Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30747 del 29/10/2021

Cassazione civile sez. lav., 29/10/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 29/10/2021), n.30747

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28948-2018 proposto da:

FULL SPEED S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLLIA 29, presso lo studio

dell’avvocato FRANCESCO SASSI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LAURA MAINARDI;

– ricorrente –

contro

H.N., DI.ME.L. S.C.A.R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1369/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 03/08/2018 R.G.N. 654/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/03/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 3 agosto 2018, in riforma della pronuncia di primo grado, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012 ha dichiarato inefficace il licenziamento orale intimato a H.N. in data 16 gennaio 2017 ed ha condannato Full Speed Srl a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal recesso all’effettiva reintegra, oltre accessori e pronunce conseguenziali;

2. la Corte, in sintesi, esaminato il materiale probatorio acquisito al giudizio, ha considerato instaurato un nuovo contratto di lavoro tra il reclamante e la società “analogo al precedente risolto il (OMISSIS)” ed “essendo incontestato che il giorno (OMISSIS) il legale rappresentante (della Full Speed Srl) allontanò dal posto di lavoro l’ H.” ha ritenuto essere cessato il rapporto di lavoro per un licenziamento privo della forma necessaria;

3. per la cassazione di tale sentenza la società soccombente ha proposto ricorso con 3 motivi, illustrati anche da memoria; non hanno svolto attività difensiva gli intimati H.N. e DI.ME.L. scarl.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. il primo motivo di ricorso deduce la nullità della sentenza “per carenza di motivazione”, in violazione degli artt. 111 e 24 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., sia in ordine alla ritenuta sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la Full Speed Srl, sia avuto riguardo al licenziamento orale, lamentando che la Corte territoriale non avrebbe dato “minimamente conto delle argomentazioni di questa difesa”;

la censura non può trovare accoglimento;

come noto le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno sancito che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016);

nella specie la motivazione impugnata – pur sintetica – non è inferiore al limite del cd. “minimo costituzionale”, in quanto i giudici d’appello indicano gli elementi dai quali hanno tratto il loro convincimento, consentendo di ricostruire l’iter logico dagli stessi seguito; le diverse valutazioni opposte da chi ricorre riguardano il merito della vicenda ed è risalente l’insegnamento secondo cui, finanche nella precedente formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza, nonché di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, spetta in via esclusiva al giudice del merito e non è affatto necessario che questi prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse;

2. allo stesso modo non può essere accolto il secondo mezzo di gravame, nel quale ancora si denuncia una “carenza di motivazione”, questa volta a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonché una violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. da parte della sentenza impugnata “nella parte in cui ha ritenuto costituenti elementi di prova circostanze prive di tale efficacia”; ha ritenuto altresì violato sia “l’art. 2094 c.c. in riferimento alla asserita sussistenza degli indici di subordinazione” sia “l’art. 2118 c.c. in relazione alla qualificazione giuridica del licenziamento quale atto di recesso datoriale del rapporto di lavoro”;

la censura è inammissibile nella parte in cui invoca il n. 5 novellato dell’art. 360 c.p.c., senza enucleare il fatto storico decisivo la cui valutazione sarebbe stata omessa, in spregio agli enunciati contenuti negli arresti delle Sezioni unite del 2014 innanzi citati, ma anche per l’inappropriato richiamo alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., atteso che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato nel 2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017);

quanto alle ulteriori violazioni di legge, è opportuno rammentare che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai giudici del merito; nella specie parte ricorrente, lungi dall’individuare l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’ascrivere significato all’enunciato normativo contenuto negli artt. 2094 c.c. e 2118 c.c., nella sostanza critica l’apprezzamento dei fatti operato dalla Corte territoriale sia in ordine all’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, sia in ordine all’esistenza di un licenziamento orale, quaestiones fatti evidentemente estranee al sindacato di legittimità;

3. il terzo motivo denuncia, ancora una volta, “carenza di motivazione”, invocando a sostegno l’art. 360 c.p.c., n. 5 e violazione dell’art. 116 c.p.c., per avere la sentenza impugnata “attribuito valore di prova legale ad una circostanza che ne è priva”, in particolare “attribuendo efficacia confessoria” alle dichiarazioni contenute in memoria circa il licenziamento orale;

la doglianza è priva di fondamento;

infatti dalla lettura della sentenza impugnata non emerge in alcun modo che la Corte di Appello abbia inteso attribuire valore confessorio alle dichiarazioni contenute in atti defensionali di parte, in contrasto con il principio che le dichiarazioni rese in giudizio dal difensore, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all’altra parte, non hanno efficacia di confessione (per tutte v. Cass. n. 15515 del 2003); d’altro canto, il giudice di merito ben può attribuire valore di elemento di prova alle dichiarazioni rese dal procuratore negli atti difensivi (Cass. n. 2849 del 1998) ed apprezzarle liberamente (Cass. n. 15515/2003 cit.);

4. conclusivamente il ricorso deve essere rigettato; nulla per le spese in difetto di attività difensiva degli intimati;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso proposto a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso proposto a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2021

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