662/2014 R.G. proposto da
BINDA Gianni,

rappresentato e difeso, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’avv. Alessandra Clerici, ed elettivamente
domiciliato presso lo studio legale dell’avv. Lucilla Lenti, in Roma, via
Crescenzio, n. 19;

ricorrente

contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la
quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

controricorrente

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della
Lombardia, n. 433/15/2014, depositata in data 27 gennaio 2014;
cui è riunito
il ricorso iscritto al n. 20665/2014 R.G. proposto da

Data pubblicazione: 22/12/2017

BINDA Clementino s.r.I., in liquidazione (già Binda Clementino & C.
s.a.s.), in persona del liquidatore Clementino Binda, rappresentata e
difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dall’avv.
Alessandra Clerici, ed elettivamente domiciliata presso lo studio
legale dell’avv. Lucilla Lenti, in Roma, via Crescenzio, n. 19;

contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la
quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della
Lombardia, n. 434/15/2014, depositata in data 27 gennaio 2014;
cui è riunito
il ricorso iscritto al n. 20667/2014 R.G. proposto da
BINDA Clementino, rappresentato e difeso, per procura speciale a
margine del ricorso, dall’avv. Alessandra Clerici, ed elettivamente
domiciliata presso lo studio legale dell’avv. Lucilla Lenti, in Roma, via
Crescenzio, n. 19;
– ricorrente

contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la
quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della
Lombardia, n. 432/15/2014, depositata in data 27 gennaio 2014;

udita la relazione svolta dal Cons. Lucio Luciotti nella camera di
consiglio del 26 settembre 2017.

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– ricorrente

RILEVATO

– che l’Agenzia delle Entrate, sulla scorta della segnalazione della
Direzione Regionale Lombardia – Settore Accertamento – Ufficio
Analisi e Ricerca, dalla quale risultava l’omessa esibizione delle
scritture contabili obbligatorie al personale della G.d.F. che, quale

aveva effettuato un accesso presso la sede della Binda Clementino
s.a.s. (ora s.r.I., in liquidazione), nonché l’inattendibilità degli acquisti
dichiarati, emetteva separati avvisi di accertamento in relazione
all’anno di imposta 2003 nei confronti della predetta società,
esercente attività di commercio al dettaglio di biancheria intima, e dei
soci Clementino e Gianni Binda, e di quest’ultimo anche quale titolare
dell’omonima ditta individuale, recuperando a tassazione VIVA
indebitamente detratta ed accertando induttivamente un maggior
valore della produzione ai fini IRAP ed un maggior reddito d’impresa
della s.a.s. ai fini IRPEF, imputati per trasparenza ai predetti soci in
proporzione alle rispettive, ancorché paritarie, quote di partecipazione
nella predetta società;
– che sia la società che i soci impugnavano gli atti impositivi loro
notificati dinanzi la Commissione tributaria provinciale di Lecco, che
nella medesima composizione (Sezione 4) e nella stessa data
pronunciava tre sentenze (n. 25, n. 26 e n. 27), pubblicate in data
10/02/2011, che i predetti contribuenti appellavano con separati
ricorsi dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia
che, nella medesima composizione (Sezione 15) e nella stessa data
(30/09/2013) pronunciava tre sentenze (n. 432, n. 433 e n. 434),
pubblicate in data 27/01/2014, con cui rigettava gli appelli,
confermando la statuizione di primo grado;
– che sostenevano i giudici di appello che era corretta la notifica
dell’avviso di accertamento effettuata dall’amministrazione finanziaria
a mezzo posta; che erano utilizzabili dall’amministrazione finanziaria i

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polizia giudiziaria operante nell’ambito di un procedimento penale,

dati a questa trasmessi dalla polizia giudiziaria, non ritenendo
necessaria l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, prevista dall’art.
63 d.P.R. n. 633 del 1972, che comunque risultava essere stata
concessa; che i contribuenti erano stati informati dell’esito delle
attività di indagine, portate a loro conoscenza mediante notifica degli

stati messi nelle condizioni di difendersi adeguatamente; che era
fondato l’accertamento effettuato dall’amministrazione finanziaria,
per come confermato dalla produzione dei registri IVA; che, infine, le
sanzioni amministrative pecuniarie erano state «correttamente
irrogate»;
— che avverso tale statuizione i contribuenti propongono separati
ricorsi per cassazione, iscritti ai nn. 20662/14, 20665/14 e 20667/14
R.G., affidati ciascuno ad otto motivi, cui l’intimata replica con
separati controricorsi;
CONSIDERATO

— che va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi proposti
dalla società e dai soci, litisconsorti necessari (cfr. Cass., Sez. U., n.
14815 del 2008 e, più recentemente, Cass. n. 11727 e n. 13737 del
2016), essendo irrilevante la circostanza che la Bindi Clementino
s.a.s. abbia successivamente modificato la propria ragione sociale,
trasformandosi in società di capitali (trasformazione che «non si
traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di
un altro, in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda
meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale
non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno
capo»: così Cass. n. 3269 del 2009; conf. Cass. n. 13074 del 2011),
ricollegandosi le obbligazioni tributarie alla precedente forma della
società trasformata ed alle situazioni di responsabilità connesse a
detta forma e permanendo l’unitarietà dell’accertamento (Cass. n.
25098 del 2014), che sta alla base della rettifica delle dichiarazioni

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atti unitamente all’avviso di accertamento, così che gli stessi erano

dei redditi delle società di persone e, conseguentemente dei soci delle
stesse;
– che, con riferimento al caso di specie, deve altresì osservarsi
che l’esigenza sostanziale del simultaneus processus tra società e soci
può ritenersi soddisfatta nei giudizi di merito nella prospettiva

cui «nel processo di cassazione, in presenza di cause decise
separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del
reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica
imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la
nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di
tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio
del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva
fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte
processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo
notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse,
sia caratterizzata da: (1) identità oggettiva quanto a “causa petendi”
dei ricorsi; (2) simultanea proposizione degli stessi avverso il
sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il
fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di
tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; (3) simultanea trattazione
degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; (4)
identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tal caso,
la ricomposizione dell’unicità della causa attua il diritto fondamentale
ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111,
secondo comma, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la
(altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio
al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie
processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perché

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affermata da questa Corte nella sentenza n. 3830 del 2010, secondo

non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo
del principio del contraddittorio»;
– che, infatti, dalla documentazione in atti risulta che i separati
giudizi promossi dalla società e dai soci sono stati trattati, sia in
primo che in secondo grado, tutti alla medesima udienza e decisi dalla

il citato principio giurisprudenziale integrano presunzione di
realizzazione di una vicenda sostanzialmente esonerativa del
litisconsorzio formale (Cass. n. 12375 del 2016);
– che, pertanto, i ricorsi iscritti ai nn. 20665/14 e 20667/14 R.G.
vanno riuniti a quello n. 20662/14 R.G., di più antica iscrizione;

che, in relazione alle questioni “di merito”, occorre

preliminarmente premettere che le parti ricorrenti hanno prospettato
identiche censure nei confronti delle sentenze impugnate, cosicché è
superflua qualsiasi distinzione tra i ricorsi proposti;
– che con il primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 60 d.P.R. n. 600 del 1973, 148 e 156
cod. proc. civ.; si sostiene che aveva errato la CTR nel ritenere valida
ed efficace la notifica dell’atto impositivo, nella specie invece
inesistente o comunque affetta da nullità insanabile stante l’omessa
redazione della relata di notifica, del numero di registro cronologico,
la sottoscrizione dell’ufficiale giudiziario ed il sigillo dell’ufficio;
– che il motivo è inammissibile sia perché viene dedotto come
violazione di legge, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.,
quello che invece è chiaramente un error in procedendo deducibile ai
sensi del n. 4 del citato art. 360 cod. proc. civ., sia perché viene
dedotta la violazione di una disposizione di legge non applicabile al
caso di specie, emergendo dagli atti che l’amministrazione finanziaria,
avvalendosi della facoltà consentita dall’art. 20 della legge n. 146 del
1998 (che ha modificato l’art. 14 della legge n. 890 del 1982), ha

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medesima Commissione tributaria; circostanze, queste, che secondo

proceduto alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto
dell’avviso di accertamento;
– che il motivo è anche infondato in quanto, in caso di
notificazione a mezzo posta, «alla spedizione dell’atto si applicano le
norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della

2017) che non prevedono la redazione della relata di notifica o
l’annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla
persona cui è stato consegnato il plico, e «l’atto pervenuto a mezzo
posta raccomandata all’indirizzo del destinatario deve ritenersi
ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di
conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., superabile solo se il
medesimo dia prova di essersi trovato, senza sua colpa,
nell’impossibilità di prenderne cognizione (Sez. 5, Sentenza n. 9111
del 06/06/2012, Rv. 622974; Sez. 5, Sentenza n. 15315 del
04/07/2014, Rv. 631551)» (Cass. n. 19089 del 2016, cit.);
circostanza, quest’ultima, neppure dedotta dal ricorrente;
– che il motivo sortirebbe analoga sorte anche nell’ipotesi di
notifica effettuata ai sensi dell’art. 60 d.P.R. n. 600 del 1973, essendo
noto il principio secondo cui «in tema di accertamento tributario,
qualora la notifica sia effettuata a mezzo del servizio postale, la fase
essenziale del procedimento è costituita dall’attività dell’agente
postale, mentre quella dell’ufficiale giudiziario (o di colui che sia
autorizzato ad avvalersi di tale mezzo di notificazione) ha il solo
scopo di fornire al richiedente la prova dell’avvenuta spedizione e
l’indicazione dell’ufficio postale al quale è stato consegnato il plico:
pertanto, qualora all’atto sia allegato l’avviso di ricevimento
ritualmente compilato, la mancata apposizione sull’originale o sulla
copia consegnata al destinatario della relazione prevista dalla L. 20
novembre 1982, n. 890, art. 3, non comporta l’inesistenza della
notifica, ma una mera irregolarità, che non può essere fatta valere

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legge n. 890 del 1982» (cfr Cass. n. 17598 del 2010, n. 14100 del

dal destinatario, trattandosi di un adempimento che non è previsto
nel suo interesse» (Cass. n. 3245 del 2007, n. 21762 del 2009, n.
14245 del 2015); a ciò aggiungasi, con riferimento alla fattispecie in
esame, che, esclusa l’inesistenza della notificazione (Cass. n. 21865
del 2016), l’eventuale nullità della medesima, che pur si volesse sub

per la tempestiva proposizione del ricorso in opposizione; infatti,
secondo la giurisprudenza di legittimità, «la natura sostanziale e non
processuale degli atti impositivi, quale l’avviso di accertamento, non
osta che ad essi sia applicabile il regime di sanatoria della nullità della
notificazione per raggiungimento dello scopo dell’atto, previsto per gli
atti processuali dagli artt. 156 e 160 cod. proc. civ., considerato
anche l’espresso richiamo alle norme sulla notificazioni dettate dal
codice di procedura civile contenuto nell’art. 60 del d.P.R. 29
settembre 1973 n. 600» (Cass. n. 18480 del 2016, n. 2272 del 2011,
Sez. U. n. 19854 del 2004);
– che con il secondo motivo il ricorrente deduce il vizio di omessa
pronuncia, ex art. 112 cod. proc. civ., nonché il vizio di motivazione,
perché apparente, in relazione al motivo di appello relativo alla
violazione del contraddittorio endoprocedimentale ed al mancato
rispetto delle garanzie previste dall’art. 12 della legge n. 212 del
2000;
– che il motivo formulato con riferimento alla violazione dell’art.
112 cod. proc. civ. è infondato e va rigettato in quanto la circostanza
che la CTR abbia ritenuto legittimo l’atto impositivo impugnato e
pronunciato nel merito delle questioni dedotte dai ricorrenti,
costituisce implicito rigetto del motivo di appello che si sostiene
essere stato pretermesso (cfr., in tema di infondatezza del vizio di
omessa pronuncia in ipotesi di sussistenza di una statuizione implicita
di rigetto, Cass. n. n. 16788 del 2006, n. 20311 del 2011, n. 3417
del 2015, n. 1360 del 2016);

8

specie ravvisare, sarebbe sanata ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ.,

- che la censura con cui viene dedotto il vizio di motivazione
apparente è inammissibile perché privo di qualsiasi supporto
argomentativo, essendo stata prospettata soltanto nella rubrica del
mezzo in esame, così ponendosi in contrasto con il principio
giurisprudenziale secondo cui «il ricorso per cassazione richiede, da

puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo – tra
quelli espressamente previsti dall’art. 360 cod. proc. civ. – è
proposto;

dall’altro,

esige

l’illustrazione del

singolo

motivo,

contenente l’esposizione degli argomenti invocati a sostegno della
decisione assunta con la sentenza impugnata, e l’analitica
precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come
espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della
sentenza» (Cass. n. 18421 del 2009);
– che il terzo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti deducono la
violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del
2000, è infondato, alla stregua del principio, più volte ribadito da
questa Corte, secondo cui l’ultimo comma dell’art. 12 della legge n.
212 del 2000, trova applicazione, come da espressa previsione
legislativa (comma 1 del citato art. 12), solo nel caso in cui
l’Amministrazione finanziaria proceda ad accessi, ispezioni, verifiche
fiscali «nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali,
industriali, agricole, artistiche o professionali» (cfr., ex multis, Cass.
n. 3408 del 2017, n.3142 del 2014, n.13588 del 2014 la quale,
peraltro, richiama sul punto il tenore testuale della sentenza delle
Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013);
– che dall’atto impositivo (riprodotto alle pag. 4 e segg. del
ricorso) si evince chiaramente che l’accertamento non ha richiesto
alcun tipo di accesso nei locali della società contribuente, essendo
stato emesso dall’Agenzia delle Entrate sulla base di una
“segnalazione” da parte della Direzione Regionale Lombardia dei

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un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la

risultati di una verifica effettuata da ufficiali di Polizia Giudiziaria
nell’ambito di un procedimento penale e non nell’ambito di una
verifica fiscale condotta nei locali dell’impresa, come espressamente
previsto al comma 1 della disposizione in esame, rilevandosi al
riguardo che la contraria tesi sostenuta dai ricorrenti si fonda sul

autosufficienza del ricorso, non è stato riprodotto nello stesso,
neppure in parte; il che costituisce anche profilo di inammissibilità del
motivo;
– che pare opportuno precisare, altresì, nell’ottica di Cass., Sez.
U., n. 24823 del 2015 (conf. Cass. nn. 4501, 3951, 3949, 3919, 3683
del 2017), che, anche a voler ipotizzare la necessità di un
contraddittorio endoprocedimentale con riferimento ai tributi
armonizzati (nella specie, IVA), invece escluso per le imposte dirette
in mancanza di specifica disposizione di legge, nella specie difetta la
dimostrazione da parte dei contribuenti che in mancanza di tale
irregolarità il procedimento avrebbe potuto comportare un risultato
diverso, non avendo neanche dedotto di aver subito un qualche
pregiudizio dalla lamentata irregolarità, comunque non emergente
dagli atti;
– che il quarto motivo di ricorso, rubricato come «violazione e
falsa applicazione, in relazione all’art. 360, comma 1, nr. 3 c.p.c., del
principio di inutilizzabilità degli atti penali e dell’obbligo di
motivazione della relativa autorizzazione», con cui i ricorrenti
censurano la sentenza impugnata per avere errato la CTR nel
sostenere «che la carenza di motivazione dell’autorizzazione del PM
non riverbererebbe effetti sul piano probatorio», è inammissibile;
– che, invero, quanto alla doglianza formulata con riferimento ad
un asserito (quanto insussistente) principio di inutilizzabilità degli atti
penali da parte dell’amministrazione finanziaria, il motivo è sfornito di
qualsiasi argomentazione di supporto ed è come tale inammissibile;

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contenuto del «verbale della DRE», che, in spregio al principio di

-

che, quanto alla censura relativa all’obbligo di motivazione

dell’autorizzazione di cui all’art. 63 d.P.R. n. 633 del 1972, la stessa è
inammissibile sia perché non coglie la ratio decidendi della sentenza
impugnata, che nulla dice in ordine al difetto di motivazione del
predetto atto autorizzativo, soffermandosi la CTR solo sulla necessità

esistenza dà, peraltro, espressamente atto, in quanto risultante dalla
“segnalazione” della Direzione Regionale), sia perché è chiaramente
carente di autosufficienza, avendo i ricorrenti omesso di trascrivere il
contenuto di detto provvedimento;
– che con il quinto motivo di ricorso viene dedotto il vizio di
omessa pronuncia, ex art. 112 cod. proc. civ., nonché il vizio di
motivazione, perché apparente, in relazione al motivo di appello
concernente la violazione degli artt. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del
1973 e 55 d.P.R. n. 633 del 1972 per insussistenza dei presupposti
per procedere ad accertamento induttivo, nonché l’omessa
considerazione dei costi sostenuti per la produzione del reddito;
– che con il settimo motivo (il cui esame deve anticiparsi rispetto
al sesto mezzo di impugnazione, per ragioni di stretta connessione
con il quinto), i ricorrenti deducono i medesimi vizi denunciati con il
quinto motivo (di omessa pronuncia e di motivazione apparente), con
riferimento alla «infondatezza nel merito della pretesa creditoria»;
– che le censure di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sono
infondate e vanno rigettate in quanto al riguardo la CTR ha affermato
molto chiaramente, ancorché in maniera sintetica (così da escludersi
anche la sussistenza di una motivazione meramente apparente – arg.
da Cass. n. 5315 del 2015), che «la sola produzione dei registri IVA
non ha fatto altro che confermare la fondatezza dell’accertamento»,
che quindi ha ritenuto, ancorché in maniera implicita (cfr., in tema di
infondatezza del vizio di omessa pronuncia in ipotesi di sussistenza di
una statuizione implicita di rigetto, Cass. n. n. 16788 del 2006, n.

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del rilascio della stessa da parte dell’Autorità giudiziaria (della cui

20311 del 2011, n.

3417 del 2015, n. 1360 del 2016),

legittimamente effettuato;
– che con il sesto motivo, con cui viene dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 e
55 d.P.R. n. 633 del 1972, i ricorrenti lamentano l’insussistenza dei

l’omessa considerazione dei costi sostenuti per la produzione del
reddito;

che il primo profilo di censura è infondato essendosi

l’amministrazione finanziaria attenuta al consolidato insegnamento di
questa Corte secondo cui le disposizioni censurate autorizzano
l’accertamento induttivo dei redditi – e dunque la loro determinazione
sulla scorta di presunzioni “supersemplici” (dati e notizie comunque
raccolti e conosciuti), quindi privi dei requisiti di cui all’art. 2729,
primo comma, cod. civ., «anche nel caso in cui sia stato acclarato che
la mancanza delle scritture contabili sia ascrivibile ad un
comportamento incolpevole del contribuente» (Cass. n. 16108 del
2011), come nell’ipotesi di furto della documentazione contabile;
– che il secondo profilo di censura è fondato, al riguardo deve
premettersi che, così com’è reso evidente dal contenuto
motivazionale dell’avviso di accertamento, riprodotto a pag. 2 del
controricorso, nella specie l’amministrazione finanziaria ha proceduto
ad accertamento con metodo induttivo puro, determinando i maggiori
ricavi ed il reddito d’impresa inerenti alla s.a.s. per l’anno di imposta
2003 ai sensi dell’art. 39, 2° comma, d.P.R. n. 600 del 1973 e 55
d.P.R. n. 633 del 1972; ciò posto, va ribadito il consolidato
orientamento di questa Corte, cui non si è attenuta la CTR, secondo
cui in ipotesi di accertamento induttivo, ai fini delle imposte sui
redditi l’ufficio deve tener conto anche delle componenti negative di
reddito, dato che, diversamente, si assoggetterebbe a imposta il
profitto lordo, anziché quello netto, in violazione dell’art. 53 Cost. Né

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presupposti per procedere ad accertamento induttivo, nonché

a ciò è di ostacolo l’articolo 109 del TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986), in
base al quale i costi sono ammessi in deduzione se e nella misura in
cui risultano imputati al conto economico. Questa Corte ha, infatti,
ripetutamente statuito che la norma non è applicabile in caso di
rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve

n. 3995/2009, n. 28028/2008, n. 640/2001, n. 3317/1996 e, più
recentemente, Cass. n. 3567 del 2017; v. anche circolare dell’Agenzia
delle entrate 32/E/2006).
– che l’ottavo motivo, con cui viene dedotta, con riferimento alle
sanzioni irrogate, la violazione e falsa applicazione «del principio
dell’elemento soggettivo» è palesemente inammissibile per violazione
del principio di specificità e di autosufficienza del motivo, in cui nulla
si dice in ordine al tipo di sanzioni irrogate;
– che, conclusivamente, va accolto la seconda censura del sesto
motivo e rigettati gli altri, con rinvio alla competente CTR, in diversa
composizione, per nuovo esame e per la regolamentazione anche
delle spese del presente giudizio di legittimità ;
P.Q.M.
riuniti i ricorsi, accoglie, per quanto di ragione, il sesto motivo
di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità,
alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, il 26/09/2017
Il Presidente

corrispondere un’incidenza percentuale dei costi (Cass. n. 1166/2012,

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