Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30618 del 27/11/2018

Cassazione civile sez. III, 27/11/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 27/11/2018), n.30618

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Domenico – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4868/2017 R.G. proposto da:

Nuova Collerose S.r.l., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Giovanni

Ligato e Francesco Locanto, con domicilio eletto in Roma, Viale

delle Milizie, n. 48, presso lo studio dell’Avv. Vincenzo Perri;

– ricorrente –

contro

P.M.G., e D.C.E.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze, n. 72/2016,

pubblicata il 16 gennaio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 settembre

2018 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. P.M.G. ed D.C.E. convennero in giudizio avanti il Tribunale di Prato la società Nuova Collerose S.r.l. chiedendo pronunciarsi la risoluzione del contratto con il quale essi avevano concesso in affitto a quest’ultima una cava in (OMISSIS), per essersi la stessa resa morosa nel pagamento dei canoni a decorrere dal novembre 2012; chiesero anche la condanna della convenuta al pagamento dei canoni maturati fino alla consegna del bene.

Il tribunale rigettò la domanda ritenendo fondata l’eccezione di inadempimento opposta dalla convenuta per essersi i proprietari del bene rifiutati di sottoscrivere per adesione – secondo quanto pattuito in contratto alle clausole nn. 3 e 9 – un progetto volto alla regolarizzazione della cava (descritto come “progetto di ripristino del fiume (OMISSIS), finalizzato ad ottenere la salvaguardia della riserva idrica presente sulle particelle locate”), così impedendo il rilascio della necessaria autorizzazione amministrativa.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento dell’appello proposto dai soccombenti e in conseguente riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato risolto per inadempimento della conduttrice il contratto (qualificato come di locazione) condannando l’appellata alla restituzione del bene immobile e al pagamento dei canoni maturati da novembre 2012 fino alla data del rilascio, oltre interessi.

Ha infatti ritenuto fondato il secondo motivo di gravame con il quale gli appellanti si dolevano della erronea interpretazione delle clausole nn. 3 e 9 del contratto e della conseguente erronea valutazione della mancata sottoscrizione del progetto quale causa di legittima sospensione del pagamento del canone.

Al riguardo ha in particolare rilevato che:

– le parti, nel descrivere all’art. 3 le attività cui le particelle oggetto di locazione potevano essere destinate, intendevano riferirsi solo a quella di sfruttamento della cava, deponendo in tal senso l’esplicito riferimento all’attività del consorzio estrattivo La Cassiana di cui (OMISSIS) fa parte;

– non può di contro rilevare il richiamo, contenuto all’art. 3, al punto n. 1 a “qualsiasi attività”, potendo questo leggersi “come attributivo alla ditta affittuaria della facoltà di operare anche modifiche discrezionali sui terreni ove queste siano richieste e/o autorizzate dagli organi competenti”, a parte il rilievo che la società risulta dedita unicamente all’attività estrattiva;

– il progetto di che trattasi non può considerarsi rientrante tra gli atti (“domande, richieste, autorizzazioni o quant’altro da presentare alle autorità competenti”) ai quali, con l’art. 9, punto n. 1, del contratto, i locatori si impegnavano a prestare il proprio assenso;

– inoltre, anche “alla luce della gravità delle conseguenze derivanti dal suo inadempimento, non risulta plausibile che la clausola di cui all’art. 9, n. 1 possa essere dilatata fino a ricomprendere ogni tipo di progetto di modificazione del territorio, dovendo, invece, la stessa essere circoscritta ad assensi, istanze ed autorizzazioni amministrative”;

– sotto altro profilo ancora il progetto non può comunque ricondursi alle operazioni di “risistemazione della cava”, previste dall’art. 3, punto n. 2, del contratto, poichè reso necessario da abusi commessi nel tempo dalla stessa conduttrice inerenti alla riserva idrica e volto a riposizionare il torrente, il cui corso era stato deviato per effetto dell’escavazione dovuta allo sfruttamento della cava; non ricorre quindi il requisito di cui all’art. 3.1, prima parte, del contratto, che subordina l’utilizzazione e la destinazione delle particelle al rispetto della normativa in vigore; neppure risulta che La Nuova Collerose S.r.l. abbia ottenuto permessi, concessioni, autorizzazioni o quant’altro da parte del Comune, come prescrive l’art. 3.1, seconda parte, del contratto;

– il progetto inoltre avrebbe comportato il riposizionamento del torrente non nel suo alveo originario (terreno demaniale) ma sulle particelle di proprietà anche della signora P., con la conseguenza che, ove questa vi avesse aderito, sarebbe stata costretta in seguito ad alienare al demanio la porzione di terreno dove sarebbe andato ad insistere il fiume, così venendo ridotta la porzione di terreno di sua proprietà.

3. Avverso tale decisione Nuova Collerose S.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

Gli intimati non svolgono difese nella presente sede.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che la Corte d’appello di Firenze ha arbitrariamente delimitato l’ambito applicativo del contratto di locazione, ritenendo l’interpretazione fornita da parte appellante come espressiva della comune volontà delle parti, ignorando ciò che emerge dal dato testuale e dal collegamento tra le varie clausole contrattuali.

Rileva che l’espressione “qualsiasi attività” contenuta nell’art. 3, punto 1, del contratto è chiara e univoca, anche letta in correlazione con le altre clausole, tra le quali quella di cui al punto n. 4 (secondo cui “in ogni caso saranno possibili anche altre utilizzazioni e destinazioni purchè esse siano autorizzate dal Comune di (OMISSIS) e/o da altri enti ed autorità competenti”).

Sostiene che altresì “di estrema chiarezza” è la clausola di cui all’art. 9, punto n. 1, (che assoggetta la proprietà all’obbligo di mettersi a completa disposizione della conduttrice per sottoscrivere o prestare assenso rispetto a domande, richieste ed autorizzazioni).

Censura quindi la sentenza impugnata per non aver dato rilevanza prioritaria al dato letterale e all’esatto significato lessicale delle parole usate, così violando il c.d. “principio del gradualismo”, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando quelli principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole) siano insufficienti alla individuazione della comune intenzione stessa.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per quel che concerne le attività svolte da essa conduttrice sui terreni in oggetto, non limitate – essa assume – a quella estrattiva.

Lamenta che la Corte di merito non ha tenuto conto di quanto emerso nel procedimento in relazione all’attività da essa svolta e segnatamente di quanto al riguardo desumibile dalla visura camerale prodotta in primo grado, in allegato alla comparsa di risposta.

3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la “incomprensibilità della motivazione per impossibilità di ricostruire l’iter logico giuridico seguito dal giudice”.

Afferma che “non è dato verificare quali siano le premesse in fatto ed in diritto del decisum, risultando enucleato con affermazioni meramente assertive solo il giudizio conclusivo”.

Deduce che a tal fine la Corte d’appello “avrebbe dovuto prendere in esame anche quanto esposto da La Nuova Collerose, anche solo per confutarlo, ma comunque in maniera tale da far comprendere l’iter logico giuridico seguito per arrivare alla pronuncia”.

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità del procedimento per violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, in relazione alla ammissione di documenti nuovi in appello”, nonchè vizio di omessa pronuncia.

Rileva che:

– l’affermazione secondo la quale il progetto in questione era volto a risolvere una situazione di abuso non viene illustrata in sentenza nei suoi fondamenti probatori;

– devesi pertanto presumere che essa tragga origine dalla perizia di parte allegata all’atto d’appello;

– l’ammissibilità di tale produzione in appello era stata prontamente contestata, per carenza dei presupposti richiesti dall’art. 345 c.p.c., comma 3.

Ciò premesso la ricorrente lamenta che la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi su tale eccezione, così incorrendo nel vizio di omessa pronuncia, e comunque l’errore in procedendo commesso per aver utilizzato un documento inammissibile in appello poichè la parte avrebbe potuto produrlo in primo grado.

5. Il primo motivo è inammissibile.

5.1. Lo è anzitutto per la mancata specifica indicazione del contenuto e l’omessa localizzazione nel fascicolo processuale del documento richiamato (contratto), in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

La violazione si rende palese in particolare con riferimento alla doglianza della mancata considerazione del criterio di interpretazione sistematica: doglianza che avrebbe imposto una completa ed esaustiva trascrizione del contenuto testuale del contratto.

5.2. Il motivo inoltre prospetta questione, quale l’interpretazione di una scrittura contrattuale, riservata al giudice del merito e non sindacabile in cassazione se non per violazione dei criteri legali di ermeneutica negoziale ovvero per vizi di motivazione (nei limiti, peraltro, in cui l’allegazione è oggi consentita dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Pertanto, onde far valere in cassazione tali vizi della sentenza impugnata, non è sufficiente che il ricorrente per cassazione faccia puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma è altresì necessario che egli precisi in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato ovvero ne abbia dato applicazione sulla base di argomentazioni censurabili per omesso esame di fatto controverso e decisivo (v. Cass. 20/08/2015, n. 17049; 09/10/2012, n. 17168; 31/05/2010, n. 13242; 20/11/2009, n. 24539); con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o sul vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536).

Sul punto, va altresì ribadito il principio secondo cui, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che l’interpretazione data alla dichiarazione negoziale dal giudice del merito sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma è sufficiente che sia una delle possibili e plausibili interpretazioni.

Nella specie, non si ricava dalla motivazione della sentenza alcuna affermazione che si ponga in contrasto con i criteri legali di ermeneutica negoziale.

La Corte d’appello non trascura affatto il criterio letterale, nè gli altri criteri, ma ben diversamente, in virtù della loro applicazione, giunge, motivatamente, ad un esito diverso da quello auspicato dalla ricorrente.

Piuttosto le censure mosse col ricorso si risolvono, come detto, nella prospettazione di questioni di merito, comunque eccedenti dai limiti in cui al riguardo ne è consentita la deduzione: in ultima analisi nella mera assertiva contrapposizione di un esito diverso dell’attività esegetica riservata al giudice del merito e legittimamente nella specie compiuta.

6. E’ altresì inammissibile il secondo motivo di ricorso.

E’ noto che mentre, secondo la precedente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, costituiva deducibile motivo di ricorso per cassazione la “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, secondo quella risultante dalla citata novella, la sentenza può essere censurata, sul piano della motivazione, solo “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Circa la portata innovativa di tale riforma le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 19881 del 2014, seguite da numerose conformi delle sezioni semplici, hanno come noto enunciato i seguenti principi:

a) la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”;

b) il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività del fatto stesso.

Nel caso di specie “fatto storico” non considerato dalla Corte sarebbe, in tesi, lo svolgimento da parte della conduttrice di attività ulteriori e diverse da quella estrattiva.

E’ agevole però rilevare che, a parte la non decisività del tema (posto che, come risulta dalla sintesi sopra esposta, la decisione della Corte territoriale fa leva anche su altre considerazioni slegate da tale dato e di per sè sufficienti a giustificarla), si ricava dalla stessa prospettazione della censura che non si tratta affatto di un fatto storico accertato in sentenza o comunque univocamente desumibile dagli atti, quanto piuttosto di un fatto oggetto di tesi difensiva asseritamente desumibile da documenti prodotti: sicchè in definitiva ciò di cui si duole la parte non è l’obliterazione di un fatto accertato in giudizio quanto piuttosto la mancata valorizzazione di elementi istruttori; si ricade pertanto pienamente nella ipotesi sopra tipizzata sub lett. c) di censura inammissibile secondo la nuova norma.

7. E’ poi manifestamente infondato il terzo motivo.

Non può infatti dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata.

Nemmeno nella vigenza del vecchio paradigma censorio ex art. 360 c.p.c., n. 5 poteva poi costituire vizio di motivazione (tanto meno di omessa motivazione) la mancata esplicita confutazione di ciascuno degli argomenti posti a fondamento della tesi non accolta, ove le ragioni poste a fondamento risultassero comunque con esse incompatibili e valessero di per sè a dimostrarne l’implicito rigetto.

Tanto meno può tale omissione, nella vigenza del nuovo testo, integrare vizio della sentenza denunciabile in cassazione.

Come detto, non è infatti più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. 01/02/2018, n. 2527; Cass. 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass. 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 08/10/2014, n. 21257).

8. E’ infine inammissibile il quarto motivo.

Occorre anzitutto rammentare che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. 10/10/2014, n. 21424, in motivazione; 28/03/2014, n. 7406).

Quanto poi all’assunto secondo cui la decisione trarrebbe fondamento da un documento irritualmente prodotto in appello in assenza dei relativi presupposti, non si ricava dalla sentenza alcuna affermazione che ne confermi la fondatezza, non risultando la questione in alcun modo trattata.

Nè del resto la ricorrente mette in condizioni questa Corte di valutare l’attendibilità del ragionamento presuntivo sul quale essa stessa fonda tale assunto, omettendo di specificare contenuto e localizzazione nel fascicolo processuale del documento che si afferma irritualmente prodotto e utilizzato per la decisione, con violazione dell’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Può comunque soggiungersi che l’affermazione cui l’utilizzo di tale documento avrebbe condotto (ossia l’esistenza di pregresse situazioni di abuso nell’impiego della riserva idrica, abuso cui il progetto non assentito era diretto a porre rimedio) assume rilievo non decisivo ma solo concorrente con altre argomentazioni, donde l’inammissibilità anche sotto tale profilo della doglianza per aspecificità.

9. Il ricorso va in definitiva rigettato.

Non avendo gli intimati svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere al regolamento delle spese processuali.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

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