Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30561 del 20/12/2017


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 30561 Anno 2017
Presidente: FRASCA RAFFAELE
Relatore: TEDESCO GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5828/2012 R.G. proposto da
De Grandis Wiliam, rappresentato e difeso dagli avv. Loris Tosi e
Giuseppe Marini, con domicilio eletto in Roma, via dei Monti Parioli
48, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Marini;
– ricorrente contro
Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,
domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura
Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
-controricorrenteAvverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del
Veneto n. 23/6/11, depositata il 28 febbraio 2011.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 ottobre 2017
dal consigliere Giuseppe Tedesco;
uditi l’avv. Barbara Tidore per l’Avvocatura generale dello Stato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Umberto De Augustinis che ha concluso per il rigetto del
ricorso.

Data pubblicazione: 20/12/2017

FATTI DI CAUSA
De Grandis Wiliam ha proposto ricorso per cassazione contro la
sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, di
conferma della sentenza di primo grado, sfavorevole per il
contribuente, in relazione a avviso di accertamento, con il quale, sulla

Chioggia, si provvedeva a rettificare la dichiarazione Modello Unico
2005, in quanto, per il corrispondente periodo di imposta 2004, il
contribuente si era avvalso di fatture emesse che documentavano
operazioni inesistenti.
Il ricorso è affidato a otto motivi, illustrati con memoria, cui
l’Agenzia delle entrate ha reagito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo denuncia, in relazione all’art. 360, comma
primo, n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c.
Il ricorrente, nel censurare la decisione di primo grado là dove i
primi giudici avevano ritenuto che l’Ufficio avesse fornito la prova del
carattere fittizio delle operazioni intercorse con i fornitori cinesi,
aveva eccepito che l’Amministrazione non era stata in grado di fornire
idonee presunzioni, per cui la decisione di primo grado violava le
regole di distribuzione dell’onere della prova applicabili in materia, in
forza delle quali è onere dell’Amministrazione provare l’inesistenza
delle operazioni e non è onere del contribuente dimostrarne l’effettiva
esistenza.
1.1. Il motivo è infondato. La deduzione cui è riferita l’omessa
pronuncia è uno dei tanti argomenti utilizzati dal contribuente per
sostenere l’infondatezza della pretesa del Fisco, che invece la Ctr ha
ritenuto fondata, in quanto supportata da prova adeguata.
Il rapporto logico esistente fra la deduzione non esaminata e la
decisione assunta è tale da rendere non configurabile il vizio di
omissione di pronuncia.
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scorta di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza di

È sufficiente in proposito richiamate i seguenti, pacifici, principi
ricavabili dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
«Il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e
singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione
delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n.

diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per
implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure
non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione
adottata e con l'”iter” argomentativo seguito. Ne consegue che il vizio
di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente
omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione
del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una
specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la
pretesa fatta valere dalla parte né comporti il rigetto (Cass. n
407/2006).
«Affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio
di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di
merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione
autonomamente apprezzabili (Cass. n. 5344/2013).
«Il vizio di omessa pronuncia correlato alla violazione dell’art. 112
c.p.c. è configurabile soltanto in ipotesi di mancanza di una decisione
in ordine ad una domanda o ad un assunto che richieda una
statuizione di accoglimento o di rigetto ed è pertanto da escludere
quando ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o
della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre
declaratorie (Cass. n. 4498/1996).
In verità i motivi, sotto lo schermo della omissione di pronuncia,
sembrano articolare solo vizi motivazionali, senza tuttavia attenersi ai
requisiti per la deduzione della corrispondente censura prevista

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4, c.p.c. che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in

dall’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. nel testo applicabile ratione
temporis.
È stato precisato che «il riferimento – contenuto nell’art. 360,
comma 1, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2
febbraio 2006, n. 40, applicabile

ratione temporis)

al “fatto

della “quaestio facti” fosse affetta non da una mera contraddittorietà,
insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da
determinare la logica insostenibilità della motivazione (Cass. n.
17037/2015)». Così «costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi
dell’art.360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. quello la cui
differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una
decisione diversa (Cass. n. 18368/2013; conf. n. 3668/2013)».
Diversamente, la ricorrente, di là dalla qualificazione formale della
censura, sembra sollecitare inammissibilmente e immotivatamente
una revisione del ragionamento decisorio, che è attività che non
rientra nell’ambito del controllo consentito alla Corte ai sensi del n. 5
del primo comma dell’art. 360 nel testo applicabile ratione temporis,
«posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un
giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova
formulazione, contrariamente alla funzione assegnata
dall’ordinamento al giudice di legittimità» (Cass. n. 11789/2005).
2. Le considerazioni che precedono danno ragione
dell’infondatezza anche del secondo, del terzo e del quarto motivo di
ricorso, i quali denunciano, sempre per vizio di omissione di
pronuncia, la sentenza per non avere statuito sulle deduzioni con cui
il contribuente aveva eccepito che le dichiarazioni rese dai terzi,
implicitamente utilizzate dalla Ctr, erano prive di valore probatorio
(secondo motivo), l’assoluta infondatezza della pretesa
dell’amministrazione finanziaria (terzo motivo), che le fatture

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controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione

contestate dalla Guardia di finanza documentavano acquisti
realmente avvenuti (quarto motivo).
3. Il quinto motivo denuncia l’omissione di pronuncia sulle
deduzioni con cui il contribuente aveva sostenuto, in via subordinata,
.brvy)(4.

che se per ipotesi le fattureVriguardategu operazioni inesistenti, ai

ugualmente tenuta a riconoscere sia la deducibilità dei costi sia la
detrazione sull’Iva assolta dal cessionario in via di rivalsa.
3.1 Il motivo è infondato. Innanzitutto occorre sgombrare il
campo da un possibile equivoco, indotto dal fatto che il ricorrente,
nell’articolare la censura, si riferisce a un’inesistenza solo “soggettiva”
delle operazioni.
Infatti, tale espressione, con la quale sono designate fatture
riferite a operazioni effettive, ma poste in essere da un soggetto
diverso da quello indicato nella fattura, non è usata dal ricorrente in
tale suo significato, non avendo egli mai adombrato che le operazioni
documentate dalle fatture erano intercorse con soggetti diversi dai
cedenti che avevano emesso il documento. Con quell’espressione il
ricorrente ha inteso piuttosto sostenere che, ai fini fiscali, il mancato
pagamento dell’imposta da parte dei cedenti non si riverberava
negativamente sul cessionario, non esistendo per la detrazione ti una
norma analoga a quella dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del
1972, riferita esclusivamente a chi emette le fatture.
La tesi è palesemente infondata (cfr. Cass. n. 20060/2015):
tuttavia, ai fini che rilevano in questa sede, è sufficiente rimarcare
come l’inesistenza soggettiva non sia intesa quale provenienza della
fornitura da un soggetto diverso dal cedente apparente, ma è fatta
coincidere con il mancato pagamento dell’imposta da parte del
cedente, dal quale la merce è stata effettivamente acquistata.
Insomma il punto è pur sempre quello dell’effettività (rivendicata
dal ricorrente) delle operazioni documentate dalle fatture, effettività
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fini fiscali ciò sarebbetay irrilevante, essendo l’Amministrazione

che la Ctr ha escluso, compiendo un accertamento in fatto che non
richiedeva altre considerazioni né con riferimento all’Iva né con
riferimento ai costi, di cui ha disconosciuto il sostenimento (Cass. n.
25249/2916).
4. È infondato anche il sesto motivo con il quale l’omissione di

l’illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto contenente il rinvio
a atti sconosciuti al contribuente e per violazione del diritto di difesa
Vale il principio sopra richiamato: non sussiste omessa pronuncia
qualora, pur in mancanza di una espressa decisione su di un capo di
domanda, risulti, dal contesto della motivazione, che esso sia stato
implicitamente respinto.
Nel momento in cui la Ctr ha deciso nel merito in senso
sfavorevole per il contribuente ha implicitamente tià operato una
ricostruzione logico-giuridica della fattispecie incompatibile con la
sussistenza dei vizi dedotti dal contribuente, le cui censura sono state
così implicitamente rigettate.
5. Il settimo motivo denuncia, in relazione all’art. 360, comma
primo, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 12, corna
5, della I. n. 212 del 2000: «la permanenza degli operatori civili o
militari dell’amministrazione finanziaria dovute a verifiche presso la
sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi,
prorogabili per ulteriore trenta giorni nei casi di particolari
complessità dell’indagine e motivati dal dirigente dell’ufficio».
Il ricorrente sostiene che la norma deve essere interpretata nel
senso che i giorni di durata della verifica debbono intendersi come
“lavorativi e consecutivi”, mentre la Ctr ha ritenuto che nel calcolo dei
trenta giorni lavorativi debbono considerarsi solo i giorni di effettiva
permanenza degli operatori civili o militari presso la sede del
contribuente (come ha ritenuto la Ctr).

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decisione è denunciata con riferimento alla deduzione riguardante

5.1. Il motivo è infondato. La norma è stata modificata dall’art. 7,
comma 2, leggera d) del d.l. 13 maggio 2001, convertito dalla I. 12
luglio 2011, n. 106, che ha aggiunto il seguente periodo: «Il periodo
di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo
periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere

presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori
autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi,
devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori
civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del
contribuente.».
Ad ogni modo, anche prima dell’intervento effettuato con
richiamato d.l. n. 70 del 2011, l’Agenzia delle entrate (Circolare 64/E
del 27 giugno 2011) e la Guardia di Finanza (Circolare m. 250400 del
17 agosto 2000 del Comanda Generale della Guardia di Finanza)
hanno ritenuto riferibile il vicolo temporale posto dalla norma dello
Statuto ai soli giorni di permanenza dei verificatori presso la sede del
contribuente e non all’intero periodo intercorrente tra il momento
dell’accesso e quello della conclusione del controllo.
Tale interpretazione è stata condivisa dalla giurisprudenza di
questa Suprema corte: «In tema di verifiche tributarie, il quinto
comma dell’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel fissare agli
operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria il termine di
trenta giorni lavorativi (successivamente prorogabile) di permanenza
presso la sede del contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva
attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal
computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri
luoghi (Cass. n. 23595/2011; conf. n. 11878/2017).
L’intervento chiarificatore operato dal d.l. n. 70 del 2011 non può
essere considerato, a contrario, quale argomento per negare la

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superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta

correttezza della interpretazione del vincolo temporale data dalla
giurisprudenza di questa Suprema Corte.
Occorre ancora aggiungere che la giurisprudenza di questa
Sezione della Suprema corte è saldamente orientata nel senso che
«in tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di

sede del contribuente, previsto dall’art. 12, comma 5, della I. n. 212
del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di
accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o
l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali
sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta
razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del
contribuente costituzionalmente tutelati (Cass. n. 2055/2017; conf. n.
8584/2015; n. 16323/2014)».
6. L’ottavo motivo denuncia, in relazione all’art. 360, comma
primo, n. 3, c.p.c., violazione dell’art. 7 della I. n. 212 del 2000.
Il ricorrente sostiene che, in ipotesi di motivazione dell’atto
impositivo per relationem, l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato,
diversamente da quanto ritenuto dalla Ctr, opera pure in relazione al
caso in esso sia stato già portato a conoscenza del contribuente.
6.1. Il motivo è infondato. Nel regime introdotto dalla legge 27
luglio 2000, n. 212, art. 7, l’obbligo di motivazione degli atti tributari
può essere adempiuto anche

per relationem,

cioè mediante il

riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a
condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato o questo
ne riproduca il contenuto essenziale ovvero siano già conosciuti dal
contribuente per effetto di precedente notificazione (Cass. n.
13110/2012). Ciò comporta che «l’art. 7, comma 1, della legge 27
luglio 2000, n. 212, nel prevedere che debba essere allegato all’atto
dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella
motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il
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permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la

contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto
di precedente comunicazione» (Cass. n. 407/2015).
In conclusione il ricorso va interamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.

della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in
complessive C 13.400,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a
debito.
Roma 9 ottobre 2017.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore

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