Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30765 del 28/11/2018

Cassazione civile sez. II, 28/11/2018, (ud. 11/07/2018, dep. 28/11/2018), n.30765

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27919/-2014 proposto da:

F.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI PORTA

PINCIANA 4, presso lo studio dell’avvocato MARCO SANTARONI,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO BELLINGACCI;

– ricorrente –

contro

L.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO

CLEMENTI 51, presso lo studio dell’avvocato DIEGO ANTONINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE FINOCCHI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 432/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 03/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/07/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

lette le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento

del primo motivo e per l’assorbimento del secondo motivo del

ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la Corte d’appello di Perugia, in riforma della sentenza di primo grado, accolta l’impugnazione di L.D., accertò la proprietà in capo al predetto di due vani, che l’appellata F.E. aveva rivendicato acquistati per usucapione;

ritenuto che la F., propone ricorso per cassazione avverso la statuizione di cui sopra, prospettando due motivi di censura e che il L. resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 100 c.p.c., artt. 948 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo, sulla base di quanto segue:

– il L. aveva agito in rivendicazione, quindi, aveva l’onere di provare di essere il legittimo proprietario del bene in controversia, prova che non aveva dato, con la conseguenza che la di lui domanda avrebbe dovuto essere disattesa;

considerato che il motivo è destituito di giuridico fondamento per quanto appresso:

– la sentenza impugnata al fine di ricostruire la titolarità, dopo aver confermato la individuazione dei due vani di cui alla domanda del L., specifica che costui “non ha mai perso la proprietà dei due vani in contestazione dal momento che gli stessi non sono mai stati ricompresi negli atti di compravendita che nel tempo si sono susseguiti; ed infatti i predetti vani non sono mai stati ricompresi nella porzione di immobile che L.D., insieme ad A. e An., con il rogito A.R. del 5.5.1989, ha ceduto a L.C.; quest’ultima, pertanto, non li ha potuti cedere nel 1992 a C.S., L., Lu. e M., i quali, a loro volta non li hanno potuti cedere a F.E. con l’atto pubblico del 1994. L.D., quale proprietario dei due vani, legittimamente ne ha richiesto il rilascio a F.E. che li ha detenuti sine titulo nè in capo alla medesima può dirsi costituito un acquisto per usucapione decennale mancando un valido titolo di trasferimento”;

– la superiore ricostruzione risulta non specificamente attinta da precipua critica e da essa discende la considerazione che, provata in tal modo la proprietà, non è evocabile la c. d. probatio diabolica: la ricorrente, infatti, assume di avere acquistato la proprietà sulla base di titoli derivanti dalla medesima titolarità del L. (da quest’ultimo a L.C., da questa a C. + 3 e da quest’ultimi a F.E.;

– è, di poi, bastevole ricordare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; in definitiva la norma in parola consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) – S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914), omissione che qui non si rileva affatto, per quel che prima si è visto;

ritenuto che con il secondo motivo il ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1159 c.c., nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo, sulla base di quanto segue:

– la Corte d’appello non aveva adeguatamente valutato le dichiarazioni di C.S. e L., i quali avevano chiarito di avere sempre reputato che nella vendita fossero compresi i due vani, che peraltro, non erano suscettibili d’uso separato e ciò emergeva dal contenuto degli atti del 1989, del 1992 e del 1994 e, di conseguenza, non poteva non riconoscersi l’acquisto della proprietà ai sensi dell’art. 1159 c.c.;

considerato che la doglianza è manifestamente infondata, in quanto:

– la prospettazione, qui riproposta, era stata, come sopra si è riportato, espressamente rigettata dalla Corte locale, con specifica motivazione, che ha tenuto conto della portata degli atti traslativi e la critica non si misura con una tale motivazione, limitandosi ad insistere sulla versione perorata dalla parte ab initio, senza individuare la norma che la Corte locale avrebbe violato nella interpretazione dei predetti titoli;

– è appena il caso di soggiungere che la evocazione della norma di diritto sostanziale (nella specie l’art. 1159 c.c.) perciò solo non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operata dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente;

– diversamente, come accade qui, nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, la doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento di merito del giudice, il quale ha ricostruito la fattispecie concreta difformemente dalle aspettative del ricorrente, di talchè la prospettata violazione non può ipotizzarsi;

– anche in questo caso, va soggiunto, l’ipotesi di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è evocato a sproposito, per le ragioni sopra chiarite;

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2018

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