Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30536 del 26/11/2018

Cassazione civile sez. I, 26/11/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 26/11/2018), n.30536

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

S.S., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentata e difesa, giusta

procura speciale apposta a margine del ricorso, dagli Avvocati

Francesco Iaderosa e Giuseppe Scapato, con i quali elettivamente

domicilia presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla via Durazzo

n. 9;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., (cod. fisc. (OMISSIS)), con

sede in (OMISSIS), in persona del dott. B.R.,

rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta a margine

del controricorso, dagli Avvocati Antonio Cimino, Alessandro

Pizzato, Maria Della Serra e Michela Reggio d’Aci, con i quali

elettivamente domicilia presso lo studio di quest’ultima in Roma,

alla Via degli Scipioni n. 288;

– controricorrente –

e

FALLIMENTO (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione, in persona del curatore

pro tempore dott. X.P.; (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione,

in persona del legale rappresentante pro tempore; C.G..

– intimati –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA depositata il

19/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/10/2018 dal Consigliere dott. Eduardo Campese;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Lucio

Capasso, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Con sentenza del 14 luglio/19 agosto 2015, n. 1972, la Corte di appello di Venezia respinse, per insussistenza dei corrispondenti presupposti di legge, l’impugnazione di S.S., già socia ed amministratrice della (OMISSIS) s.p.a., volta ad ottenere la revocazione, ex art. 395 c.p.c., nn. 1, 2 e 3, della sentenza del 19 settembre/25 ottobre 2013, n. 2602, della medesima corte (dalla prima, peraltro, fatta oggetto anche di ricorso per cassazione), reiettiva del reclamo anche da lei proposto contro la dichiarazione di fallimento della menzionata società, in liquidazione, pronunciata dal Tribunale di Bassano del Grappa, il 20 febbraio 2013, su istanza di Banca Antonveneta s.p.a. e di Banca Monte Dei Paschi di Siena s.p.a..

2. Avverso la suddetta decisione del 2015, la S. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., e resistiti da Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (d’ora in avanti, indicata, più semplicemente, come MPS). Non hanno, invece, spiegato difese, in questa sede, il fallimento (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione, la (OMISSIS) s.p.a., in liquidazione, e C.G., già convenuti innanzi alla corte veneziana.

3.1. Rileva preliminarmente il Collegio che la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2602/2013, impugnata, innanzi alla stessa corte, dalla S. per revocazione, risulta essere stata fatta oggetto, ad opera di quest’ultima, anche di ricorso per cassazione che la Suprema Corte, con ordinanza n. 9277 del 2017, ha giudicato inammissibile.

3.1.1. E’ noto, poi, che i due rimedi, quello del ricorso per cassazione e quello della revocazione, essendo entrambi a critica vincolata ma per motivi evidentemente diversi e per di più tra loro incompatibili (tanto che il primo è, per giurisprudenza consolidata, inammissibile quando viene dedotto un vizio da ricondursi al secondo), danno luogo a due impugnazioni concorrenti e potenzialmente del tutto tra loro autonome: ma la prima di esse è subordinata, da un punto di vista logico (come reso manifesto anche dall’attuale disciplina della sospensione del termine o del giudizio di cassazione, di cui all’art. 398 cod. proc. civ., anche dopo la novella del 1990) e per concorde opinione degli interpreti, alla seconda. Infatti, la revocazione mina alla base l’intrinseca correttezza della decisione, puntando a dimostrare la fallacia dei presupposti di fatto esaminati e, quindi, l’insopprimibile ingiustizia dell’impianto motivazionale volto a sorreggerla. Il vizio di una sentenza che si basi su di uno dei gravi elementi di perturbazione incolpevole della decisione viene, in altri termini, logicamente a porsi a monte di qualsiasi vizio successivo negli sviluppi dei ragionamenti applicati al quadro fattuale così – malamente – preso in considerazione: tanto è vero che la giurisprudenza di questa Corte ha ribadito che, ove si debba esaminare contemporaneamente il ricorso per cassazione e la decisione sulla revocazione, è quest’ultima a doversi valutare prioritariamente, per le conseguenze radicali che l’eventuale suo accoglimento potrebbe avere sullo stesso oggetto della prima (cfr. Cass. n. 23445 del 2014; Cass. n. 6456 del 2010; Cass. n. 6878 del 2009; Cass. n. 1814 del 2004; Cass. n. 5480 del 1998).

3.1.2. Non rileva, dunque, che il giudizio di legittimità avverso la sentenza della corte territoriale già resa oggetto di revocazione si sia concluso – evidentemente non essendo stato applicato il meccanismo processuale di raccordo dell’art. 398 c.p.c. – in tempo anteriore: proprio l’autonomia tra le due impugnazioni ed il diverso ben delimitato ambito di ognuna consente di concludere che, se l’originario ricorso per cassazione non è stato accolto, la persistenza della sentenza oggetto anche della revocazione continua a fondare l’interesse a conseguire quest’ultima, cioè l’annullamento della pronuncia asseritamente affetta da quel peculiare vizio che giustifica l’impugnazione (cfr. Cass. n. 23445 del 2014).

3.1.3. Nella specie, pertanto, la circostanza che sia intervenuta per prima la pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione (cfr. Cass. n. 9972 del 2017), visto che ciò non incide sulla persistenza, nel mondo del diritto, della pronuncia che ne era stata oggetto, non impedisce affatto l’ulteriore sviluppo della separata impugnazione rivolta contro quest’ultima e la verifica della sua eventuale fondatezza, siccome di per sè sola ancora idonea ad incidervi.

4. – Deve, allora, procedersi, a questo punto, all’esame dei motivi dell’odierno ricorso della S., il primo dei quali, rubricato “Art. 360, n. 3. Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 1”, sostanzialmente assume che erroneamente la corte distrettuale aveva ricondotto la sua doglianza di cui al primo prospettato motivo di revocazione innanzi ad essa a quella dell’uso di fatti non veri ed infondati (così sancendone l’infondatezza alla stregua della giurisprudenza di questa Corte – Cass. n. 12875 del 2014 – ivi richiamata), configurandosi, invece, a suo dire, l’esistenza di un vero e proprio comportamento doloso di MPS consistente nell’aver fatto naufragare le trattative in essere per la ristrutturazione del debito della (OMISSIS) s.p.a..

4.1 Una siffatta doglianza è inammissibile.

4.2. Infatti, la corte distrettuale – dopo aver premesso che la S. aveva denunciato che la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2602/2013 era da revocare, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, “in quanto non corrispondente al vero la certificazione ex art. 50 L.B. utilizzata dalla banca senese per ottenere decreti ingiuntivi contro la società fallita. Infatti, in sede fallimentare, la banca non aveva depositato tutta la documentazione attestante il suo credito rivendicato nell’istanza di fallimento e nemmeno s’era insinuata nella procedura fallimentare fino alla pronuncia della sentenza d’appello, oggetto di revocazione, così palesando la falsità delle certificazioni usate in causa” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata) – con la decisione n. 1972/2015, oggi impugnata, ha ritenuto che: i) “il dolo revocatorio non si configura in presenza del mero uso di fatti non veritieri ed infondati, cosi come, nella stessa prospettazione della S., sarebbe avvenuto con l’uso dei certificati ex art. 50 della legge bancaria”; li) “tale documento appare essere stato utilizzato, non tanto, dalla s.p.a. Monte dei Paschi di Siena per i propri crediti verso la società fallita, quanto dalla s.p.a. Banca Antonveneta – poi incorporata nel Monte dei Paschi – al fine di ottenere decreti ingiuntivi, provvisoriamente esecutivi, verso la società fallita”; iii) “come la stessa S. ricorda, detti decreti ingiuntivi sono stati opposti ed è ancora in corso il procedimento di merito relativamente alle posizioni diverse dalla società fallita”; iv) “il Monte dei Paschi, come dà espressamente atto la Corte lagunare nella sentenza da revocare, ebbe a proporre istanza di fallimento senza alcun titolo, ma solamente agendo sulla scorta di un suo asserito credito ricordato partitamente dalla S. nella citazione”; v) “il fallimento… risulta dichiarato in forza dell’esame dei bilanci sociali e della propCalgaro Giuseppeta di definizione extra fallimentare, Calgaro Giuseppesia sulla scorta di poste attive e passive che la stessa società fallita ha ritenuto corrette, tanto da evidenziarle nei propri bilanci e prospetti debitori. Quindi non solo l’ammontare del credito vantato ex se dal Monte dei Paschi non ha influito, se non in quanto fatto proprio dalla stessa società fallita in bilancio, sulla decisione afferente il fallimento, ma neppure la documentazione dimessa dalla banca appare aver impedito la difesa dei soggetti evocati in sede fallimentare” (cfr. pag. 5-6 della sentenza impugnata).

4.2.1. Nell’odierno ricorso, invece, la S. così argomenta la configurabilità, a suo dire, del dolo revocatorio, nella condotta di MPS: “a) MPS ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Padova due successivi decreti ingiuntivi… con la facilitazione di prova che l’art. 50 T.U.B. riconosce agli Istituti di credito. Ciò quando la società ((OMISSIS) s.p.a.. Ndr) stava approdando all’accordo di ristrutturazione dei debiti L. Fall., ex art. 182 bis, come risulta dai verbali della causa di merito tuttora pendente avanti al Tribunale di Padova… ove le parti hanno chiesto numerosi rinvii sino al giugno 2012, confidando, appunto, nell’esito favorevole della procedura L. Fall., ex art. 182 bis; b) improvvisamente MPS, adducendo a pretesto alcuni articoli apparsi sulla stampa locale, interruppe ingiustificatamente le trattative in corso e, già il 20.7.2012, depositò ben due istanze di fallimento che poggiarono entrambe sui predetti decreti ingiuntivi che vennero ottenuti in forza della sola certificazione ex art. 50 T.U.B. la cui veridicità non ha mai trovato riscontro nelle cause di merito pendenti avanti al Tribunale di Padova nè, poi, in sede fallimentare ove, anzi, fu smentita. Invero, la Banca non ha mai prodotto i contratti di apertura dei vari conti correnti, nè la documentazione completa relativa agli affidamenti, nè, infine, gli estratti conto (tutti) dall’inizio del rapporto alla sua interruzione; c) si aggiunga, ad abundatiam, che, dopo aver presentato le due istanze di fallimento più sopra indicate, MPS non si insinuò al passivo del fallimento sino al 15.11.2013, ovvero fino a quando non intervenne la sentenza d’appello nel giudizio di reclamo avverso il fallimento, che risultò pubblicata il 29.10.2013… Emerge chiaramente dai fatti di causa che il contegno di MPS fu caratterizzato dall’aver posto in essere artifizi e raggiri tali da pregiudicare concretamente il potere di difesa della società fallita. Invero, le trattative volte alla ristrutturazione L. Fall., ex art. 182 bis, hanno retto fino a che non si è cominciato a parlare di usura (già evidenziata in sede di opposizione ai decreti ingiuntivi emessi dal Tribunale di Padova) e sono state ingiustificatamente (nessun atto di sottrazione delle garanzie del credito è stato posto in essere) interrotte dalla presentazione delle istanze di fallimento ove, sempre per sottrarsi alla verifica del proprio credito, MPS si guardò bene dall’insinuarsi tempestivamente, artatamente preferendo attendere – forte anche delle più che capienti garanzie personali offerte dai soci – la sentenza di appello, sì da precludere qualsivoglia eccezione in tale sede…” (cfr. pag. 5-6 del ricorso).

4.3. Le appena esposte considerazione, però, in primo luogo, non colgono appieno la riportata ratio decidendi, in parte qua, della sentenza impugnata.

4.3.1. In essa, infatti, una volta definito il dolo revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 1, alla stregua della consolidata, e qui condivisa, giurisprudenza di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. n. 12875 del 2014, secondo cui il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, in quanto consista in un’attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria ed impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità), lo si è ritenuto insussistente, nella condotta di MPS, essendo stata sostanzialmente esclusa qualsivoglia effettiva e diretta rilevanza della certificazione ex art. 50 TUB nella dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) s.p.a.: tanto è chiaramente evincibile dal duplice passaggio motivazionale in cui si afferma che MPS aveva fondato la propria istanza di fallimento agendo sulla scorta di un suo asserito credito, senza, però, produrre alcun titolo, e che il fallimento della (OMISSIS) s.p.a. era stato pronunciato in forza dell’esame dei bilanci sociali e della proposta di definizione extra fallimentare, ossia sulla scorta di poste attive e passive che la stessa società fallita ha ritenuto corrette tanto da evidenziarle nei propri bilanci e prospetti debitori.

4.4. Il riportato odierno assunto della S., inoltre, laddove intende ricavare la configurabilità del presupposto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 1, dall’esistenza “di un vero e proprio comportamento doloso di MPS consistente nell’aver fatto naufragare le trattative in essere per la ristrutturazione del debito della (OMISSIS) s.p.a.”, postula anche a volerne sottacere la diversità rispetto a quanto sostenuto nel precedente grado – ulteriori accertamenti in fatto, circa l’esistenza, lo sviluppo e le cause dell’esito negativo delle trattative oggi descritte, affatto incompatibili con il giudizio di legittimità, (oltre che facenti rinvio a documentazione il cui contenuto nemmeno riassuntivamente è stato riprodotto in ricorso), senza, peraltro, assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposta, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), ma deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma, come nella specie, non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

5. Il secondo motivo di ricorso, rubricato “Art. 360, n. 3. Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 2”, si rivolge, sostanzialmente, contro la motivazione con cui la corte veneziana aveva disatteso l’assunto della S. secondo cui la dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) s.p.a., resa dal Tribunale di Bassano del Grappa e successivamente confermata dalla Corte di appello di Venezia con la sentenza n. 2602/2013, oggetto di revocazione, sarebbe stata fondata su prove false.

5.1. La decisione oggi impugnata (cfr., amplius, pag. 6-7), premettendo che “la prova falsa risulta individuata sempre nella certificazione, ex art. 50 L.B., usata per ottenere i decreti ingiuntivi, come visto dalla s.p.a. Banca Antonveneta e, non già, dal Monte dei Paschi”, ha ritenuto, tuttavia, che: i) “detta falsità sarebbe stata accertata – a dire dell’impugnante – in sede di esame e definizione dello stato passivo, in quanto il credito preteso dalla banca, (fu) ammesso, bensì, al passivo, ma in misura ridotta con il mancato riconoscimento degli interessi”; ii) “a parte l’osservazione, ovvia, che trattasi di valutazione giuridica circa la debenza, o non, degli interessi, quindi non falsità ma infondatezza della pretesa, va rilevato come… la prova deve essere dichiarata falsa con sentenza (passata) in giudicato e ad esito di procedimento che aveva la falsità della prova siccome oggetto principale e non già meramente incidentale”; iii) “è dato normativo che lo stato passivo non abbia forma di sentenza di accertamento, tanto meno in grado di assurgere a giudicato stante, al riguardo, l’espressa norma in art. 96, comma 5, L.F., che chiaramente limita il valore dell’accertamento fatto alla sola procedura fallimentare”; iv) la sentenza n. 2602/2013 della corte veneziana, aveva “accuratamente” esaminato “la questione degli interessi sul debito bancario, notando come, anche a volerli escludere…, rilevanti rimanevano i debiti verso le banche anche nella misura esposta in proposta di soluzione parafallimentare redatta dalla stessa società fallita”.

5.1.1. Con la censura in esame, invece, la S. denuncia che “il ragionamento della Corte non è certo esente da vizi; la falsità della prova, infatti, è stata accertata nel giudizio di opposizione allo stato passivo, giudizio tra le medesime parti; ad ogni buon conto, la falsità è stata anche riconosciuta dal creditore, seppure implicitamente, ragione per cui non è necessaria l’esistenza di un autonomo giudizio avente ad oggetto autonomo l’esistenza, o meno, della falsità accertata”, ed afferma che “la rideterminazione del credito fatta dal curatore del fallimento, infatti, è stata riconosciuta da MPS, che non ha impugnato, sul punto, lo stato passivo; in ogni caso, nel procedimento fallimentare l’ammissione di un credito sancita poi dalla definitività dello stato passivo, una volta che questo sia stato reso esecutivo con il decreto emesso dal giudice delegato ai sensi dell’art. 97 I.fall. e non opposto, acquisisce all’interno della procedura concorsuale un grado di stabilità assimilabile al giudicato” (pag. 10 del ricorso).

5.2. Una siffatta doglianza è, però, inammissibile.

5.2.1. Essa, invero, non solo non rispetta i principi – già richiamati nel precedente p. 4.4. e da intendersi qui ribaditi – sanciti dalla giurisprudenza di legittimità quanto alle modalità di proposizione della censura concernente la violazione di legge, ma, ancora una volta, non coglie appieno la ratio decidendi, in parte qua, della statuizione impugnata, a tenore della quale: in sede di formazione dello stato passivo si era solo valutata la fondatezza, o meno, della intera pretesa della banca, sicchè non si discuteva di falsità della documentazione prodotta a sostegno della stessa (o di quella che aveva condotto alla dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) s.p.a. resa dal Tribunale di Bassano del Grappa, e successivamente confermata dalla Corte di appello di Venezia con la sentenza n. 2602/2013, oggetto di revocazione), piuttosto essendosi effettuata una valutazione giuridica circa l’effettiva entità di quest’ultima; la sentenza di cui era stata domandata la revocazione, inoltre, aveva giudicato non decisiva la questione degli interessi sul debito bancario, posto che, anche escludendoli, l’importo del debito complessivo verso le banche, riconosciuto dalla stessa società poi fallita nella sua proposta di soluzione parafallimentare, sarebbe rimasto rilevante.

5.2.2. La S., invece, insiste sulla configurabilità, a suo dire, dei presupposti dell’art. 395 c.p.c., n. 2, – da individuarsi, giova ricordarlo, nella falsità della prova utilizzata per la decisione che sia stata dichiarata in un giudizio vertente specificamente sull’accertamento di tale falsità, oppure riconosciuta ad opera della parte che se ne sia giovata utilizzando, peraltro, argomentazioni giuridicamente infondate.

5.2.2.1. E’ mancato, infatti, nella fattispecie in esame, qualsivoglia giudizio vertente, in via principale, sulla falsità della documentazione (tutta) posta da MPS a fondamento delle proprie pretese (sia in sede di giudizio prefallimentare che, successivamente, di insinuazione al passivo), nè si rinviene una pronuncia che tanto abbia specificamente sancito, rivelandosi affatto inconferente, sul punto, il richiamato decreto L. Fall., ex art. 97, sia perchè avente diverso oggetto (l’accertamento e la composizione del passivo fallimentare), sia perchè, per espressa previsione normativa (L. Fall., art. 96, u.c.), produttivo di effetti solo ai fini del concorso, così, pertanto, da non poter costituire il presupposto di domande proposte al di fuori di esso.

5.2.2.2. Inoltre, nemmeno può ragionevolmente ritenersi che detta falsità sia stata riconosciuta dalla banca per non aver proposto opposizione alla soltanto parziale ammissione al passivo del proprio credito, risultando evidente la equivocità di una siffatta condotta suscettibile di svariate interpretazioni giustificative.

6. Il terzo motivo di ricorso, rubricato “Art. 360, n. 3. Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 3”, censura, poi, la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto intempestiva, “perchè proposta trascorso il termine di decadenza di giorni trenta dalla conoscenza del documento asseritamente nuovo”, l’azione ex art. 395 c.p.c., n. 3, intrapresa, con citazione notificata il 25 novembre 2014, contro la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2602/2013, depositata il 25 ottobre 2013, reiettiva, come si è già detto, del reclamo contro il dichiarato fallimento della (OMISSIS) s.p.a..

6.1. Si legge nella decisione oggi impugnata che (cfr. pag. 7), “quanto al vizio correlato alla scoperta di un nuovo documento – sempre con riferimento ai documenti bancari dimessi in relazione all’esame delle insinuazioni allo stato passivo -, non solo appare come gli stessi non siano decisivi, poichè la questione (è stata) esaminata dalla Corte ai fini della sua decisione, ma, soprattutto, la S. li conosceva già in sede di verifica dei crediti, ossia ben prima della definitività dello stato passivo, siccome asserito in citazione. Difatti, come documentato dalla banca, a mezzo del suo difensore la S. ha partecipato alle varie udienze, in cui sono stati esaminati i documenti dimessi dal Monte dei Paschi ai fini di ammissione dei suoi crediti al passivo, fino alla statuizione di ammissione in misura ridotta”.

6.2. La censura in esame muove, invece, dall’affermazione che la S. – che, giova ribadirlo, contesta l’avvenuta dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) s.p.a. pronunciata dal Tribunale di Bassano del Grappa e confermata dalla Corte di appello di Venezia con la menzionata sentenza, fatta poi oggetto (anche) di revocazione, n. 2602/2013 depositata il 25 ottobre 2013 – era venuta “a conoscenza in data 10 novembre 2014 del fatto che lo stato passivo sarebbe divenuto definitivo in quanto contro il medesimo non erano state proposte opposizioni e quelle proposte erano state tutte definite; è pertanto con tale produzione documentale che, da un lato, scatta il termine per la revocazione di cui al punto 3 dell’art. 395 c.p.c., e, dall’altro, risulta compiuto lo stato passivo salvo eventuali tardive” (cfr. pag. 11 del ricorso).

6.2.1. Trattasi, però, di deduzione inammissibile, sia perchè priva di qualsivoglia critica alla non decisività della documentazione de qua come ritenuta dalla corte veneziana nella citata sentenza n. 2602/2013, sia, soprattutto, perchè postula accertamenti in fatto, quanto all’effettiva data di conoscenza di detta documentazione, del tutto incompatibili con le caratteristiche proprie del giudizio di legittimità.

6.3. Anche questo motivo, peraltro, non rispetta i principi – già richiamati nel precedente p. 4.4. e da intendersi qui ritrascritti – sanciti dalla giurisprudenza di legittimità quanto alle modalità di proposizione della censura concernente la violazione di legge, e si risolve nell’inammissibile tentativo di contrapporre alle conclusioni esposte, sul punto, dal giudice di merito, quelle, più favorevoli, esposte dalla S..

7. Il quarto motivo infine, rubricato “Art. 360, n. 3. Violazione di legge. Eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 50 TULB”, e prospettante l’asserita contrarietà all’art. 3 Cost., di quanto sancito dal D.Lgs. n. 385 del 1983, art. 50, è inammissibile, posto che, a tacer d’altro, la questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un’autonoma istanza allorquando – come accaduto nella specie, in ragione di quanto si è detto quanto alla inammissibilità del primo motivo dell’odierno ricorso – non risulti che la disposizione tacciata di incostituzionalità sia stata effettivamente rilevante per l’adozione della decisione impugnata.

7. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese del giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza tra le parti costituite, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto il 30 ottobre 2015), in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2018

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