Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30659 del 27/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 27/11/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 27/11/2018), n.30659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6614-2017 proposto da:

C.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORVIETO N 1,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VENTURA, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARIA FEDERICA ASTORRI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1655/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

emessa il 23/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA

ACIERNO.

Fatto

RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte di Appello di Ancona ha rigettato, confermando la decisione di primo grado, la domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale ed umanitaria prospettata dal ricorrente.

A sostegno della decisione ha evidenziato che il richiedente, nel proprio racconto, ha dichiarato di essere stato indotto a lasciare il paese di origine (il Gambia) a causa di gravi difficoltà economiche e dello stato di povertà in cui versava, di aver attraversato numerosi paesi e di essere approdato in Libia dove era rimasto imprigionato per otto anni nel corso dei quali era stato sottoposto a torture, come da cicatrici e ferite visibili. Ha aggiunto di essere arrivato in Italia nel 2014 e di aver trovato lavoro come badante notturno presso il Seminario Arcivescovile per sacerdoti anziani e malati.

Tale racconto pur coerente ha evidenziato la causa meramente economica dell’allontanamento del ricorrente e conseguente non rinvenibilità dei requisiti per il rifugio politico e per la protezione sussidiaria. I riferimenti alla situazione generale del luogo di provenienza sono rimasti privi di elementi di dettaglio e riscontri individualizzanti così da non consentire un ragionevole collegamento col contesto che ha giustificato la partenza.

Anche in relazione alla protezione sussidiaria del D.Lgs n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c). stando al rapporto di Amnesty International e alle informazioni assunti sulla situazione attuale del Gambia devono escludersi indici specifici di pericolosità.

Anche in relazione al permesso per ragioni umanitarie dal racconto del richiedente e dagli accertamenti officiosi svolti non sono emersi elementi indicativi di gravi lesioni dei diritti umani riguardanti il paese di provenienza.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero affidato a tre motivi. Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Nel primo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs n. 251 del 2007, artt. 2,3,5,6 e 14, per non essere stata accertata la situazione di persistente e crescente situazione di violenza e criminalità diffusa e generalizzata in Gambia.

La censura deve essere dichiarata inammissibile mirando a sostituire all’accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, assolvendo all’onere di cooperazione istruttoria officiosa a suo carico, una valutazione alternativa della situazione generale del paese di origine. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs n. 286 del 1998, art. 5,comma 6, per non avere verificato se il quadro di violenza diffusa prospettato ed accertato fosse quanto meno idoneo ad integrare una grave lesione dei diritti umani idonea a giustificare la richiesta di rilascio di un permesso per ragioni umanitarie.

Il ricorrente, infine, ha avviato un percorso serio d’integrazione lavorativa e sociale avendo ottenuto una borsa lavoro dalla regione Marche per la prestazione di attività lavorativa presso un’azienda privata.

La censura è manifestamente infondata. La Corte d’appello ha specificamente valutato la condizione dei diritti umani nel paese di origine, anche sulla base di informazioni officiosamente assunte. Quanto all’integrazione lavorativa e sociale la circostanza non emerge nel giudizio di merito nè ne viene dedotta la pregressa puntuale allegazione e prova.

Nel terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs n. 25 del 2008, art. 16, secondo il quale il richiedente protezione internazionale deve essere ammesso al gratuito patrocinio se ne ricorrono le condizioni. La norma indica che le spese di lite dovevano trovare una soluzione attenuata in considerazione dei diritti in gioco e che nonostante la situazione di soccombenza dovevano essere compensate.

La censura è manifestamente infondata. Il ricorrente ha un difensore di fiducia, non risulta ammesso al patrocinio a spese dello Stato e non si ravvisa alcuna limitazione legislativa nell’applicazione, ove ne ricorrano le condizioni, del principio della soccombenza. Tale principio infine deve trovare applicazione anche nel giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della parte controricorrente da liquidarsi in Euro 2000 per compensi, Euro 100 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

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