Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30622 del 27/11/2018

Cassazione civile sez. III, 27/11/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 27/11/2018), n.30622

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Domenico – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7356-2017 proposto da:

A.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO

68, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA IASONNA, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI SANTA

COSTANZA 13, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA CAVALLARO,

rappresentata e difesa dall’avvocato STEFANO CIANCI giusta procura

speciale in calce al controricorso;

D.G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA 84, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO GALLI’, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al

controricorso;

REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore della Giunta

Regionale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCANTONIO

COLONNA 27, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA COLLACCIANI,

che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

B.G.B., B.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1764/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/09/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.E. e A.F., rispettivamente quale conduttrice originaria di un immobile e quale conduttrice avente causa a seguito di cessione di azienda, convenivano in giudizio la BNL Fondi immobiliari s.g.r. s.p.a., quale locatrice, in uno a C.R. e D.G.A., quali aventi causa, a titolo di nuda proprietà e usufrutto sul bene, dalla suddetta società nel novembre 2006, esponendo che era stato violato il loro diritto di prelazione ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 38 sicchè la vendita era alle medesime inopponibile, e doveva essere pronunciata sentenza costitutiva del diritto di proprietà in favore della seconda deducente o, in subordine, in favore della prima.

Il tribunale, per quanto ancora qui rileva, rigettava la domanda rilevando l’intervenuta scadenza del contratto anteriore anche alla cessione di azienda che, quindi, non aveva potuto neppure traslare la locazione.

La corte di appello, pronunciando sul gravame delle soccombenti, lo dichiarava improcedibile per violazione dell’art. 435 c.p.c., comma 2.

La sentenza di secondo grado veniva cassata da questa Corte e, in sede di rinvio, la corte adita in riassunzione rigettava nel merito la domanda, rilevando che la disdetta contrattuale aveva avuto effetto nel 2001, mentre la stessa cessione aziendale era intervenuta nell’ottobre del 2006, sicchè non si poteva essere perfezionato alcun subentro contrattuale locatizio e, pertanto, non poteva essere invocata alcuna prelazione per difetto del contratto di locazione, mentre, con riguardo al diritto di opzione, invocato dalla dante causa in specie a mente della L.R. Lazio 11 settembre 2003, n. 29, art. 38 “ratione temporis” applicabile, non risultava svolta alcuna tempestiva e puntuale allegazione critica.

Avverso questa decisione ricorre A.F., in proprio e nella qualità di erede per rappresentanza di S.E., deceduta nelle more, formulando due motivi.

Resistono con controricorso la Regione Lazio, quale successore del locatore, C.R. e D.G.A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., o in subordine l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso, poichè la corte territoriale avrebbe mancato di pronunciarsi sulla domanda avanzata sin dal primo grado dalla S., sia pure in via subordinata rispetto a quella della A., inerente al diritto di prelazione, laddove, al contempo, non avrebbe potuto ritenersi alcuna reiezione implicita sul presupposto della disdetta della locazione, atteso, in particolare, che la L.R. Lazio n. 29 del 2003 accordava il diritto di prelazione ovvero di opzione anche ai titolari del contratto in parola sebbene disdettato.

Con il secondo motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso poichè la corte di appello avrebbe errato nel mancare di valutare che la legislazione speciale regionale applicabile, in particolare l’allora vigente della L.R. laziale n. 29 del 2003, art. 18, comma 10, accordava il diritto di opzione anche al conduttore titolare di un contratto di locazione disdettato o comunque scaduto, a tutela delle attività artigianali storiche come quella della deducente, e tale disciplina, evidenziata nelle censure obliterate dal collegio territoriale, avrebbe dovuto ritenersi prevalere, se del caso in via derogatoria, sul regime legale ordinario, come confermato dal D.L. 25 settembre 2001, n. 351, art. 3 come convertito dalla L. 23 novembre 2001, n. 351, che, appunto, legittimava l’esercizio dell’opzione in questione anche in deroga alla normativa vigente.

2. I motivi vanno esaminati congiuntamente per connessione e sono in parte inammissibili, in parte infondati.

Deve premettersi, in relazione alle eccezioni svolte nei controricorsi, che nel ricorso per cassazione, il motivo di impugnazione che prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate, e dalla deduzione del vizio di motivazione, è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione (Cass., 20/09/2013, n. 21611).

La suddetta inammissibilità può però dirsi sussistente, logicamente, a patto che la descritta mescolanza di motivi sia inestricabile (cfr. anche Cass., 17/03/2017, n. 7009). Infatti deve al contempo farsi applicazione del principio per cui la circostanza che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi distinti (Cass., Sez. U., 06/05/2015, n. 9100).

2.1. Ciò posto, la corte di appello, sia pure con stringata motivazione, ha esplicitato le sue “rationes decidendi” nei seguenti termini:

a) il contratto di locazione aveva perso efficacia, a seguito di disdetta, nel 2001 (circostanza pacifica);

b) la cessione di azienda era intervenuta nell’ottobre 2006 (circostanza pacifica);

c) non poteva quindi esservi stato neanche alcun subentro temporalmente utile a legittimare l’esercizio della prelazione;

d) anche tenendo conto della legislazione regionale speciale, risultava egualmente “insuperabile la mancanza del contratto di locazione”, “id est” rispetto al momento dell’alienazione del novembre del 2006, e dunque anche con riferimento all’originaria conduttrice (di cui la ricorrente in riassunzione in appello si era dichiarata erede);

d) quanto poi al “diritto di opzione in capo alla dante causa” andava “evidenziato che non risulta(va) svolta alcuna tempestiva e puntuale allegazione di ordine critico” (pag. 2).

Ne consegue che:

1) le censure afferenti all’omesso esame sono inammissibili atteso che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, attiene al vaglio dei fatti storici non delle argomentazioni in diritto o delle domande formulate (cfr., da ultimo, Cass., 22/01/2018, n. 1539, che rimarca come la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si coglie nel senso che, mentre nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda o un’eccezione introdotta in causa, nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione sulle domande o eccezioni formulate o sollevate);

2) non vi è alcuna omessa pronuncia, come visto, sulla (non) spettanza del diritto di prelazione in capo alla dante causa S., e dunque la relativa censura è infondata;

3) quanto al diritto di opzione pretesamente spettante alla medesima S., la corte territoriale ha affermato che non risultava un’allegazione tempestiva e puntuale, sicchè la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare, come non ha fatto, col e nel ricorso, in ossequio all’autosufficienza ovvero specificità dei motivi, di aver per tempo e idoneamente coltivato tale deduzione nelle fasi di merito, ossia in prime cure, tempestivamente, e con i motivi di appello, puntualmente ossia specificatamente.

Non risulta, infatti, riportata, nè direttamente nè indirettamente, tale domanda quale coltivata nei due pregressi gradi, fermo che la cassazione della prima sentenza di appello era intervenuta solo a elidere i profili processuali erroneamente ritenuti in quella assorbenti.

Parte ricorrente, nell’esplicazione della prima censura (pag. 9, terzo capoverso, e seguenti) riporta, anche testualmente, la domanda spiegata in prime cure, ed essa risulta riguardare il diritto di prelazione basato sulla c.d. legge sull’equo canone, non quello, distinto, di opzione, fondato sulla suddetta normativa decentrata.

Al contempo, come anche eccepito nei controricorsi (pagg. 9 e 14 dell’atto della C. e pag. 16 dell’atto della D.G.), parte ricorrente non riporta in alcun modo, diretto o indiretto, le censure di appello, sicchè – si ripete – non è dato sapere nè se la domanda relativa al diritto di opzione fosse stata proposta in prime cure, nè se avverso la prima pronuncia fossero state svolte sul punto specifiche censure.

In altri termini, non è possibile verificare la fondatezza o meno del rilievo operato dalla corte territoriale secondo cui al riguardo mancavano tempestive allegazioni e specifiche critiche.

D’altra parte, i controricorrenti allegano proprio che la domanda relativa al diritto di opzione non era stata formulata in prime cure (cfr. pagg. 6 e 14 dell’atto della regione Lazio e pag. 17 dell’atto della C.), ed evidenziano che tale domanda avrebbe aperto un più ampio contraddittorio sul diritto della conduttrice di contratto disdettato, con particolare riguardo alla necessità di richiedere l’ulteriore presupposto della persistenza dell’occupazione del locale per la prosecuzione dell’attività artigianale (pag. 13 dell’atto della regione e pag. 23 dell’atto della D.G.).

Sul punto va ribadito che anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare a ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali. Con l’ulteriore corollario che qualora si censuri la statuizione della sentenza di merito nella parte in cui ha dichiarato inammissibili i motivi di appello per genericità ossia, come nel caso, per mancanza di puntuale allegazione critica – e parimenti deve dirsi per la censura della statuizione di mancata formulazione tempestiva di una domanda, contestualmente presente nella fattispecie in scrutinio – parte ricorrente ha l’onere di trascrivere, oltre alla decisione censurata, il mezzo d’impugnazione nella misura necessaria a evidenziare la fondatezza delle censure (cfr., Cass., 13/03/2018, n. 6014, Cass., 29/09/2017, n. 22880, pag. 2, Cass., 13/05/2016, n. 9888, pag. 15, Cass., 03/05/2016, n. 8659, pag. 4, Cass., 20/07/2012, n. 12664, pag. 5, Cass., 10/01/2012, n. 86, pag. 13).

Ne deriva il complessivo rigetto.

3. Spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali dei controricorrenti liquidate per ciascuno in Euro 2.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15 per cento di spese forfettarie oltre accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

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