Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30564 del 26/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 26/11/2018, (ud. 16/10/2018, dep. 26/11/2018), n.30564

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6380-2017 proposto da:

M.O., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ROBERTO ZIBETTI, NICO PARISE, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

EUROCOATING S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20,

presso lo studio dell’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARGHERITA BRAGHO’,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1601/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/01/2017 R.G.N. 1033/2013.

Fatto

RILEVATO

1. che la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di M.O. intesa all’accertamento della inefficacia, illegittimità e nullità del licenziamento intimatogli da Euroconsulting s.r.l. con lettera del 22 giugno 2011 ed alla conseguenziale reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno;

1.1. che, per quel che ancora rileva, il giudice di appello, osservato che i precedenti disciplinari evocati nella lettera di contestazione venivano in rilievo non come elementi costitutivi della condotta addebitata bensì come mere circostanze finalizzate all’apprezzamento della congruità e proporzionalità del provvedimento disciplinare, ha osservato che la prova orale non aveva confermato l’assunto del dipendente secondo il quale la (pacifica) utilizzazione di una vernice errata nell’espletamento delle mansioni di adibizione (quale operaio metallizzatore) era frutto della indicazione del capo reparto; ha, quindi, ritenuto che tale condotta, anche alla luce dei precedenti disciplinari, confermava la sussistenza della giusta causa di recesso e giustificava, stante la violazione persistente e reiterata dell’obbligo di diligenza, la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario;

2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso affidato a quattro motivi M.O.; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1. cod. proc. civ..

Diritto

CONSIDERATO

1. Che con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 censurando la sentenza impugnata per avere escluso che i precedenti disciplinari richiamati nella lettera di licenziamento si configurassero quali elemento costitutivo della condotta addebitata ed in quanto tali dovessero, pertanto, essere oggetto di preventiva contestazione;

2. che con il secondo motivo deduce “error in procedendo. Motivazione apparente e contraddittoria” censurando la sentenza impugnata per avere, da un lato, escluso che, nello specifico, la recidiva si configurasse quale elemento costitutivo dell’illecito e per avere, dall’altro, assunto le reiterate sanzioni disciplinari quali circostanze confermative della giusta causa di licenziamento sotto il profilo della proporzionalità della sanzione espulsiva connessa alla reiterata e persistente violazione dell’obbligo di diligenza;

3. che con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. censurando la sentenza impugnata per avere fondato la valutazione di gravità dell’addebito e di proporzionalità del licenziamento sulla sola generica sussistenza di precedenti senza prendere in esame tutte le circostanze del caso concreto quali la limitata scolarizzazione del lavoratore, il basso livello di inquadramento, l’assenza, per i primi tre anni del rapporto lavorativo, di illeciti disciplinari, il fatto che quattro delle sei contestazioni disciplinari elevate prima di quella che aveva dato luogo al recesso fossero confluite in un unico provvedimento disciplinare di irrogazione della sanzione pari a tre ore di multa mentre le altre due erano state sanzionate con unico provvedimento di irrogazione di due giorni di sospensione;

4. che con il quarto motivo deduce error in procedendo, violazione degli artt. 115,116 e 420 cod. proc. civ. censurando la sentenza impugnata per non avere ammesso la prova orale a mezzo di due colleghi di lavoro del dipendente che prestavano la propria attività nello stesso reparto verniciatura utilizzando vernici che venivano indicate a tutti gli operai dal capo reparto;

5. che il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto la deduzione di violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 cit. per mancata contestazione anche dei precedenti disciplinari è ancorata al presupposto della natura costitutiva della recidiva, presupposto escluso dalla sentenza impugnata secondo la quale le precedenti sanzioni disciplinari richiamate nella lettera di licenziamento costituivano solo un criterio di valutazione della giusta causa di licenziamento. L’accertamento del giudice di merito della natura non costitutiva dei precedenti disciplinari richiamati non risulta inficiato dalle deduzione del ricorrente relative alla errata interpretazione sul punto della lettera di licenziamento e di “tutti gli atti di controparte”. Tali deduzioni, a prescindere dalla generica evocazione degli atti di controparte diversi dalla lettera di licenziamento, non sono, infatti, corredate dalla puntuale indicazione delle violazioni nelle quali sarebbe incorso il giudice di merito con riferimento ai criteri legali di interpretazione degli atti di autonomia privata, non apparendo a tal fine sufficiente il mero richiamo al dato letterale. Secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, peraltro, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza; per escludere il sindacato di legittimità non è necessario, infatti, che quella data dal giudice di merito sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’ interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 06/06/2013 n. 14318; Cass. 2/11/2010 n. 23635);

5.1. che da tanto consegue la correttezza sul punto della sentenza impugnata, coerente con la giurisprudenza di questa Corte la quale esclude la necessità di previa contestazione anche dei precedenti disciplinari ove la recidiva venga in rilievo non quale elemento costitutivo del complessivo addebito formulato ma quale mero precedente negativo della condotta, rilevante ai fini determinazione della sanzione proporzionata da irrogare per l’infrazione disciplinare commessa (Cass. 25/01/2018 n. 1909; Cass. 15/09/1997 n. 9173);

6. che il secondo motivo di ricorso è infondato. La sentenza impugnata, esclusa la natura di elemento costitutivo dei precedenti disciplinari richiamati nella lettera di licenziamento, ha ritenuto che gli stessi operavano quale criterio di verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva. Le ragioni logico giuridiche della affermazione che ascrivono ai precedenti la funzione di mero criterio di valutazione destinato ad orientare la parte datoriale in ordine a possibili futuri inadempimenti del dipendente, chiaramente percepibili e prive di intrinseca contraddittorietà, non si prestano ad essere ricondotte, come denunziato, all’ambito della motivazione apparente risultando del tutto coerenti con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali e, quindi, anche eventuali precedenti disciplinari (Cass. 13/02/2012 n. 2013; Cass. 22/06/2009 n. 14586);

7. che il terzo motivo è inammissibile. Secondo quanto chiarito da questa Corte, infatti, i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli “standards” esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito (Cass. 26/03/2018 n. 7426; Cass. 13/12/2010 n. 25144). La censura articolata da parte ricorrente non è conforme a tali indicazioni posto che non individua alcuno specifico parametro, configurante “standard” presente nella realtà sociale nei termini sopra chiariti, destinato a porsi, in tesi, in contrasto con la valutazione del giudice di merito in punto di proporzionalità del recesso datoriale. Le doglianze formulate si risolvono, infatti, nella contestazione dell’accertamento in concreto operato dalla sentenza impugnata, accertamento del quale si chiede una rivalutazione sulla base di circostanze – peraltro evocate senza il rispetto del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6 – in contrasto con il principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo il quale il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta – come nel caso di specie – da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. 25/05/2012 n. 8293; Cass. 07/04/2011 n. 7948; Cass. 15/11/2006 n. 24349);

8. che il quarto motivo di ricorso è inammissibile non avendo parte ricorrente dimostrato di avere ritualmente e tempestivamente formulato le istanze istruttorie della cui mancata ammissione si duole; tantomeno risulta dimostrata la decisività dei capitoli di prova il cui contenuto non viene neppure riprodotto, come, invece, prescritto al fine della valida articolazione della censura (Cass. 23/04/2010 n. 9748; Cass. 23/09/2004 n. 19138);

9. che al rigetto del ricorso consegue il regolamento, secondo soccombenza delle spese di lite;

10. che sussistono i presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2018

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