Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30784 del 26/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 26/11/2019, (ud. 28/05/2019, dep. 26/11/2019), n.30784

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24467/2017 R.G. proposto da:

C.Q., rappresentato e difeso giusta delega in atti dall’avv.

Ylenja Lucaselli, e presso lo studio della stessa elettivamente

domiciliato in Roma, via della Giuliana n. 82;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania n. 2391/33/17 depositata il 15/03/2017 e non notificata;

Udita la relazione svolta nella adunanza camerale del 28 maggio 2019

dal Consigliere Roberto Succio;.

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata il giudice dell’appello rigettava il gravame del contribuente e quindi confermava la sentenza della CTP che aveva ritenuto legittimo l’avviso di accertamento impugnato, con il quale l’Ufficio aveva irrogato sanzioni e recuperato i maggiori dazi dovuti in forza di operazioni doganali realizzate nell’anno 2009;

– ricorre a questa Corte di cassazione la società contribuente con atto affidato a un solo motivo; l’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il solo motivo di ricorso il contribuente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2 n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in correlazione con l’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per difetto di motivazione della decisione e motivazione apparente;

– il motivo è inammissibile;

– come già chiarito da questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, e qui applicabile ratione temporis in quanto la sentenza gravata risulta depositata in data successiva all’11 settembre 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione;

– dalla lettura del corpo del motivo è chiaro come il ricorrente censuri la sentenza della CTR per “mancanza di adeguata giustificazione della decisione assunta” (pag. 10); mancato compimento di “alcuna approfondita disamina giuridica” (pag. 11); articolazione della motivazione attraverso “brevi proposizioni, assolutamente inidonee al raggiungimento dello scopo” (pag. 12); “carenza di motivazione” (pag. 13); “motivazione estremamente succinta” (pag. 14), comunque che “non può considerarsi sufficiente” (pag. 14 ancora); “insufficienza del percorso motivazionale…” (pag. 15);

– risulta quindi evidente come la censura si appunti sulla insufficienza della motivazione, e non denunci – e invero non era possibile, come oltre si dirà, fare diversamente – l’assenza assoluta di motivazione nel senso in esordio enunciato;

– sul punto, questa Corte Suprema costantemente afferma (recentemente vedasi Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018) che in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, (applicabile al caso di specie stante il deposito della sentenza impugnata avvenuto in data 15 marzo 2017) non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, per quanto i provvedimenti giudiziari non si sottraggano all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (in tal senso anche Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20721 del 13/08/2018; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017);

– va peraltro precisato che per costante giurisprudenza di Legittimità la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass., sez. un., n. 8053 del 2014; Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, quando si verifichi che dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice sia invero tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidencli” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata);

– in particolare, questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 2016);

– orbene, con riferimento al caso di specie e in ogni caso, come si evince dalla lettura della sentenza gravata, la CTR ha invece adeguatamente motivato, illustrando in modo adeguato le ragioni poste a base del proprio “decisum”, di guisa che è possibile ricostruire in modo sufficientemente chiaro l’iter – logico giuridico seguito per addivenire a decisione, le disposizioni di legge applicate, la ricognizione dei fatti e l’applicazione al fatto accertato del diritto vigente;

– il motivo, poi, contiene una ulteriore censura in diritto, diretta a criticare la sentenza impugnata sotto altro profilo in quanto la CTR avrebbe illegittimamente fatto riferimento – per ritenere tempestiva l’azione di accertamento – dapprima al concetto di decadenza, e quindi in modo contraddittorio richiamato agli stessi fini il differente concetto di prescrizione;

– anche sotto questa ulteriore declinazione, il motivo risulta inammissibile per le ragioni sopradette, consistendo analogamente in censura motivazionale non più consentita;

– infine, anche a voler qualificare il motivo come censura per violazione di legge, lo stesso risulta nondimeno infondato;

– va osservato che il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, (T.U.L.D.), prevedeva che “l’azione dello Stato per la riscossione dei diritti doganali si prescrive nel termine di cinque anni” (comma 1) e che “qualora il mancato pagamento, totale o parziale, dei diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili” (comma 3). Tale termine è stato ridotto da cinque a tre anni per effetto della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29, applicabile ai diritti doganali sorti successivamente alla data di entrata in vigore di tale norma, fissata al 10 maggio 1991. Secondo la giurisprudenza di questa Corte il termine decorre dalla data in cui è divenuta irrevocabile la pronuncia nel giudizio penale, qualunque ne sia il contenuto, e quindi anche nel caso in cui il reato sia stato dichiarato estinto per prescrizione (Cass. n. 30710/11; 6820/2009,20513/2006, 8139/1990);

– venendo al “thema decidendum”, questa Corte ha chiarito che “la regola comunitaria si applica non soltanto al termine di prescrizione per la riscossione dei diritti doganali, ma anche a quello di decadenza per la revisione dell’accertamento, stabilito dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, in ovvia coerenza, del resto, con la loro ratio, che è quella di impedire che il decorso del tempo giovi a chi ha occultato il credito e di impedire altresì che giovi al debitore l’ostacolo all’azione amministrativa determinato dal procedimento di indagine penale” (Cass. n. 26045 del 2016, punto 2.2.; in termini, sia pure con riguardo alle omologhe norme stabilite dal Reg. CEE del Consiglio n. 1697 del 1979, vedi Cass. n. 9253/13);

– la giurisprudenza della sezione quinta, malgrado alcune pronunzie di segno contrario (Cass. n. 11932/2012) è andata progressivamente assestandosi nel senso di ritenere che, in tema di tributi doganali, l’azione di recupero “a posteriori” dei dazi all’importazione o all’esportazione può essere avviata dopo la scadenza del termine di tre anni dalla data di contabilizzazione dell’importo originariamente richiesto quando la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente (a prescindere dall’esito – di condanna o assolutori);

– e ciò purchè sia trasmessa, nel corso del termine di prescrizione e non dopo la sua scadenza, la “notitia criminis”, primo atto esterno prefigurante il nodo di commistione tra fatto-reato e presupposto di imposta, destinato ad essere sciolto all’esito del giudizio penale (Cass.n. 5384/2012; Cass.n. 14016/2012; Cass.n. 8046/13; Cass. n. 8322/2013; Cass. 8708/2013; n. 7562 del 2015; 24674/15);

– tale soluzione interpretativa si è perfettamente inserita nell’ambito delle prerogative riservate ai singoli Stati membri dal quadro normativo comunitario sopra succintamente descritto che, come si è detto, non disciplina in alcun modo le cause di interruzione – o sospensione – del termine di prescrizione qui esaminato (Cass. n. 26018/13, che ricorda Corte giust. 17 giugno 2010, C-75/09);

– nella specie, la CTR, si è attenuta ai suddetti principi, applicabili anche agli atti di irrogazione delle sanzioni correlati all’accertamento dei diritti doganali, per avere ritenuto – con una valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità – che, a fronte di operazioni di importazione effettuate nel periodo 17 agosto – 6 ottobre 2009, il termine triennale di decadenza per la contestazione della sanzione conseguente all’assunto inadempimento dell’Iva all’importazione fosse rimasto sospeso per effetto della comunicazione del fatto perseguibile penalmente che ha originato il procedimento penale n. r.g.n. n. 23092/2011, quindi tempestivamente rispetto alle operazioni doganali sanzionate (in termini anche Cass. Ord. 3429/ 2019) con atto di rettifica dei valori notificato in data 20 dicembre 2014;

– pertanto, il ricorso va complessivamente rigettato; la soccombenza regola le spese;

– va in ultimo dichiarato che sussistono i presupposti per il del c.d. “raddoppio” del contributo unificato.

PQM

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 4.100 oltre a spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposi processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2019

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