Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30601 del 27/11/2018

Cassazione civile sez. III, 27/11/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 27/11/2018), n.30601

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6105-2017 proposto da:

P.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA

38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO DELL’AMORE

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 13,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LARUSSA, che lo rappresenta e

difende giusta procura in calce al controricorso;

GENERALI ITALIA SPA già ASSICURAZIONI GENERALI SPA, in persona dei

procuratori speciali Dott. C.P. e Dott.

PO.MA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. COLOMBO 440,

presso lo studio dell’avvocato FRANCO TASSONI, che la rappresenta e

difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1941/2016 della CORTE D’APPELLO DI CATANZARO,

depositata il 216/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

05/07/2018 da Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza 26.11.2016 n. 1941, dato atto che erano divenute irrevocabili le statuizioni della sentenza di prime cure concernenti il difetto di legittimazione passiva della Università degli Studi di Catanzaro e la cessazione della materia del contendere – per intervenuta transazione stragiudiziale – tra il danneggiato P.E. (che in conseguenza di intervento chirurgico per asportazione di ciste parotidea aveva riportato postumi invalidanti consistiti in paralisi del nervo facciale destro) e l'(OMISSIS), rigettava l’appello proposto dal P. confermando la decisione di prime cure che aveva dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti del medico chirurgo M.S., chiamato in causa dalla Azienda Ospedaliera con azione di rivalsa condizionata, in quanto non essendo stato evocato in giudizio il medico quale unico ed esclusivo responsabile del danno, non trovava applicazione la regola della estensione automatica al terzo chiamato della domanda risarcitoria attorea svolta nei confronti della convenuta Azienda Ospedaliera. Inoltre rilevava che la domanda risarcitoria formulata nei confronti del M., per la prima volta, con la “memoria istruttoria” in data 10.10.2003, era da ritenere tardiva, in quanto preclusa dalla scadenza dei termini perentori di cui all’art. 183 c.p.c., rimanendo altresì preclusa per “novità” ex art. 345 c.p.c. la domanda di condanna proposta nei confronti del sanitario con l’atto di appello.

La sentenza, non notificata, è stata impugnata per cassazione da P.E. con tre motivi.

Resistono Generali Assicurazioni s.p.a. e M.S. con distinti controricorsi. P.E. e la società assicurativa hanno depositato anche memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Manifestamente infondate e defatigatorie debbono ritenersi le plurime eccezioni di inammissibilità proposte dal controricorrente M.:

a) L’erronea indicazione del codice fiscale del ricorrente integra un mero errore materiale sottratto alla sanzione della inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 1, che – in analogia a quanto previsto dall’art. 164 c.p.c. – può riconoscersi soltanto nel caso in cui la indicazione delle parti sia stata del tutto omessa o risulti assolutamente incerta (cfr. Corte cass. Se:. 6 – 3, Sentenza n. 13952 del 19/06/2014), non anche invece quando sia possibile comunque evincere la identificazione delle parti dal contenuto del ricorso, ovvero anche dagli atti processuali dei precedenti gradi di merito o dalla sentenza impugnata (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13580 del 21/07/2004; id. Sez. 2, Sentenza n. 3737 del 21/02/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 1989 del 02/02/2016).

b) L’interesse alla impugnazione del ricorrente ex art. 100 c.p.c. risulta del tutto evidente laddove conclude per la cassazione e l’annullamento della sentenza impugnata “con ogni conseguente provvedimento di Legge”: tanto è sufficiente a richiedere, in caso di eventuale accoglimento del ricorso, ove ricorrano i diversi presupposti, sia la pronuncia di merito sulla domanda di condanna ex art. 384 c.p.c., comma 2, sia il rinvio della causa al Giudice di merito;

c) Il ricorso rispecchia la esigenza del requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè della specificità dei motivi ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo il ricorrente idoneamente assolto alla esposizione dei fatti, resi comprensibili in relazione alle censure prospettate, nella premessa introduttiva “fatto e svolgimento del procedimento”;

d) Gli atti sui quali le censure si fondano (comparsa di risposta della Azienda ospedaliera, relazione del CTU), sono stati parzialmente riprodotti nel ricorso ed indicati nell’elenco dei documenti prodotti in allegato al ricorso, risultando assolte le condizioni di ammissibilità e di procedibilità previste dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

e) Inconsistente la eccezione di inammissibilità del ricorso, per preclusione determinata dal giudicato interno sulla statuizione della Corte d’appello dichiarativa della inammissibilità – per tardività ex art. 183 c.p.c. e per novità ex art. 345 c.p.c. – delle domande di condanna, proposte contro il M., essendo incentrati i motivi di ricorso per cassazione sul diverso presupposto che l’azione risarcitoria – originariamente formulata nell’atto di citazione notificato alla convenuta Azienda ospedaliera – doveva intendersi automaticamente estesa al terzo chiamato.

Venendo all’esame dei motivi del ricorso, il Collegio osserva quanto segue.

Primo motivo: violazione degli artt. 32 e 106 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui aveva fondato l’applicazione del principio di estensibilità della domanda risarcitoria nei confronti del terzo chiamato, sulla distinzione della natura del rapporto obbligatorio tra chiamante e terzo chiamato, secondo che si trattasse di garanzia “propria” o di garanzia “impropria”, ed aveva escluso nella specie il principio di automatismo, ravvisando una garanzia impropria, in quanto la responsabilità fatta valere dalla Azienda nei confronti del terzo trovava fondamento in un titolo indipendente ed autonomo – il rapporto di lavoro dipendente – rispetto a quello posto a base della domanda principale – contratto di assistenza sanitaria -). Deduce il ricorrente che la rilevanza della distinzione tra garanzia propria ed impropria è stata disconosciuta dalla Corte di legittimità con la sentenza resa a SS.UU. n. 2477/2015, sicchè il Giudice di appello aveva errato a non ritenere estesa anche al terzo chiamato in garanzia impropria la domanda di condanna al risarcimento dei danni.

Il motivo è infondato.

Le Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 24707 del 04/12/2015) hanno rilevato che, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto la responsabilità civile ed il risarcimento del danno, la distinzione tra garanzia propria ed impropria assume carattere meramente descrittivo ed è inidonea a qualificare diversamente la posizione processuale del terzo chiamato, tanto nella ipotesi in cui la chiamata in causa del terzo sia svolta esclusivamente al fine di rendere “opponibile” a quest’ultimo l’accertamento del rapporto principale – tra attore danneggiato e convenuto responsabile – che costituisce il fatto condizionante della esigibilità della prestazione di garanzia che il convenuto – se soccombente – potrà far valere nei confronti del garante eventualmente in un successivo giudizio (motiv. p.9.4), quanto nel caso in cui a tale domanda di accertamento (finalizzata alla opponibilità al terzo del giudicato) si aggiungano le domande di accertamento del rapporto di garanzia e/o l’azione di condanna all’adempimento della prestazione derivante dal rapporto di garanzia, quest’ultima proposta in via condizionata all’accertamento sfavorevole al garantito del rapporto principale (motiv. p.14).

L’arresto delle Sezioni Unite è dunque inteso ad affermare il principio secondo cui la predetta distinzione è priva di effetti sulla regola, ricorrente in tutti casi di chiamata del terzo in garanzia, della legittimazione del terzo chiamato a contraddire anche in ordine al rapporto principale e ad esercitare il potere di impugnazione sui capi della sentenza di merito concernenti l’accertamento del rapporto principale (motiv. p.14), il che non esclude affatto la irrilevanza della distinzione tra garanzia propria ed impropria al di fuori della regola indicata.

Ora la chiamata del terzo – estesa ai soli fini della estensione soggettiva del giudicato sul rapporto principale, con conseguente legittimazione del terzo a contraddire su tale rapporto di diritto sostanziale “inter alios” – comporta la instaurazione di un litisconsorzio processuale successivo tra tutte le parti (attore, convenuto, terzo chiamato) cui vengono estesi gli effetti dell’accertamento del rapporto principale, tra attore-danneggiato e convenuto-responsabile, che rimane pertanto – anche dopo la chiamata del terzo – l’unico rapporto obbligatorio oggetto del giudizio (come rilevato puntualmente dalle SS.UU., il giudizio si trasforma, a seguito della chiamata del terzo, in un processo trilatero, con conseguente “inscindibilità” ex art. 331 c.p.c. delle posizioni rivestite da tutte le parti processuali), e tale situazione si riproduce anche nel caso in cui a tale domanda di estensione soggettiva degli effetti dell’accertamento del rapporto principale resi opponibili al terzo, si aggiungano, da parte del chiamante-garantito (realizzandosi in tal modo una estensione dell’oggetto del giudizio per “cumulo oggettivo” di cause) la ulteriore domanda (condizionata o meno all’esito dell’accoglimento della domanda attorea principale) di “accertamento della esistenza e validità del rapporto di garanzia” ovvero ancora la ulteriore domanda (necessariamente condizionata all’esito di accoglimento della domanda attorea principale) di “condanna all’adempimento della prestazione indennitaria derivante da rapporto di garanzia”.

Orbene la vicenda dei rapporti processuali tra le tre parti del giudizio, esaminata dalla sentenza delle Sezioni Unite, evidenzia come la natura “propria” od “impropria” della garanzia risulti indifferente esclusivamente ai fini indicati (estensione al terzo degli effetti dell’accertamento del rapporto principale; legittimazione del terzo alla impugnazione dei capi di sentenza relativi al rapporto principale; estensione della impugnazione effettuata dal solo garante o dal solo garantito anche al litisconsorte necessario processuale), non essendo dirimenti le osservazione propedeutiche, svolte in via di premessa generale nella medesima sentenza, secondo cui la distinzione predetta non trova riscontro negli artt. 32,106 e 108 c.p.c., atteso che tali norme concernono aspetti processuali peculiari (competenza; potere di chiamata; estromissione del garantito), e dunque non consentono di risolvere affatto, come vorrebbe invece il ricorrente, la diversa questione della “automatica estensione” della domanda risarcitoria svolta dall’attore nei confronti del convenuto, anche al terzo chiamato in garanzia (propria od impropria) dal convenuto, ai soli fini della estensione soggettiva dell’accertamento del rapporto principale, ovvero ampliando l’oggetto originario del giudizio anche al differente rapporto di garanzia (di cui il chiamante chiede l’accertamento od anche l’adempimento).

La nozione di garanzia propria ed impropria, peraltro, non assume nella fattispecie in esame alcun rilievo, in quanto la Corte d’appello, diversamente da quanto ipotizzato dal ricorrente, non ha fondato sulla diversa natura della garanzia la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, quanto piuttosto sul contenuto della domanda proposta dal convenuto-chiamate nei confronti del terzo, venendo a distinguere tra chiamata in garanzia propria od impropria (con le domande di accertamento ed eventualmente di condanna condizionata, svolte dal garantito contro il terzo), alla quale la regola non si applica, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta ed anzi coesiste con la legittimazione passiva del convenuto-responsabile rispetto alla azione risarcitoria proposta dall’attore, ed invece la chiamata effettuata al solo fine della indicazione del terzo (esclusivo) responsabile, che determina una posizione processuale del terzo oggettivamente incompatibile con quella del convenuto, ponendosi in termini di alternatività, in quanto l’accertamento della responsabilità dell’uno esclude quella dell’altro (aut-aut), ipotesi alla quale la regola della estensione automatica della domanda, invece, si applica, atteso che in tal caso l’originario oggetto del giudizio non viene ad essere modificato, unico rimanendo l’accertamento del rapporto principale, non essendo fatto valere nei confronti del convenuto “o” del terzo chiamato un distinto titolo di responsabilità.

Tale criterio trova conferma nei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte secondo cui: Qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni chiami in causa un terzo con il quale non sussiste alcun rapporto contrattuale, indicandolo come il vero legittimato passivo, non si versa in un’ipotesi di chiamata in garanzia impropria (o manleva), la quale presuppone la non contestazione della suddetta legittimazione, ma di chiamata del terzo responsabile, con conseguente estensione automatica della domanda al terzo che il giudice può e deve esaminare senza necessità che l’attore ne faccia esplicita richiesta (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20610 del 07/10/2011; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 24294 del 29/11/2016; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 5580 del 08/03/2018).

Il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto non trova applicazione allorquando il chiamante, senza postulare la esclusione della propria responsabilità (ed anzi presupponendola), faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come “causa petendi”, come avviene nell’ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria, o di azione condizionata di regresso nei confronti del terzo chiamato in coobbligazione. In tal caso è infatti rimessa in via esclusiva all’attore la scelta – alla stregua della situazione giuridica dedotta nell’atto di chiamata in causa – di proporre o meno autonoma domanda anche nei confronti del terzo chiamato (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 25559 del 21/10/2008; id. Sez. L, Sentenza n. 12317 del 07/06/2011; id. Sez. 2, Sentenza n. 8411 del 27/04/2016). Relativamente alla ipotesi in cui il convenuto chiami un terzo in giudizio indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall’attore e chieda, senza rigettare la propria legittimazione passiva, soltanto di essere manlevato delle conseguenze della soccombenza nei confronti dell’attore, il quale a sua volta non estenda la domanda verso il terzo, è stato affermato che il cumulo di cause integra un litisconsorzio facoltativo ed ove la decisione di primo grado abbia rigettato la domanda di manleva in sede di impugnazione dà luogo ad una situazione di scindibilità delle cause (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 23308 del 08/11/2007).

Occorre, pertanto, tenere distinto il piano della vicenda processuale che ricollega il rapporto di garanzia (propria o impropria) tra convenuto-chiamante e terzo-chiamato all’accertamento del rapporto principale (tra attore e convenuto) di cui si discute nel giudizio (secondo le soluzioni individuate da Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 24707 del 04/12/2015), da quello attinente l’altra vicenda processuale nella quale il terzo viene evocato in giudizio dal convenuto sul presupposto dello stesso titolo di responsabilità, già acquisito all’oggetto del giudizio, e che, a seconda della domanda formulata nell’atto di chiamata in causa, può “eventualmente” – solo se viene proposta una nuova autonoma domanda di condanna da parte dell’attore – determinare un coinvolgimento dell’attore con il terzo-chiamato (è l’ipotesi in cui il terzo, che ha concorso a causare il danno, sia stato evocato a partecipare al giudizio, dal convenuto, come corresponsabile ma esclusivamente al fine di esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato: in questo caso il chiamato in causa non perde la qualità di litisconsorte facoltativo, sicchè, non diversamente dalla instaurazione del giudizio, è rimessa all’attore-danneggiato la scelta di agire o meno contro uno o più dei coobbligati solidali), ovvero, invece può determinare la necessaria (stante la ineliminabile alternativa dell’accertamento di responsabilità rispetto del convenuto o del terzo chiamato) estensione “automatica” al terzo chiamato della originaria domanda di condanna proposta dall’attore nei confronti del convenuto-chiamante (è l’ipotesi in cui il terzo è evocato in giudizio in qualità di esclusivo soggetto passivo – in luogo del convenuto – dell’azione esercitata dall’attore).

Incontestato nel caso di specie che l’Azienda Ospedaliera – convenuta dal P. in base al titolo di responsabilità civile derivante ex artt. 1218 e 1228 c.c. da inesatto adempimento del rapporto contrattuale avente ad oggetto le prestazioni di assistenza e cura – ha chiamato in causa il proprio dipendente (medico-chirurgo), senza esplicitamente contestare il proprio titolo di responsabilità diretta (ossia senza escludere la propria legittimazione passiva rispetto all’azione risarcitoria, e senza contestare di essere titolare del rapporto obbligatorio instaurato con l’assistito), limitandosi a svolgere nei confronti del chiamato (co-rresponsabile nei confronti del danneggiato a diverso titolo – non rileva in questa sede se per responsabilità extracontrattuale o invece per responsabilità da – contatto sociale qualificato – rispetto a quello dedotto a fondamento della originaria domanda proposta contro l’Azienda Ospedaliera) domanda di rivalsa -condizionata all’accoglimento della pretesa attorea – fondata sul distinto rapporto di lavoro dipendente, del quale veniva postulato l’inesatto adempimento in relazione alla esecuzione della prestazione professionale, ne segue che, non essendo stato il medico chiamato in causa in posizione di alternatività-incompatibilità con l’affermazione di responsabilità della Azienda Ospedaliera oggetto del rapporto principale, non sussistevano le condizioni di oggettiva necessità che imponevano di procedere unitariamente nei confronti di più soggetti – in posizione di reciproca esclusione – all’accertamento della “unico” soggetto responsabile, esigenza cui provvede la “automatica” estensione al terzo chiamato della originaria domanda attorea.

Nel caso in esame, pertanto, era rimessa in via esclusiva all’attore la scelta di proporre o meno – in base al diverso titolo – autonoma domanda risarcitoria anche nei confronti del medico, in quanto coobbligato solidale in base a diverso titolo di responsabilità, rispetto al titolo di responsabilità della Azienda ospedaliera.

Non è di ostacolo a tale conclusione il nesso di “dipendenza” che lega, avuto riguardo alla responsabilità diretta della Pubblica Amministrazione e degli Enti pubblici ex art. 28 Cost. per i fatti illeciti dei funzionari e dipendenti pubblici, l’accertamento della responsabilità dell’Ente con l’accertamento dell’illecito commesso dal funzionario (e quindi con l’accertamento della responsabilità del funzionario), atteso che se il fatto determinante la responsabilità della Amministrazione pubblica è solamente quello posto in essere dal funzionario, il titolo di responsabilità permane distinto, venendo in questione rapporti giuridici autonomi che danno luogo a cause distinte, se pure poste in rapporto di dipendenza, tale per cui la responsabilità della PA presuppone l’accertamento del fatto del dipendente (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 16391 del 14/07/2009; id. Se:. 3, Sentenza n. 15709 del 18/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 1771 del 08/02/2012), venendo quindi chiaramente in evidenza come la domanda risarcitoria proposta dal danneggiato possa rivolgersi distintamente nei confronti della Amministrazione e/o del dipendente pubblico, le cui responsabilità appaiono compatibili e possono quindi cumularsi (secondo lo schema della coobbligazione solidale), non sussistendo pertanto alcuna situazione di alternatività-incompatibilità, in ordine all’accertamento di responsabilità richiesto dall’attore, che imponga la estensione automatica della domanda – proposta nei confronti del convenuto ente pubblico – al dipendente pubblico, chiamato in causa dall’ente ai fini dell’esercizio dell’azione di rivalsa, atteso che tale azione, non sottraendo l’ente alla originaria domanda proposta dall’attore, non individua una chiamata con indicazione di esclusivo responsabile tale da rendere alternativa-incompatibile la posizione del convenuto e del terzo nei confronti della medesima domanda risarcitoria proposta dall’attore, il quale pertanto è libero di proporre o meno autonoma domanda anche nei confronti del funzionario terzo-chiamato.

Secondo motivo: violazione artt. 32 e 106 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il ricorrente sostiene che, in ogni caso, il principio di estensione automatica della domanda dovrebbe applicarsi anche al terzo chiamato in garanzia impropria, le volte in cui questi si stato indicato come “corresponsabile” del danno, ed adduce a sostegno i principi enunciati dai precedenti di questa Corte n. 12598/2015; n. 5057/2010; n. 17668/2009, richiamando espressamente, peraltro, nella esposizione del motivo, soltanto un passo motivazionale della sentenza n. 12598/2015.

Indipendentemente dalla errata indicazione in rubrica delle norme violate, la verifica di legittimità compiuta alla stregua dei principi di diritto enunciati nelle sentenze di questa Corte evocate dal ricorrente, non conduce alla cassazione della sentenza impugnata.

La Giurisprudenza di legittimità è assolutamente univoca nell’affermare che la estensione automatica della domanda implica che la chiamata in causa venga effettuata dal convenuto al fine di sottrarsi alla pretesa risarcitoria con “indicazione del terzo quale esclusivo responsabile” del danno: in tal senso l’automatico coinvolgimento del terzo nell’accertamento dello stesso rapporto obbligatorio che è già oggetto del giudizio, si giustifica pienamente, poichè essendo “unico” il rapporto da accertare (tale essendo il rapporto tra il danneggiato-attore e l’autore della condotta da cui è derivato il danno), si tratta solo di stabilire chi tra i due soggetti che negano di essere entrambi l’effettivo destinatario della pretesa risarcitoria sia il vero responsabile in via alternativa (il convenuto o il terzo), ovviamente fatta salva in ogni caso la facoltà dell’attore di rinunciare successivamente alla domanda – automaticamente estesa – nei confronti del terzo, laddove manifesti inequivocamente la volontà di insistere soltanto nella azione svolta contro la parte originariamente convenuta in giudizio.

Qualora, invece, il convenuto chiami in causa il terzo in base ad un “titolo diverso” da quello dedotto con il rapporto principale (tale essendo il caso di chiamata in garanzia propria o impropria, fondata su un rapporto giuridico – tra convenuto e terzo chiamato – “distinto” da quello principale – tra attore e convenuto – già oggetto del giudizio) per rendere opponibile al chiamato l’accertamento del rapporto principale (in quanto i fatti accertati vengono a porsi in relazione di logica presupposizione necessaria con le azioni derivanti dal “distinto” rapporto giuridico che lega il convenuto al terzo chiamato) oppure per essere soltanto manlevato dalle conseguenze negative dell’accoglimento della domanda attorea, e non contesti, invece, la propria titolarità passiva del rapporto principale, allora la estensione automatica della domanda non trova alcuna cogente giustificazione, atteso che l’eventuale accertamento della responsabilità del convenuto, non determina quale implicazione necessaria la esclusione di responsabilità del terzo chiamato, che invece rimane oggetto di accertamento autonomo, analogamente a quanto si verifica nelle ipotesi di litisconsorzio facoltativo – originario o successivo – laddove è rimessa alla scelta discrezionale dell’attore-danneggiato proporre “ab origine” la domanda giudiziale nei confronti di uno soltanto o più dei coobbligati solidali, ovvero di proporre – nella osservanza delle fasi e delle decadenze processuali – una nuova domanda anche contro il terzo chiamato in quanto ritenuto corresponsabile del danno per il medesimo titolo già dedotto in giudizio ovvero – eventualmente – anche a diverso titolo.

I precedenti giurisprudenziali richiamati dal ricorrente non vengono a contrastare le predette conclusioni.

Inconferente, ai fini che interessano, è il discrimine operato da Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 17688 del 29/07/2009 tra le ipotesi di garanzia propria e quelle di garanzia impropria, per cui “si ha garanzia propria quando la domanda principale e quella di garanzia hanno lo stesso titolo, o quando si verifica una connessione obiettiva tra i titoli delle due domande o quando sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con l’azione principale e con quella di regresso; si ha, invece, garanzia impropria quando il convenuto tende a riversare sul terzo le conseguenze del proprio inadempimento o, comunque, della lite in cui è coinvolto, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale”. Una maggiore attenzione richiede l’esame degli altri precedenti in materia, in quanto sia alcune delle massime tratte dal CED di questa Corte, sia alcuni passaggi motivazionali delle sentenze in questione, se isolatamente considerati, possono far insorgere equivoci sulla esatta portata dei principi enunciati.

Orbene il filo conduttore che lega i precedenti in questione, a ben vedere, non incide sui presupposti – indicazione del terzo responsabile – condizionanti la estensione automatica della domanda nei confronti del terzo chiamato, quanto piuttosto sulla interpretazione del contenuto dell’atto di chiamata in causa, in funzione del risultato che con lo stesso si prefigge il convenuto-chiamante. Quanto detto emerge in modo del tutto evidente dall’esame dei precedenti di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5400 del 05/03/2013, id. Sez. 3, Sentenza n. 23213 del 13/11/2015, id. Sez. 3, Sentenza n. 12598 del 18/06/2015, nei quali la questione da risolvere era quella di stabilire se la chiamata in giudizio compiuta dagli originari convenuti fosse stata una chiamata in garanzia (in tal caso non potendo ritenersi automaticamente estesa la domanda attorea) ovvero una chiamata del terzo responsabile (con conseguente estensione automatica della domanda attorea). In particolare dalla motivazione della sentenza n. 12598/2015, dalla quale il ricorrente trae esplicito argomento a sostegno della censura, si evince che in relazione ad una causa di merito in cui era stato convenuto un Condominio per danni cagionati a terzi, ed il Condominio aveva convenuto in giudizio – con domanda qualificata espressamente di “manleva” – la ditta appaltatrice cui aveva commissionato i lavori, il Giudice di legittimità ha applicato il principio per cui, indipendentemente dal “nomen juris” attribuito dalla parte chiamante alla azione svolta nei confronti del chiamato, l’atto notificato al terzo, in considerazione dello (domanda di manleva), la chiamata andava intesa quale indicazione di terzo responsabile del danno “dovendosi privilegiare l’effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la corresponsabilità dell’evento dannoso” (per un caso analogo: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20610 del 07/10/2011, che individua il criterio interpretativo della volontà del chiamante, nella assenza di un autonomo rapporto obbligatorio tra lo stesso chiamate ed il terzo chiamato).

Il ricorrente, invoca tale precedente, assumendo che si sia inteso ampliare la applicazione del principio della estensione automatica della domanda, anche alla ipotesi della mera chiamata in causa del terzo “in correità”, quale coobbligato solidale.

Pur se dalla lettura del precedente si evince che il chiamante aveva inteso far valere la corresponsabilità del terzo chiamato, tuttavia non risultano essere state oggetto di specifica discussione le ragioni di un tale ampliamento, che debbono essere rinvenute nel richiamo all’unico precedente conforme di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5057 del 03/03/2010, così massimato dal CED della Corte “nell’ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell’evento dannoso, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa al terzo anche in mancanza di un’espressa dichiarazione in tal senso dell’attore, in quanto la diversità e pluralità delle condotte produttive dell’evento dannoso non dà luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo non determina il mutamento dell’oggetto della domanda ma evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio”.

Appare evidente come – fermo il principio che riconosce la estensione automatica della domanda nel caso in cui tale effetto sia conseguenza della implicazione logica necessaria dell’esito dell’accertamento dell'”unico” rapporto controverso dedotto in giudizio, che non può compiersi altrimenti che nei confronti di entrambi i soggetti, convenuto e terzo chiamato – nel precedente richiamato, il presupposto necessario della unicità del rapporto da accertare venga recuperato attraverso un ricostruzione dogmatica della struttura della obbligazione solidale (fondata sulla unicità del rapporto tra creditore/debitore e “complesso plurisoggettivo” – considerato unitariamente – dei concreditori/condebitori in solido) prospettata da pur autorevole dottrina ma che è del tutto minoritaria rispetto alla prevalente opinione dottrinaria ed all’indirizzo giurisprudenziale assolutamente maggioritario (cfr. ex plurimis: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 2359 del 12/11/1965; id. Sez. 2, Sentenza n. 1856 del 17/06/1971; id. Sez. 5, Sentenza n. 998 del 24/01/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 379 del 11/01/2005; id. Sez. 1, Sentenza n. 13585 del 12/06/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 24425 del 16/11/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 14530 del 22/06/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 26008 del 20/11/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 2822 del 07/02/2014; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 21567 del 18/09/2017) che riconosce invece nella obbligazione solidale (così come strutturata secondo il modello mutuato dalla disciplina legale) una pluralità di rapporti obbligatori distinti, in quanto fondati su situazioni giuridiche riferibili a “ciascun” condebitore/concreditore e che si caratterizzano per un collegamento funzionale o di scopo (espresso dalla previsione legislativa dell’art. 1292 c.c. per cui l’adempimento per l’intero da parte di uno o conseguito da uno, estingue le posizioni debitorie degli altri ovvero libera il debitore verso gli altri creditori) in quanto i rapporti obbligatori hanno tutti per oggetto una prestazione avente il medesimo contenuto (eadem res debita) idonea a soddisfare l’interesse creditorio. Ne consegue, sotto il profilo processuale che qui interessa, che, qualora il creditore comune convenga in giudizio tutti i condebitori in solido non si verifica un litisconsorzio necessario in quanto, avendo il creditore titolo per rivalersi per intero nei confronti di ogni debitore, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, che può utilmente svolgersi anche nei confronti di uno solo dei coobbligati (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 379 del 11/01/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 15358 del 06/07/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 24425 del 16/11/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 14530 del 22/06/2009). Ed infatti nel caso in cui il convenuto in azione risarcitoria prospetti l’esistenza di una situazione che identifica un terzo come vero responsabile sul piano passivo della pretesa fatta valere dall’attore ma, senza postulare di sottrarsi, in forza di essa, alla responsabilità evocata dall’attore (e, dunque, senza rigettare la sua legittimazione sostanziale: ciò può accadere nelle ipotesi in cui l’attore abbia agito nei confronti del convenuto facendo valere la responsabilità oggettiva od indiretta per fatto altrui ovvero per responsabilità diretta sul presupposto di rapporto di immedesimazione organica), chieda soltanto di essere manlevato dal terzo dalle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’accoglimento della pretesa attorea, il giudizio sulla domanda principale e quello sulla domanda di garanzia restano, in tal caso, distinti e sono suscettibili di separazione ai sensi dell’art. 103 c.p.c., comma 2, ove di tale norma ricorrano i presupposti.

Nella descritta fattispecie non si determina l’estensione automatica della domanda dell’attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto, in quanto la stessa opera solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa attorea (cfr. ancora recentemente, Corte cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 5580 del 08/03/2018). In tal caso un ampliamento dell’oggetto del giudizio con la instaurazione di un nuovo rapporto processuale tra l’attore ed il terzo chiamato, con conseguente insorgenza un litisconsorzio necessario successivo, di natura processuale (cd. unitario), potrà verificarsi soltanto se, venendo a dubitare, in base allegazioni in fatto dell’atto di chiamato in causa, del soggetto effettivo autore dell’illecito al quale riferire la pretesa risarcitoria e ravvisando una situazione di potenziale incompatibilità tra l’affermazione di responsabilità del convenuto o del terzo, tale per cui la fondatezza della domanda risarcitoria nei confronti dell’uno comporterebbe la infondatezza della domanda nei confronti dell’altro, l’attore – nel rispetto delle fasi e dei termini di decadenza processuali – scelga di proporre una nuova domanda anche contro il terzo chiamato, onde far valere la responsabilità alternativa o dell’uno o dell’altro.

Non vi è luogo ad estensione automatica della domanda attorea nei confronti del terzo chiamato dal convenuto, tanto più nel caso in cui si invochi soltanto una responsabilità concorrente, realizzandosi in tal caso, sempre e comunque, una situazione di litisconsorzio facoltativo non dissimile da quella che nasce fin dall’inizio del processo, allorquando si invochi nei confronti di più responsabili una responsabilità solidale, rendendosi necessaria, anche in questo caso, una specifica iniziativa processuale dell’attore per rendere destinatario anche il terzo (coobbligato in solido) della pretesa risarcitoria fatta valere nei confronti dell’originario convenuto (cfr. amplius, Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006 che ha sottoposto ad un approfondito esame gli aspetti processuali della chiamata in causa del terzo in relazione alla scindibilità ed inscindibilità delle cause connesse o dipendenti).

Orbene nel caso di specie la Corte d’appello ha rilevato come la chiamata in causa del medico fosse stata effettuata dalla Azienda ospedaliera ai soli fini della manleva, senza quindi negare ed anzi presupponendo la propria legittimazione passiva sostanziale rispetto all’azione risarcitoria svolta dal danneggiato.

Pertanto, indipendentemente dalle allegazioni in fatto poste a sostegno dell’azione di manleva, qualificata peraltro dal Giudice di appello come azione di regresso nei confronti del condebitore solidale, e dunque indipendentemente dalla circostanza se, da tali allegazioni, potessero o meno emergere dubbi in ordine ad una “incompatibilità-alternatività” della responsabilità attribuibile alla Azienda convenuta con quella imputabile invece al terzo chiamato, osserva il Collegio che l’attore, qualora avesse inteso estendere la propria azione risarcitoria anche nei confronti del terzo, avrebbe dovuto comunque promuovere rituale iniziativa processuale, formulando specifica domanda di condanna anche contro il medico chiamato in causa dalla Azienda ospedaliera, non operando nella concreta fattispecie il principio di automatica estensione della domanda originaria.

– Terzo motivo: vizio di violazione degli artt. 32 e 106 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il ricorrente censura la sentenza impugnata in relazione alla interpretazione fornita dal Giudice territoriale al contenuto dell’atto di chiamata in causa, avendo erroneamente affermato che trattavasi di chiamata in garanzia anzichè indicazione di esclusiva responsabilità del terzo.

Il motivo è inammissibile.

La rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda, è attività riservata al Giudice di merito ed insindacabile se non nei ridotti limiti in cui: a) l’errore ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del Giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; b) l’errore si traduca in un vizio del ragionamento logico decisorio, ma anche in tal caso, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deducibile come vizio di nullità processuale; c) ove poi l’errore coinvolga la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo, allora in tal caso, la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, od al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012.

Orbene indipendentemente dalla non perspicua indicazione in rubrica delle norme di diritto violate (non essendo sviluppata nel motivo alcuna specifica critica intesa a contestare, alla stregua del contenuto dell’atto di chiamata in causa, la qualificazione giuridica del rapporto obbligatorio che intercorre tra Azienda ospedaliera e medico e nel quale trova fondamento l’azione di manleva – definita in sentenza di “regresso” – proposta dalla convenuta nei confronti del chiamato), quando anche si venga a ricondurre il vizio di legittimità denunciato nell’ambito della nullità processuale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (sul presupposto che la errata rilevazione della volontà espressa nell’atto di chiamato dall’Azienda convenuta, avrebbe determinato l’illegittimo diniego della estensione automatica al terzo della domanda attorea), ritiene il Collegio che debba ribadirsi il principio di diritto secondo cui “l’interpretazione e la qualificazione dell’eccezione (come della domanda) rientra tra i poteri del giudice di merito, il quale non è condizionato in tale compito dalla formula adottata dalla parte, dovendo tener conto del contenuto sostanziale dell’eccezione (o della pretesa), così come desumibile dalla situazione dedotta in causa: la suddetta interpretazione non è censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata, tuttavia le censure concernenti il difetto motivazionale non possono risolversi in una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice, ma devono indicare quale sia il vizio logico del ragionamento decisorio” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5945 del 10/05/2000).

La censura concernente la interpretazione della volontà processuale espressa nell’atto di chiamata in causa deve, pertanto, evidenziare un vizio consistente nella alterazione del senso letterale o del contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 2148 del 05/02/2004), venendo quindi in applicazione esclusivamente il criterio ermeneutico volti ad indagare il significato che emerge dal testo dell’atto, secondo il significato fatto palese dalle parole secondo la loro connessione logica, ed evincibile dalla complessiva lettura del contenuto dell’atto, avuto riguardo anche alla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 10840 del 10/07/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007), restando esclusi – evidentemente – i criteri ermeneutici – soggettivi ed oggettivi – previsti per gli atti negoziali, che implicano la ricerca della comune intenzione delle parti (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4754 del 09/03/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 24847 del 24/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 25853 del 09/12/2014).

Tanto premesso la Corte distrettuale ha illustrato ampiamente nella motivazione della sentenza impugnata le ragioni per le quali l’atto di chiamata di casa: a) non conteneva alcuna indicazione del terzo quale esclusivo soggetto tenuto a rispondere, nell’ambito del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, alla pretesa risarcitoria dell’attore, venendo a veicolare l’atto di chiamata soltanto la domanda riconvenzionale di “regresso” proposta dalla Azienda, in via meramente subordinata, nei confronti del terzo, sulla prospettazione di una eventuale responsabilità solidale; b) che la indicata prospettazione di un concorso del terzo nella produzione del danno, escludeva la configurabilità di una situazione di “incompatibilità od alternatività”, tra l’Azienda ed il medico, nell’accertamento della responsabilità, tale da implicare necessariamente una estensione della domanda attorea al terzo. Al riguardo il ricorrente non deduce alcuno specifico errore nella applicazione della ermeneusi del testo compiuta dalla Corte distrettuale, limitandosi a riprodurre alcune proposizioni estratte dall’atto di chiamata di in causa, ed a prospettare in modo anapodittico un risultato interpretativo difforme: vale al proposito rilevare che la censura rivolta alla errata applicazione del criterio interpretativo adottata dal Giudice richiede la puntuale individuazione del contenuto testuale sul quale sarebbe caduto l’errore interpretativo, ed ancora la puntuale indicazione del tipo di errore logico in cui sarebbe incorso il Giudice di merito (relativo al significato lessicale della parola; alla connessione logica tra le parti del testo; alla volontà della parte, relazionata al petitum, che appaia oggettivamente incompatibile con una diversa scelta processuale).

Il ricorrente non ha adempiuto a tali condizioni, e la censura deve pertanto essere dichiarata inammissibile.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato, e la parte soccombente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida: a) in favore della controricorrente Generali Italia s.p.a., in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; b) in favore del controricorrente M.S. in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

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