Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30529 del 19/12/2017


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Cassazione civile, sez. II, 19/12/2017, (ud. 26/10/2017, dep.19/12/2017),  n. 30529

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.E. ha proposto ricorso per cassazione articolato in trentanove motivi (strutturati in distinti capitoli e paragrafi autonomamente numerati) avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 247/2013 del 22 gennaio 2013. Resiste con controricorso P.R., essendo stati inoltre intimati, senza però svolgere attività difensive, P.R., P.M., G.O., G.F. (tutti anche quali eredi di R.M.), P.F. e la Due P di P.F. & c. s.n.c..

Il giudizio aveva avuto inizio con citazione davanti al Tribunale di Monza notificata nell’ottobre del 1997 da P.E. a P.R. (anche nella qualità di socio della Due P di R.T. e M.N. s.n.c., modificatasi nell’attuale Due P di P.F. & c. s.n.c.), a P.R., a P.M., ad G.O., a G.F., a R.M., alla Due P di P.F. & c. s.n.c., a R.T.I. ed a M.N.. Essa aveva ad oggetto la successione (apertasi il 2 marzo 1996) di P.C., padre dell’attrice, marito di R.M. e padre anche di P.R., P.R., P.M. e P.G., quest’ultima premorta, con conseguente subentro per rappresentazione dei nipoti del de cuius G.O. e G.F.. Essendo P.C. deceduto ab intestato, lasciando un patrimonio comprendente terreni inedificabili del valore di Lire 174.390.625 (come indicato nella denuncia di successione), P.E. domandò la riduzione di numerose donazioni (per alcuni atti, previo accertamento della simulazione delle apparenti vendite), aventi ad oggetto immobili e denaro, eseguite da P.C. (insieme al fratello D., comproprietario dei beni donati) dal 1972 al 1981 in favore dei figli R. e P.F., nonchè della Due P s.n.c., società costituita dagli stessi fratelli R. e F. e dalle loro mogli M.N. e R.T.I.. Il Tribunale di Monza, con sentenza del 2 novembre 2001, ritenuta la inammissibilità per novità di alcune domande svolte da P.E. nel corso del giudizio di primo grado, respinse le domande originariamente formulate, ad eccezione di quelle dirette a ridurre le donazioni, dirette o dissimulate, del 14 dicembre 1972, del 30 maggio 1978, del 20 ottobre 1978 e del 21 luglio 1981 (trasferimento di immobile in (OMISSIS), aumento di capitale e cessione di quote della F.lli P. s.n.c., immobili di via (OMISSIS)). Proposte impugnazioni in via principale ed incidentale, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 927/2005 dell’11 aprile 2005, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva tutte le domande di P.E.. Avverso la sentenza n. 927/2005 della Corte d’Appello di Milano, propose ricorso per cassazione P.E. sulla base di sei motivi, cui resisterono con separati controricorsi P.F., la P.F. s.n.c. e P.R.. Con sentenza n. 11257 del 20 maggio 2011 la Corte di cassazione accolse il terzo ed il quinto motivo di ricorso, rigettò il primo, il secondo e il quarto motivo, dichiarò assorbito il sesto e cassò la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. In particolare, quanto al terzo motivo accolto, inerente a violazione e falsa applicazione degli artt. 345, comma 3, 115,116,228 e 230 c.p.c. e degli artt. 2704, 2697, 2730, 2733 e 2734 c.c., nonchè ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, la Corte di cassazione osservò che la sentenza n. 927/2005 della Corte d’Appello di Milano aveva erroneamente ritenuto ammissibile la produzione in grado di appello dell’originale della scrittura del 5 gennaio 1971 (da cui la Corte d’appello aveva tratto argomenti di prova nella formazione del suo convincimento), dovendosi a tal fine dapprima verificare i presupposti previsti dall’art. 345 c.p.c. per la proposizione di nuove prove in sede di gravame. Era, per contro respinto il quarto motivo di ricorso, per violazione dell’art. 112 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, che aveva censurato il punto della sentenza d’appello n. 927/2005 laddove aveva ritenuto che la domanda proposta dall’attrice fosse esclusivamente finalizzata all’azione di riduzione, e non desse invece luogo ad una domanda autonoma di accertamento della massa ereditaria indipendente dalla sussistenza in concreto di una lesione della quota di legittima. Il quinto motivo del ricorso per cassazione di P.E. dedusse poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2729,2730,2733 e 2734 c.c., degli artt. 115,116,228 e 230,61 e 191 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il tutto con riguardo alla valutazione delle prove ed alla mancata ammissione della consulenza tecnica, relativamente a ognuno degli atti impugnati, ovvero, nella specie:

a) l’atto S. del 14-12-1972, avente a oggetto la vendita del terreno (mappale (OMISSIS)) in (OMISSIS) dai comproprietari P.C. e P.D. a P.R. e P.F., per quote indivise, contro un prezzo di Lire 1.600.000 nonchè la vendita del terreno di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F., per il prezzo di Lire 2.700.000;

b) la costruzione della villa bifamiliare di Via (OMISSIS);

c) la vendita di terreno e sovrastante portico in (OMISSIS) – atto S. del 21-7-1977;

d) la costruzione del fabbricato in (OMISSIS) soprastante il terreno di cui al predetto punto c;

e) gli atti S. del 30-5-1978 e 20-10-1978 di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. e di cessione di quote della stessa da C. e P.D. a R. e P.F.;

f) l’atto S. dell’8-7-1980 di vendita dell’immobile esposizione sito in (OMISSIS) da C. e D. alla 2 P s.n.c.

g) la vendita della nuda proprietà dell’immobile di Via (OMISSIS) a R. e della nuda proprietà dell’immobile di via (OMISSIS) a F. – atti S. del 1981.

La sentenza n. 11257/2011 della Corte di cassazione accolse solo parzialmente tale quinto motivo di ricorso, premettendo come, relativamente ad alcuni degli acquisti compiuti da P.R. e P.F., la Corte d’Appello di Milano, nell’escluderne la gratuità, avesse tratto elementi di convincimento dalla scrittura del 5 gennaio 1971, affermando che le dichiarazioni dai medesimi rese in sede di interrogatorio formale circa le risorse finanziarie a loro disposizione o le modalità dei pagamenti effettuati avrebbero trovato riscontro nel rapporto di lavoro intercorso in virtù del contratto di associazione in compartecipazione stipulato con C. e P.D. tramite la richiamata scrittura del 1971. Questo documento, tuttavia, per quanto già deciso dalla Suprema Corte a proposito del terzo motivo del ricorso di P.E., non poteva essere oggetto di esame e di valutazione, sicchè si ritenne viziata la motivazione della sentenza d’appello n. 927/2005 ove essa aveva tratto elementi di convincimento da quella scrittura, e quindi a proposito: a) della vendita del terreno (mappale (OMISSIS)) in (OMISSIS) e di quello di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F. di cui all’atto S. del 14-12-1972; b) della donazione del denaro impiegato per la costruzione della villa bifamiliare di via (OMISSIS) in (OMISSIS); c) della vendita di terreno e sovrastante portico in (OMISSIS), atto S. del 21-7-1977; d) degli atti S. del 30-5-1978 e 20-10-1978 di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. e di cessione di quote della stessa da C. e P.D. a R. e P.F.. La sentenza della Corte d’appello n. 927/2005 fu perciò cassata “limitatamente alle statuizioni di rigetto della domanda proposta dall’attrice relativamente a tali atti”, disponendo che il giudice del rinvio provvedesse alla valutazione del materiale probatorio senza tenere conto della scrittura del 5 gennaio 1971. La sentenza di cassazione n. 11257/2011 disattese per contro le censure riguardanti i restanti atti di alienazione impugnati, non essendo stata fornita dall’attrice la necessaria prova della loro simulazione e quindi della loro gratuità.

P.R. riassunse allora il giudizio dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, individuato quale giudice di rinvio, e nel procedimento si costituirono anche P.F., la Due P s.n.c. ed P.E.. Con la sentenza, ora impugnata, n. 247/2013 del 22 gennaio 2013, la Corte d’Appello di Milano, rigettando l’impugnazione principale di P.E. ed accogliendo invece l’impugnazione incidentale di P.R., P.F. e Due P s.n.c., respinse tutte le domande di P.E., condannando quest’ultima a rimborsare agli appellati le spese dei gradi di merito ed invece compensando tra le parti le spese del giudizio di legittimità. La Corte d’Appello di Milano, in sede di rinvio, dapprima disattese l’eccezione di nullità, sollevata da P.E., in ordine all’atto di citazione in riassunzione spiegato da P.R., quanto alla mancata determinazione dell’oggetto e delle ragioni di fatto e di diritto delle domande, ritenendo sufficiente anche il rinvio per relationem ai precedenti atti del giudizio. I giudici del rinvio hanno affermato che, pur prescindendosi dall’utilizzabilità della scrittura del 1971, le ulteriori evidenze istruttorie confermassero l’infondatezza delle pretese di P.E., e ciò:

1) quanto all’atto S. del 14-12-1972, avente a oggetto la vendita del terreno (mappale (OMISSIS)) in (OMISSIS) dai fratelli comproprietari P.C. e P.D. ai rispettivi figli P.R. e P.F., per quote indivise, contro un prezzo di Lire 1.600.000, nonchè alla vendita del terreno di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F., per il prezzo di Lire 2.700.000: perchè C. e D. dovevano presumersi comproprietari – e quindi alienanti – in pari quota del terreno (mappale (OMISSIS)); perchè gli interrogatori di R. e F. non avrebbero convalidato un’ammissione di gratuità sia quanto al trasferimento del mappale (OMISSIS), che quanto alla provvista del denaro utilizzato per l’acquisto del mappale (OMISSIS), avendo gli stessi, anzi, dato conto delle proprie disponibilità finanziarie; perchè i testi P.R. e P.G. non avevano saputo riferire alcunchè quanto ai corrispettivi pagati per le due operazioni di acquisto, mentre il teste B. aveva riferito di sapere che il prezzo del terreno era stato pagato con utili della società F.lli P., ed i testi A. e M.E., marito e figlia di P.E., risultavano inattendibili;

2) quanto alla assunta donazione di denaro da C. e D. a R. e F. per la costruzione della villa bifamiliare di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), perchè, come si legge nella sentenza n. 247/2013 della Corte di Milano, i testi M., B., C., C. e M. avevano riferito di essere stati pagati da R., mentre i testi B., F., R. e P.G. avevano narrato del ruolo operativo assunto da R. e F. nell’azienda familiare sin dal 1971, della loro partecipazione agli utili derivanti e dell’investimento in BOT;

3) quanto alla vendita di terreno e sovrastante portico in (OMISSIS) – atto S. del 21-7-1977 -, della quale E. sosteneva la natura simulata per il mancato versamento del relativo prezzo, perchè, evidenzia sempre la sentenza dei giudici di rinvio, vi era carenza di ogni ammissione in proposito negli interrogatori di R. e P.F., e risultavano inconsistenti le considerazioni dell’attrice sulla incapienza economica dei due;

d) quanto agli atti S. del 30-5-1978 e 20-10-1978 di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. (previa costituzione di un capitale sociale di 150 milioni di Lire ed attribuzione a R. e F. di quote pari ad un sesto ciascuno) e di cessione di quote della stessa da C. e P.D. a R. e P.F. (per complessivi 100 milioni di Lire): perchè gli interrogatori resi da R. e F. non avevano confermato affatto che i due non avessero versato il denaro dapprima occorso per l’iniziale loro partecipazione sociale e poi per rilevare le quote C. e D., avendo, anzi, R. dichiarato di aver versato in società 50 milioni di Lire pari al controvalore di BOT cointestati ai due cugini e comprati con gli utili dell’impresa di famiglia.

La ricorrente ha presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso di P.E., che si sviluppa da pagina 69 a pagina 95, denuncia l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. sull’eccezione relativa alla mancanza nell’atto di citazione in riassunzione del requisito prescritto dall’art. 125 disp. att. c.p.c., comma 1, n. 2 e dagli artt. 392 e 394 c.p.c. (nome dei difensori con procura con riferimento a P.F. ed alla Due P s.n.c., già rappresentati dall’avvocato R.R.).

1.1. Pur verificata l’omessa pronuncia su detta eccezione, alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., va qui esaminato il merito della stessa eccezione, la quale risulta del tutto infondata, il che rende comunque inutile il ritorno della causa in fase di merito.

E’ vero, infatti, che l’art. 125 disp. att. c.p.c., n. 2 prescrive che l’atto di riassunzione contenga il nome (non solo delle parti, ma anche quello) dei loro difensori con procura, senza, peraltro, esigere il conferimento di un nuovo e specifico mandato, sicchè, per la riassunzione del giudizio in sede di rinvio, a seguito della cassazione della sentenza di appello, è sufficiente la procura inizialmente conferita, ove essa, in mancanza di limitazioni, debba ritenersi operante per tutti i gradi e le fasi del giudizio di merito, nel quale s’inserisce il giudizio di rinvio (Cass. Sez. L, 08/08/1991, n. 8650). E’ tuttavia certamente da ritenere che la nullità dell’atto di riassunzione, che non rechi l’indicazione dei difensori con procura, rimanga sanata per effetto della costituzione in giudizio della parte interessata, peraltro, nella specie, intervenuta proprio col patrocinio del medesimo difensore, risultando, invero, P.F. e la Due P s.n.c. comparsi nel giudizio di rinvio e rappresentati dall’avvocato R.R..

2. Il secondo motivo del ricorso di P.E., che si sviluppa da pagina 95 a pagina 101, rappresenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 125 disp. att. c.p.c., comma 1, nn. 1 e 3 e degli artt. 392 e 394 c.p.c., art. 163 c.p.c., commi 3 e 4 e art. 342 c.p.c., in quanto l’atto di riassunzione di P.R. mancava del richiamo all’atto di appello, come anche della determinazione dell’oggetto delle domande e delle ragioni di fatto e di diritto a loro sostegno. Alla nullità dell’atto di riassunzione avrebbe fatto seguito l’estinzione del processo.

2.1. Questo motivo è infondato perchè, come anche ricordato dalla Corte d’Appello di Milano, la riassunzione di una causa davanti al giudice di rinvio, – a norma dell’art. 125 disp. att. c.p.c. in relazione agli artt. 392 e 394 c.p.c. – non dà luogo ad un nuovo procedimento ma ad un giudizio che si configura ..” come prosecuzione dei precedenti gradi di merito, restando perciò escluso, ai sensi delle stesse norme, che, ai fini della validità dell’atto riassuntivo (il quale opera come mero strumento di impulso processuale volto a riattivare la prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata), sia richiesta una specifica indicazione del petitum e della causa petendi, ovvero una integrale o testuale riproduzione di domande, eccezioni e conclusioni, ed essendo invece sufficiente, a detti fini, che in tale atto siano richiamati l’atto introduttivo del giudizio (ovvero, l’atto di citazione del 9.10.1997, che risulta richiamato a pagina 1 della citazione in riassunzione di P.R.) ed il contenuto del provvedimento in base al quale avviene la riassunzione (la sentenza n. 11257/2011 della Corte di Cassazione, che risulta richiamata a pagina 5 dell’atto di riassunzione) (cfr. indicativamente Cass. Sez. 1, 30/10/2014, n. 23073; Cass. Sez. 3, 02/02/2007, n. 2309; Cass. Sez. 5, 01/10/2003, n. 14616; Cass. Sez. L, 29/05/1985, n. 3257).

3. Tutti i motivi che vanno da pagina 101 a pagina 156 di ricorso si riferiscono all’atto S. del 14-12-1972, avente a oggetto la vendita del terreno (mappale (OMISSIS)) in (OMISSIS) dai comproprietari P.C. e P.D. ai figli P.R. e P.F., nonchè la vendita del terreno di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F..

Si censura al riguardo:

3.a. Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, per essersi il giudice di rinvio limitato a trascrivere la motivazione della sentenza cassata;

3.b. Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 394 c.p.c., essendosi il giudice di rinvio limitato a riesaminare la motivazione della sentenza n. 927/2005;

3.c. Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., art. 189 c.p.c., comma 1 e art. 359 c.p.c. e art. 394 c.p.c., comma 1, per non aver riproposto P.R. nell’atto di citazione in riassunzione davanti al giudice di rinvio la specifica domanda formulata nell’appello incidentale in relazione all’acquisto del terreno in (OMISSIS).

3.d. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto all’effettiva spettanza a P.R. e P.F. degli utili riferiti all’anno 1972 della società Figli di P.L., essendo desumibile da una certificazione camerale prodotta che gli stessi utili appartenessero, piuttosto, a C. e P.D..

3.e. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto all’inattendibilità dei testi B., F., R. e P.G., in forza di rapporti lavorativi (i primi due) o di parentela (le ultime due) intercorrenti con R. e P.F..

3.f. Violazione o falsa applicazione degli artt. 2697,2730,2733 e 2734 c.c., nonchè degli artt. 115,116,228 e 230 c.p.c., circa gli esiti dell’interrogatorio formale di P.R. con riguardo alle vicende dell’acquisto dei mappali nn. (OMISSIS), avendo l’interrogato ammesso che il versamento al venditore M. era stato fatto da D. e P.C., seppur aggiungendo che ciò fosse avvenuto con soldi dello stesso R. e del cugino F..

3.g. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo ad una pluralità di circostanze che avrebbero giustificato il ricorso a presunzioni (vincolo di parentela, anticipato pagamento del prezzo rispetto al contratto, liquidità finanziaria di D. e C., dichiarazioni di P.R., pratica edilizia n. (OMISSIS)).

3.h. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa il valore di mercato dei terreni contraddistinti dai mappali nn. (OMISSIS), essendo inadeguato il corrispettivo determinato per il primo terreno nell’atto S. del 14-12-1972, sicchè esso dissimulerebbe una liberalità per la parte eccedente il valore del prezzo, mentre l’operazione relativa al secondo terreno avrebbe dato luogo ad una donazione indiretta dell’immobile, e non ad una donazione indiretta del denaro.

3.1. Tutti i motivi che vanno da pagina 101 a pagina 156 di ricorso e riferiti alla vendita del mappale (OMISSIS) in (OMISSIS), nonchè la vendita del mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F., vanno esaminati congiuntamente, perchè connessi, e si rivelano infondati.

Come visto, la sentenza di cassazione n. 11257 del 20 maggio 2011 accolse il ricorso di P.E. quanto al terzo motivo, per violazione di legge e vizio di motivazione (in quanto la sentenza n. 927/2005 della Corte d’Appello di Milano aveva erroneamente ritenuto ammissibile la produzione in grado di appello dell’originale della scrittura del 5 gennaio 1971 senza verificare i presupposti previsti dall’art. 345 c.p.c.) ed al quinto motivo, sempre per violazione e falsa applicazione di legge e vizio di motivazione (circa la valutazione delle prove, con riferimento ad alcuni degli atti compiuti da P.R. e P.F., oggetto dell’azione di riduzione, la cui gratuità era stata esclusa sulla base della inutilizzabile scrittura del 5 gennaio 1971, la quale, documentando un contratto di associazione in compartecipazione stipulato da R. e F. con C. e P.D., avrebbe dato riscontro alla deduzione della disponibilità di risorse finanziarie da parte dei due cugini). Con riguardo alla vendita del mappale (OMISSIS) in (OMISSIS) e di quello di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F.; alla donazione del denaro impiegato per la costruzione della villa bifamiliare di via (OMISSIS); alla vendita di terreno e sovrastante portico in (OMISSIS); agli atti di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. e di cessione di quote sociali da C. e P.D. a R. e P.F., la Corte di Cassazione dispose quindi che il giudice del rinvio provvedesse a nuova valutazione del materiale probatorio senza tener più conto del contratto del 5 gennaio 1971.

La Corte d’Appello di Milano ha affermato in premessa che, pur prescindendosi dall’utilizzabilità della scrittura del 1971, le ulteriori risultanze confermassero l’infondatezza delle domande di P.E.. Quanto in particolare all’atto per notaio S. del 14-12-1972, avente a oggetto la vendita del terreno (mappale (OMISSIS)fg. 51) in (OMISSIS) dai fratelli comproprietari P.C. e P.D. ai loro figli R. e F., nonchè alla vendita del terreno di cui al mappale (OMISSIS) da M.C. a R. e P.F., la Corte d’Appello di Milano, giudice di rinvio, ha negato che gli interrogatori di R. e F. contenessero un’ammissione di gratuità. In particolare, evidenzia l’impugnata sentenza, R. aveva soltanto riconosciuto l’avvenuto trasferimento in proprietà del mappale (OMISSIS) e il materiale versamento del denaro operato da C. e D. per il mappale (OMISSIS), ed invece spiegato l’origine dei propri redditi e le modalità di investimento in BOT; quanto alle prove testimoniali, P.R. e P.G. non avevano saputo riferire alcunchè quanto ai corrispettivi pagati per i due acquisti, mentre il testimone B. aveva dichiarato di aver appreso da C. e D. che il prezzo del terreno era stato pagato con utili della società F.lli P.. I giudici di rinvio hanno poi sottolineato le ragioni di inattendibilità dei testi A. ed Elena Mapelli, marito e figlia di P.E..

La sentenza n. 247/2013 della Corte d’Appello di Milano risulta allora rispettosa dei limiti posti al giudice di rinvio, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dalla sentenza rescindente di questa Corte n. 11257 del 20 maggio 2011. Quando, invero, come nel caso in esame, la sentenza di cassazione abbia accolto il ricorso sia per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che per vizi di motivazione, la “potestas iudicandi” del giudice di rinvio, oltre a tener conto, a norma dell’art. 384 c.p.c., commi 1 e 2, del principio enunciato e comunque di quanto statuito dalla Corte (non in via meramente astratta, ma agli effetti della concreta decisione della lite), può certamente comportare altresì la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè estrinsecarsi nella valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione, sia pur sempre nel rispetto delle decadenze e preclusioni pregresse (Cass. Sez. 2, 27/02/2017, n. 4946; Cass. Sez. 1, 07/08/2014, n. 17790; Cass. Sez. L, 27/08/2007, n. 18087; Cass. Sez. L, 6/04/2004, n. 6707; Cass. Sez. 3, 18/06/2003, n. 9690).

Nella specie, la Corte d’Appello di Milano, dando esecuzione nel giudizio di rinvio alle direttive espresse dalla sentenza della Corte di cassazione, correttamente ha rimesso in discussione soltanto i punti decisivi della sentenza cassata n. 927/2005 inficiati dall’utilizzazione della scrittura contrattuale del 1971, procedendo ad una nuova valutazione delle restanti risultanze istruttorie (e quindi delle relative circostanze di fatto) già acquisite, ritenendo non necessaria l’acquisizione di altri elementi per definire i contorni della fattispecie concreta, con procedimento logico certamente compreso nell’ambito del libero riesame affidato al giudice del rinvio.

Non sussiste la lamentata nullità per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, in quanto la sentenza dei giudici di rinvio contiene le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere, in modo chiaro, univoco ed esaustivo, le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione.

Non è neppure ravvisabile l’invocata violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, quanto al contenuto della citazione in riassunzione di P.R. che non avrebbe riproposto al giudice di rinvio il profilo dell’appello incidentale specificamente relativo ai terreni in (OMISSIS). Per quanto già detto a proposito del secondo motivo di ricorso, infatti, nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale assunta nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza annullata, ed ogni riferimento a domande ed eccezioni pregresse, nonchè, in genere, alle difese svolte, ha l’effetto di richiamare univocamente ed integralmente domande, eccezioni e difese già spiegate nel giudizio originario, sicchè non è indispensabile che in esso siano riprodotte tutte le domande della parte in modo specifico, ma è sufficiente che sia richiamato l’atto introduttivo in base al quale sia determinabile quanto resta devoluto al giudice del rinvio. Ne consegue che il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione quando abbia pronunciato su tutta la domanda proposta nel giudizio in cui fu emessa la sentenza annullata, e non sulle sole diverse conclusioni formulate con l’atto di riassunzione, atteso che, a seguito della riassunzione, prosegue il processo originario (Cass. Sez. 1, 30/10/2014, n. 23073). Nel caso in esame, P.R., con l’atto di riassunzione, richiamò le domande di P.E. svolte nella citazione del 9 ottobre 1997, nonchè le difese contenute nella comparsa di costituzione e nel proprio appello incidentale, per poi concludere affinchè venissero respinte “tutte le domande proposte da P.E. perchè infondate per i motivi già precisati nei precedenti atti difensivi, che qui si richiamano integralmente”.

Quanto alle censure riferite al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, occorre premettere che, poichè la sentenza di rinvio qui impugnata è stata pubblicata il 22 gennaio 2013, trova applicazione la formulazione di tale norma introdotta della L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 54, comma 1, lett. b) di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (Cass. Sez. 6 – 3, 18/12/2014, n. 26654). L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente, come interpretato da Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053, si riferisce tuttavia soltanto all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Il nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dunque, riduce l’ambito del sindacato di legittimità ai “fatti”, ovvero ai dati materiali, agli episodi fenomenici rilevanti ed alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio.

Se spettassero, o meno, a R. e P.F. gli utili riferiti all’anno 1972 della società Figli di P.L., come pure l’attendibilità dei testimoni B., F., R. e P.G., alla luce dei loro rapporti con le parti, o le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale da P.R., o, ancora, i vincoli di parentela a monte delle vicende negoziali oggetto di lite, l’epoca di pagamento del prezzo, le condizioni economico-finanziarie di D. e P.C., l’interrogatorio di P.R., l’avvio della pratica edilizia n. (OMISSIS), il confronto dei valori di mercato dei mappali nn. (OMISSIS) con i corrispettivi contrattuali, la provvista necessaria per far fronte al pagamento del prezzo; tutti questi rappresentano “fatti” presi in considerazione nella sentenza di rinvio (seppur valutati in modo difforme rispetto a quelle che erano le aspettative di P.E.), oppure circostanze non decisive (nel senso che, sebbene esaminate, non avrebbero con certezza determinato un esito diverso della controversia); nè possono ricondursi al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le critiche alle valutazioni ed agli apprezzamenti di fatto compiuti dalla Corte d’Appello di Milano, ivi compresa la maggiore o minore attendibilità dei testi, l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, l’esame dei documenti esibiti, la valutazione delle risultanze degli interrogatori, limitandosi la ricorrente a professare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di rinvio circa il rilievo da attribuire ad alcuni elementi indiziari.

Quanto in particolare all’esito degli interrogatori formali di R. e P.F., è noto come le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio formale costituiscano confessione giudiziale soltanto se, sotto il profilo soggettivo, ricorre l’animus confitendi, consistente nella consapevolezza e volontà di riconoscere un fatto a sè sfavorevole e vantaggioso per l’altra parte, dovendo altresì la certezza in ordine al verificarsi di detto fatto ricavarsi esclusivamente da siffatte dichiarazioni, senza necessità di un qualsiasi ulteriore conforto probatorio. Ove invece, come avvenuto nella specie, l’interrogato non renda piena e formale confessione sui fatti obiettivi a sè sfavorevoli, l’efficacia probatoria delle sue dichiarazioni rimane soggetta al libero apprezzamento del giudice, il quale ben può saggiarne la consistenza alla luce e nel necessario coordinamento con altri elementi del complesso probatorio, senza che l’omissione di una esplicita valutazione delle risultanze dell’interrogatorio stesso possa più costituire vizio di omesso esame di un fatto decisivo della controversia, perchè le circostanze non possono considerarsi legalmente provate.

Certamente, infine, l’erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di vendite fatte dal de cuius, perchè dirette, a suo dire, a dissimulare donazioni, ovvero chieda di accertare l’esistenza di donazioni indirette consistenti nell’acquisto di immobili in favore di un soggetto, con denaro fornito dal de cuius ad un terzo per spirito di liberalità, proponendo contestualmente una domanda di riduzione delle medesime donazioni dissimulate o indirette, è tenuto a darne prova, anche mediante testimoni o per presunzioni. Spetta poi al giudice del merito apprezzare l’efficacia sintomatica dei fatti emersi nelle prove raccolte e valutarli non solo analiticamente, ma anche nella loro globalità, come apprezzare l’opportunità di fondare la decisione su elementi presuntivi, all’esito di un giudizio di sintesi, che è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo se non sia stato preso in considerazione un fatto storico, e non per l’omesso esame di uno o alcuni elementi istruttori, non dovendo la sentenza dare conto di tutte le risultanze probatorie, discutere ogni singolo elemento o confutare tutte le deduzioni difensive, e dovendo, anzi, ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

4. Tutti i motivi che vanno da pagina 156 a pagina 217 di ricorso si riferiscono alla costruzione della villa bifamiliare di Via (OMISSIS) in (OMISSIS).

Si censura al riguardo:

4.a.Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, per essersi il giudice di rinvio limitato a trascrivere la motivazione della sentenza cassata;

4.b.Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 394 c.p.c., essendosi il giudice di rinvio limitato a riesaminare la motivazione della sentenza n. 927/2005;

4.c. Nullità della sentenza per l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. sui motivi di appello relativi alla provenienza ed alla sottoscrizione dei titoli ricevuti in pagamento dalle imprese costruttrici, ai tempi di pagamento alle stesse, al mancato accertamento dell’importo corrisposto alle imprese ed al “contributo economico” di P.R.. Questo motivo si sviluppa da pagina 164 a pagina 198 di ricorso e ripercorre tutte le deduzioni istruttorie e le allegazioni che P.E. aveva avanzato in corso di causa per dimostrare che P.R., all’epoca di costruzione dell’immobile di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), stante il valore di mercato dello stesso, non avesse ancora una condizione economica tale da sostenere i relativi costi senza l’aiuto del genitore.

4.d. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla spettanza a P.R. e P.F. degli utili riferiti agli anni 1973 e 1974 della società di fatto F.lli P., alla luce dell’allegata certificazione della camera di Commercio e delle deposizioni testimoniali.

4.e. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto ai rapporti di lavoro o di parentela dei testi B., F., R. e P.G. intercorrenti con R. e P.F..

4.f. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo ai costi di costruzione della villa bifamiliare.

4.1. Tutti i motivi che vanno da pagina 156 a pagina 217 di ricorso, inerenti la costruzione della villa bifamiliare di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), che P.E. asserisce essere avvenuta con denaro di C. e P.D., vanno esaminati congiuntamente, perchè connessi, e si rivelano infondati per ragioni di diritto analoghe a quelle già esplicitate a proposito degli omologhi precedenti motivi di ricorso che si riferivano alle vendite dei mappati (OMISSIS), fg. 51 in (OMISSIS).

In ordine all’ipotizzata donazione di denaro da C. e D. a R. e P.F. per la costruzione della villa bifamiliare di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), la sentenza n. 247/2013 della Corte di Milano ha spiegato che i testi M., B., C., C. e M. avevano dichiarato di aver trattato con R. e di essere stati pagati dallo stesso, mentre i testi B., F., R. e P.G. avevano deposto sull’esistenza di un rapporto di collaborazione svolto da R. e F. nell’azienda familiare sin dal 1971, sulla conseguente loro partecipazione agli utili d’impresa e sull’investimento degli stessi in BOT.

Va così ribadito che la sentenza n. 247/2013 della Corte d’Appello di Milano ha deciso nei limiti posti al giudice di rinvio, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dalla sentenza di cassazione n. 11257 del 20 maggio 2011, pervenendo ad una valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, senza peraltro ritenere necessaria l’acquisizione di altri elementi probatori.

Non vi è dunque nullità per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., perchè la sentenza esprime le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione.

Quanto in particolare all’ipotizzato vizio di omessa pronuncia, esso ricorre soltanto ove manchi qualsivoglia statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, così dando luogo all’inesistenza di una decisione sul punto della controversia, per la mancanza di un provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto (si veda, tra le tante, da ultimo Cass. Sez. 1, 23/03/2017, n. 7472), mentre non può ravvisarsi violazione dell’art. 112 c.p.c. ove, come fa la ricorrente, si denunci l’omesso esame di elementi di prova, o la mancata ammissione di deduzioni istruttorie o di una consulenza tecnica d’ufficio, da parte del giudice di appello o, come nella specie, del giudice di rinvio. Tali istanze, la cui ammissibilità va valutata ai sensi, rispettivamente, dell’art. 345 c.p.c. e dell’art. 395c.p.c., non impongono nemmeno al giudice di appello o di rinvio un obbligo di pronuncia espressa, sicchè l’omessa statuizione al riguardo non dà luogo al vizio di cui all’art. 112 c.p.c., potendo, semmai, sussistere solo un vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sempre che il fatto storico, che le deduzioni istruttorie disattese intendevano dimostrare, si rivelasse decisivo per le sorti della lite e non già comunque preso in considerazione dal giudice.

Anche per le censure riferite al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vale quanto detto in precedenza, giacchè la ricorrente per il loro tramite intende affidare alla Corte di cassazione un nuovo giudizio di merito, invitando la stessa Corte a porre a fondamento della propria decisione risultanze probatorie diverse o ulteriori rispetto a quelle assunte dai giudici di rinvio. Tanto meno a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, operata dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, tale motivo di ricorso per cassazione può sostanziarsi in una difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, non essendo conferito alla Corte di legittimità alcun potere di riesaminare e valutare autonomamente in qual modo lo stesso giudice di merito abbia individuato le fonti del proprio convincimento, apprezzato le prove, controllato l’attendibilità e la concludenza dei testi, scelto tra le emergenze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, ovvero dato prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova.

Verificare se vi sia stata una donazione diretta di denaro, successivamente impiegato dal beneficiario nella costruzione di un immobile, oppure se vi sia stata una dazione di denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine della costruzione dell’immobile stesso, mediante, ad esempio, pagamento diretto del prezzo all’appaltatore, richiede comunque un accertamento di fatto circa l’elargizione del denaro, o anche circa il collegamento tra la dazione del denaro e la costruzione. Nè opera alcuna presunzione di liberalità dal genitore al figlio per il sol fatto che il medesimo figlio, committente della costruzione di un immobile di pur notevole valore, non abbia dato prova della disponibilità, in data anteriore o coeva all’appalto, di una somma corrispondente al prezzo dell’opera e dell’impiego effettivo di tale somma nel pagamento del prezzo.

V. Tutti i motivi che vanno da pagina 217 a pagina 239 di ricorso si riferiscono alla vendita di terreno e sovrastante portico in via (OMISSIS), atto notaio S. del 21-7-1977.

Si censura al riguardo:

5.a.Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1;

5.b.Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 394 c.p.c.;

5.c. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla spettanza a P.R. e P.F. degli utili riferiti all’anno 1977 della società di fatto F.lli P.;

5.d. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2730 e 2733,2697,2727,2729 e 1417 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver i giudici di rinvio escluso l’incapienza economica di R. e P.F., e per non aver tratto prova della gratuità dell’atto dalle dichiarazioni rese dai due in sede di interrogatorio circa la “decisione di trasferire” o “di vendere” il terreno di (OMISSIS), presa dai due cugini insieme ai rispettivi genitori.

5.e. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto al valore di mercato del terreno contraddistinto al mappale (OMISSIS).

5.1. Tutti i motivi che vanno da pagina 217 a pagina 239, relativi alla vendita di terreno e sovrastante portico in via (OMISSIS), del 21-7-1977, possono essere trattati congiuntamente per la loro logica connessione, e si rivelano sempre infondati per ragioni di diritto analoghe a quelle già esplicitate a proposito degli omologhi precedenti gruppi di motivi di ricorso.

La sentenza n. 247/2013 della Corte di appello di Milano, con riguardo alla vendita di terreno e sovrastante portico in (OMISSIS), per atto notaio S. del 21-7-1977, ha respinto la domanda di simulazione di P.E., che affermava il mancato versamento del relativo prezzo, avendo P.R., nel suo interrogatorio, solo riferito di non ricordare se avesse pagato un prezzo per l’acquisto del terreno, e non valendo confessione l’ammissione circa la decisione congiunta presa dai due cugini coi rispettivi padri. La sentenza di rinvio ha indicato come nessun teste, tranne gli inattendibili testimoni M., avessero deposto su questa operazione, ed ha aggiunto come difettasse un riscontro probatorio sulla incapienza economica di R. e F., i quali, piuttosto, col passare del tempo, dovevano aver pure rafforzato le loro posizioni nell’azienda di famiglia e quindi migliorato le loro potenzialità economiche.

Si devono ancora una volta dire rispettate dalla sentenza n. 247/2013 della Corte d’Appello di Milano le direttive imposte al giudice di rinvio dalla sentenza di cassazione n. 11257 del 2011. Non sussiste alcuna carenza espressiva delle ragioni della decisione. I fatti di cui si denuncia l’omesso esame non appaiono decisivi, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè la Corte di Milano doveva dar contro in motivazione di tutte le risultanze probatorie o giustificare il mancato ricorso al ragionamento presuntivo. Non trova ragione una presunzione di liberalità proveniente dal genitore, la cui mancata applicazione infici la legittimità della decisione dei giudici di rinvio, fondata sul dato – peraltro asserito e non dimostrato – che R. e F. non disponessero di liquidità corrispondenti al prezzo di acquisto del terreno. In assenza di confessione, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio formale è poi comunque soggetta al libero apprezzamento del giudice, il quale ben può ponderarne la consistenza alla luce e nel necessario coordinamento con altri elementi del complesso probatorio (Cass. Sez. 3, 08/05/2006, n. 10494; Cass. Sez. 2, 15/09/1999, n. 9840). Viene infine denunziata la violazione e falsa applicazione di molteplici norme di diritto sostanziali e processuali, senza peraltro che la ricorrente svolga specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con ciascuna delle disposizioni indicate quali norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. In realtà le censure, pur impropriamente riferite al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, intendono lamentare non un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata dalle citate norme di legge, quanto un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediata dalle risultanze di causa, la quale inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, e la cui censura è perciò possibile, in sede di legittimità, nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6. Tutti i motivi che vanno da pagina 239 a pagina 266 di ricorso si riferiscono agli atti per notaio S. del 30-5-1978 e 20-10-1978 di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. e di cessione di quote della stessa società da C. e P.D. a R. e P.F..

Si censura al riguardo:

6.a.Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1.

6.b.Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 394 c.p.c..

6.c. Nullità della sentenza per violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., art. 189 c.p.c., comma 1, art. 277 c.p.c., comma 1, art. 359 c.p.c. e art. 394 c.p.c., comma 1, per non aver riproposto P.R. nell’atto di citazione in riassunzione davanti al giudice di rinvio la specifica domanda formulata nell’appello incidentale in relazione agli atti del 30-5-1978 e 20-10-1978 inerenti la regolarizzazione della società di fatto e poi la cessione di quote sociali.

6.d. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla spettanza a P.R. e P.F. degli utili del periodo 1975 – maggio/ottobre 1978 pertinenti alla società di fatto F.lli P./Ditta Fratelli P. di C. e P.D. s.n.c..

6.e. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2730,2733 e 2734 c.c. e degli artt. 115 e 116,228 e 230 c.p.c., circa le risposte rese da R. e P.F. negli interrogatori formali

6.f. Omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo ai valori di mercato delle quote della F.lli P. s.n.c..

6.1.Tutti i motivi che vanno da pagina 239 a pagina 266 di ricorso, aventi ad oggetto gli atti di regolarizzazione della società di fatto in s.n.c. e di cessione di quote sociali da C. e P.D. a R. e P.F., possono essere esaminati congiuntamente perchè connessi, risultando infondati per ragioni di diritto ancora analoghe a quelle già spiegate per gli omologhi precedenti gruppi di motivi di ricorso. La sentenza n. 247/2013 della Corte di appello di Milano ha argomentato che con gli atti S. del 30-5-1978 e del 20-101978 era stata dapprima regolarizzata la società di fatto in s.n.c. (con la costituzione di un capitale sociale di 150 milioni di Lire e l’attribuzione a R. e F. di quote pari ad un sesto ciascuno) e poi erano state cedute le quote della stessa società da C. e P.D. a R. e P.F. (per complessivi 100 milioni di Lire). I giudici di rinvio hanno poi affermato che mancasse prova del mancato versamento dell’aumento di capitale da parte di R., come anche della mancata corresponsione del prezzo di vendita delle quote da R. a C.. Ciò sempre perchè gli interrogatori resi da R. e F. non avevano confermato affatto che i due non avessero versato il denaro occorso dapprima per l’iniziale loro partecipazione sociale e poi per rilevare le quote da C. e D., avendo anzi R. dichiarato di aver versato in società 50 milioni di Lire pari al controvalore di BOT cointestati ai due cugini e comprati con gli utili dell’impresa di famiglia.

La sentenza n. 247/2013 della Corte d’Appello di Milano ha così assolto all’obbligo di riesame dei fatti commessole dalla sentenza di cassazione n. 11257 del 2011. Sono esplicitate le ragioni della decisione. Non sussiste alcun omesso esame di “fatti” storici decisivi, idonei cioè, ove esaminati, a condurre con certezza ad una diversa decisione, insistendo la ricorrente per la valutazione di risultanze probatorie e dati indiziari che non sono stati, invece, condivisi in fatto dai giudici di rinvio. Non ricorre alcuna presunzione di liberalità che possa indurre a considerare malamente distribuito il carico probatorio della simulazione nella sentenza impugnata. Non è sindacabile in cassazione per violazione di legge l’esito delle dichiarazioni non confessorie rese dalla parte in sede di interrogatorio formale.

7. A pagina 266 di ricorso, P.E. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., avendo la sentenza n. 247/2013 della Corte d’Appello di Milano dichiarato inammissibili, in quanto tardive, le produzioni documentali da 3 a 23, giacchè costituenti documenti nuovi e diversi rispetto a quelli prodotti in primo grado. Assume la ricorrente che tali documenti erano stati da lei prodotti con l’atto di appello del 14 ottobre 2002, e tale produzione era stata dichiarata ammissibile nella sentenza n. 927/2005 della Corte d’Appello, trattandosi di prove precostituite. Sull’ammissibilità di tale produzione documentale si era quindi, a dire della ricorrente, formato ormai il giudicato interno, non avendo P.R., P.F. e la Due P s.n.c. proposto al riguardo ricorso incidentale.

7.1. Questo motivo, in quanto riferito a violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., è infondato, costituendo comunque la denunzia di violazione di legge proposta all’esame della Corte di Cassazione, con riferimento alle indicate disposizioni, un limite che impedisce di procedere ad accertamenti al di fuori delle censure proposte.

Vale, invero, il principio generale per cui, nel giudizio di rinvio, caratterizzato dall’essere un processo “chiuso”, tendente ad una nuova pronuncia in sostituzione di quella cassata, per effetto del principio di preclusione delle questioni che avrebbero dovuto essere prospettate o rilevate di ufficio dalla Cassazione, deve ritenersi inibito alle parti, al giudice di rinvio ed allo stesso giudice di legittimità, eventualmente investito dopo il rinvio, di porre per la prima volta in discussione l’ammissibilità di prove che siano state già acquisite nel giudizio di primo grado o di appello, ciò determinando violazione dell’art. 394 c.p.c.. Tale vizio è tuttavia denunciato dalla ricorrente come violazione di un giudicato interno, indicando a parametro l’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., e in ciò sta l’infondatezza della censura, in quanto la sentenza dell’il aprile 2005 della Corte di Appello di Milano aveva respinto tutte le domande proposte da P.E. dei confronti di P.R., P.F. e della s.n.c. Due P di P.F. & C. La parte totalmente vittoriosa in appello non ha, infatti, interesse a proporre ricorso incidentale per cassazione, sia pur condizionato (e non incorre, quindi, in nessun giudicato preclusivo, come invece supposto dalla ricorrente), per lamentare l’ammissione dei mezzi di prova proposti dalla controparte e che si siano poi comunque rivelati superflui, ovvero inutili, al fine dell’accoglimento delle domande o delle eccezioni avverse.

8. Il motivo posto a pagina 277 del ricorso di P.E. attiene alle domande formulate da P.F. e dalla Due P s.n.c. nel giudizio di rinvio, denunciando al riguardo violazione o falsa applicazione degli artt. 112,345 e 394 c.p.c.. La censura allega che P.F. e dalla Due P s.n.c. avessero richiesto nella comparsa di costituzione in sede di rinvio di accogliersi l’appello incidentale sulla compensazione delle spese di primo grado con condanna della sola P.E. a rifondere ai convenuti P.F. e Due P s.n.c. le medesime spese, mentre le conclusioni di appello erano state nel senso di condannare P.E., P.R., P.M., G.O. e G.F. a rimborsare le spese al solo P.F.. Si assume dalla ricorrente che, avendo così P.F. e Due P s.n.c. rinunciato in sede di rinvio all’appello incidentale per ottenere la condanna alle spese processuali anche di P.R., P.M., G.O. e G.F., ne risultasse aggravata la sua posizione, essendo lei chiamata a rimborsare pure le spese cagionate dal comportamento processuale degli altri convenuti che comunque si erano costituiti nel giudizio di primo grado.

Il motivo formulato a pagina 287 del ricorso denuncia l’omesso esame, in sede di liquidazione delle spese processuali, dell’interesse alla causa di P.R., P.M., G.O. e G.F. e della successiva parziale rinuncia all’appello incidentale da parte di P.F. e della s.n.c. Due P.

8.1. I motivi di pagina 277 e 287 di ricorso sono da trattare congiuntamente perchè connessi e sono del tutto infondati.

Come espone lo stesso ricorso a pagina 28 e 29, avverso la sentenza del Tribunale di Monza n. 2604/2001 del 2 novembre 2001 proposero impugnazione incidentale sia P.F. che la s.n.c. Due P di P.F. & C., chiedendo la riforma della decisione di primo grado sia con il rigetto di tutte le domande dell’attrice, sia con la condanna della stessa, in solido o in alternativa con P.R., P.M., G.O. e G.F., al pagamento delle spese. L’atto di costituzione di P.F. e della s.n.c. Due P nel procedimento dinanzi al giudice del rinvio, per quanto sopra già illustrato con riferimento ai limiti ed ai contenuti di tale procedimento, non poteva quindi che esplicitare la volontà degli stessi di ottenere la pronuncia di merito favorevole, sulla base delle domande che si erano già formate e definite nel giudizio di primo grado e di appello, in quanto in sede di rinvio non sono ammissibili domande nuove, mentre sono consentite le sole conclusioni diverse eventualmente necessitate dalla sentenza di cassazione (art. 394 c.p.c., comma 3). E’ d’altro canto irrilevante stabilire quale fossero le conclusioni in punto di spese dell’appello incidentale e della comparsa di costituzione nel giudizio di rinvio, in quanto, poichè alla Corte d’Appello di Milano, giudice del rinvio, la causa era stata rimessa dalla Corte di cassazione anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, la Corte d’Appello doveva procedere alla regolamentazione delle stesse, indipendentemente dalle espresse richieste delle parti, in quanto la condanna al pagamento delle spese processuali costituisce una conseguenza legale della soccombenza ed alla relativa pronuncia il giudice provvede anche d’ufficio, a prescindere dalla domanda della parte vittoriosa. Ciò il giudice di rinvio doveva fare sulla base del principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato. Poichè, nella specie, la Corte d’Appello di Milano, nell’impugnata decisione, ha accolto un appello incidentale e cosi riformato la sentenza del Tribunale, essa era tenuta a provvedere sulle spese dell’intero giudizio, rinnovandone totalmente la regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite, in conseguenza di un apprezzamento unitario orientato dal criterio di soccombenza. Nè è comprensibile in qual senso P.E., unica attrice del processo iniziato nel 1997, possa lamentare l’aggravamento della sua soccombenza in punto di spese per la mancata condanna solidale o alternativa di P.R., P.M., G.O. e G.F.. Il principio della soccombenza, cui l’art. 91 c.p.c. collega il rimborso delle spese in favore della controparte (salvo l’esercizio del potere di compensarle, totalmente o parzialmente), trova fondamento nella sopportazione dell’onere relativo da parte del soggetto che, con le proprie domande o attraverso la resistenza a quelle altrui, abbia causato la lite. Nel giudizio con pluralità di parti, spetta al giudice di merito indagare, a tal fine, sulla posizione assunta da ciascuna di esse, in relazione alla quale non può ritenersi soccombente colui che, fra più convenuti, non abbia formulato alcuna opposizione alla domanda, anche se abbia fatto presente determinate esigenze (cfr. Cass. Sez. 3, 12/11/1993, n. 11195). La condanna solidale al pagamento delle spese processuali, del resto, auspicata da P.E., nei confronti di P.R., P.M., G.O. e G.F., avrebbe imposto la verifica di una indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, o quanto meno di una mera comunanza di interessi, desumibile anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi diretti a contrastare la pretesa avversaria, costituendo comunque una siffatta pronuncia esercizio di una facoltà discrezionale del giudice di merito. Opera, viceversa, un principio di personalità della condanna alla spese, nel senso che ciascuno dei più soccombenti, che non abbiano rivelato un “comune interesse” alla lite, è tenuto a rimborsare alla parte vittoriosa i soli oneri processuali che le abbia causato per aver resistito a pretese fondate, ovvero per aver avanzato pretese infondate.

9. A pagina 291 il ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 5, comma 4, circa la liquidazione operata dal giudice di rinvio di onorari e diritti del giudizio di primo grado all’avvocato Rossi Roberto, difensore di P.F. e della s.n.c. Due P, avendo la Corte d’Appello attribuito i distinti importi di Euro 8.935,21 in favore del primo e di Euro 9.121,13 in favore della seconda, pur avendo le stesse parti identica posizione processuale e risultando assistite dallo stesso difensore.

A pagina 303 il ricorso denuncia invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 5, comma 4, circa la liquidazione operata dal giudice di rinvio di onorari e diritti del giudizio di secondo grado all’avvocato Rossi Roberto, difensore di P.F. e della s.n.c. Due P, avendo la Corte d’Appello attribuito i distinti importi di Euro 9.160,21 in favore del primo, e di Euro 9.160,21 in favore della seconda, pur avendo le stesse parti identica posizione processuale e risultando assistite dallo stesso difensore.

A pagina 314 il ricorso denuncia poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 4, comma 4, circa la liquidazione operata nella sentenza impugnata di onorari e diritti del giudizio di rinvio all’avvocato Rossi Roberto, difensore di P.F. e della s.n.c. Due P, avendo la Corte d’Appello attribuito i distinti importi di Euro 7.000.00, in favore del primo e di Euro 7.000,00 in favore della seconda, pur avendo le stesse parti identica posizione processuale e risultando assistite dallo stesso difensore.

9.1.Questi tre motivi, contenuti a pagina 291 e ss., a pagina 303 e ss. e a pagina 314 e ss. di ricorso, risultano fondati, in quanto la Corte d’Appello di Milano, nel liquidare le spese per il primo ed il secondo grado, nonchè per il giudizio di rinvio, in favore dell’unico difensore di P.F. e della s.n.c. Due P, non ha osservato il criterio della parcella unica rispettivamente previsto nel D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 5, comma 4, nell’art. 5, comma 4, della tariffa forense approvata con D.M. 8 aprile 2004, n. 127, e poi nel D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 4, comma 4, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27. Tale criterio esclude la possibilità di moltiplicare le liquidazioni (salva la facoltà di aumento variamente scandita) in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale (nella specie, la P.F. e la s.n.c. Due P di P.F. & C., difesi dal medesimo avvocato) ed opera anche nella liquidazione delle spese processuali da porre a carico del soccombente, in base al principio generale secondo cui lo stesso soccombente non può essere tenuto a rimborsare alla parte vittoriosa più di quanto questa debba al difensore, in relazione all’attività concretamente svolta (cfr. Cass. Sez. 6 2, 29/11/2012, n. 21320; Cass. Sez. 2, 12/08/2010, n. 18624).

10. Il motivo illustrato a pagina 319 di ricorso lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver il giudice di rinvio liquidato distinti compensi per il secondo giudizio di appello a P.F. ed alla s.n.c. Due P di P.F. & C., nonostante gli stessi avessero richiesto nella nota spese un unico compenso.

L’esame di tale motivo rimane assorbito dall’accoglimento dei motivi contenuti a pagina 291 e ss., a pagina 303 e ss. e a pagina 314 e ss. di ricorso.

11. A pagina 321 di ricorso P.E. censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, quanto alla regolazione delle spese inerenti il giudizio di primo grado, per aver la sentenza impugnata liquidato gli importi in favore di P.F. e della s.n.c. Due P senza distinguere fra diritti, onorari e spese. A pagina 323 di ricorso P.E. censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 e del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, quanto alla regolazione delle spese inerenti il giudizio di secondo, per aver la sentenza impugnata liquidato gli importi in favore di P.F. e della s.n.c. Due P, nonchè di P.R., senza distinguere fra diritti, onorari e spese.

11.1.Questi due ultimi motivi, esaminabili congiuntamente, sono infondati, in quanto a loro fondamento sta il presupposto che la sentenza della Corte d’Appello di Milano, nel liquidare le spese processuali inerenti il primo ed il secondo grado di giudizio, avrebbe dovuto attenersi alla distinzione tra onorari di avvocato e diritti di procuratore contenuta nel D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, e nel D.M. 8 aprile 2004, n. 127, e quindi, pur operando una liquidazione globale, sulla base delle allegate note spese, occorreva che venissero indicati separatamente, appunto, gli onorari rispetto ai diritti, in modo tale da mettere la parte soccombente in grado di controllare se fossero state rispettate le disposizioni di legge e le relative prescrizioni della tariffa professionale. Nè vincola qui il riferimento a quei parametri normativi fatto in motivazione nella sentenza impugnata, dovendo questa Corte comunque valutare la fondatezza delle dedotte violazioni di legge sulla base di ragioni di diritto anche diverse da quelle prospettate dalla ricorrente ed individuate d’ufficio, purchè sempre radicate sui fatti prospettati dai contendenti.

Deve invero desumersi una diversa conclusione dal principio affermato da Cass. Sez. U, 12/10/2012, n. 17405 (si vedano anche Cass. Sez. 6 – 3, 02/07/2015, n. 13628; Cass. Sez. 6 – 2, 19/10/2016, n. 21205 del), per cui, in tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41 (operante ratione temporis), il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, sono piuttosto da applicare i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di “compenso” la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata. Al tal fine, ove, come avvenuto nel presente giudizio, sia pronunziata sentenza di cassazione con rinvio, il giudice di rinvio procede alla regolamentazione delle spese tenendo conto dell’esito globale del processo, e, quando, come nella specie, riformi altresì la sentenza di primo grado, provvede sulle spese dell’intero giudizio, rinnovandone totalmente l’allocazione, in conseguenza, appunto, di un apprezzamento necessariamente unitario; sicchè non può dirsi completata l’opera svolta da un difensore nei pregressi gradi o fasi del processo, al fine di compensarla con diritti ed onorari secondo la disciplina delle tariffe professionali del tempo, sol perchè gli stessi si fossero di volta in volta conclusi con sentenze emesse prima dell’entrata in vigore del D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Il comma terzo del citato art. 9 del D.L. afferma, del resto, che nelle liquidazioni giudiziali delle spese, una volta trascorso il termine del centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto, non potessero più applicarsi le tariffe previgenti, in maniera da favorire la chiara scelta legislativa volta a sostituire il precedente sistema tariffario col nuovo sistema dei parametri, al che è altresì seguita essenzialmente l’abrogazione della distinzione tra onorari e diritti, in nome di un’avvertita esigenza di unicità del compenso professionale.

Ad intendere che, per gli effetti del D.M. n. 140 del 2012, art. 41 nella liquidazione giudiziale compiuta dal giudice di rinvio debba assumersi come ormai “completata” l’attività defensionale svolta in un grado di giudizio culminato in sentenza, ancora impugnabile, prima del 23 agosto 2012 (in tal senso, Cass. Sez. 6 – 2, 11/02/2016, n. 2748) si opererebbe, tra l’altro, una interpretazione del tutto confliggente con l’interpretazione che invece si dà costantemente in riferimento al momento della “decisione della lite”, ovvero comunque dell’esaurimento dell’affare per il cui svolgimento fu conferito l’incarico dal cliente, ai fini della decorrenza della prescrizione triennale per le competenze dovute agli avvocati (art. 2957 c.c., comma 2).

12. A pagina 328 il ricorso contesta la violazione dell’art. 112 c.p.c., ovvero il vizio di ultrapetizione in relazione ai diritti di procuratore liquidati a P.F. ed alla s.n.c. Due P per il giudizio di primo grado. La ricorrente fa notare come la liquidazione degli importi globali di Euro 8.935,21 in favore del primo e di Euro 9.121,13 in favore della seconda, compiuta dalla Corte di Milano in sede di rinvio, “coincidono al centesimo di euro” con quanto a suo tempo liquidato nella sentenza cassata n. 927/2005 dell’Il aprile 2005, ove però erano espressamente sommati in distinti addendi gli onorari, i diritti e gli esborsi, peraltro accordando ad entrambi un importo per diritti maggiore di quello indicato dalle stesse parti nelle loro note spese.

A pagina 337 di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, dell’art. 11 preleggi, del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 e del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, quanto alle spese di lite liquidate a P.F. ed alla s.n.c. Due P per il giudizio di secondo grado. Anche in tal caso la ricorrente suppone che il giudice di rinvio abbia liquidato le spese basandosi pedissequamente sulle liquidazioni già effettuate nella sentenza cassata del 2005, prendendo a riferimento, per indicare le attività svolte dal difensore e la somma spettante a titolo di spese, diritti ed onorari, le note specifiche delle prestazioni svolte esibite per quella fase del giudizio.

A pagina 343 di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, e nel D.M. 8 aprile 2004, n. 127, quanto alle spese di lite liquidate a P.R. per il giudizio di secondo grado.

12.1. Questi motivi sono infondati sia perchè la ricorrente assume la violazione dei limiti tariffari per diritti di procuratore ed onorari di avvocati, indicati dal D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 e dal D.M. 8 aprile 2004, n. 127, nella liquidazione giudiziale delle spese processuali effettuata nella sentenza del 22 gennaio 2013, e quindi ormai nella vigenza del D.M. 20 luglio 2012, n. 140; sia perchè, a fronte della liquidazione globale ed unitaria degli importi compiuta nella sentenza impugnata, della quale la ricorrente si è lamentata nei precedenti motivi proprio per la mancata distinzione in diritti e onorari, qui la stessa suppone di poter implicitamente dedurre dalle note specifiche delle prestazioni svolte inerenti i precedenti gradi di giudizio quali singole voci siano state incluse nella somma liquidata in violazione dei limiti tariffari, ovvero per attività difensive non effettivamente rese.

13. In definitiva, vanno accolti i soli motivi, contenuti a pagina 291 e ss., a pagina 303 e ss. e a pagina 314 e ss. di ricorso, va dichiarato assorbito il motivo illustrato a pagina 319 di ricorso e vanno rigettati tutti gli altri motivi. La sentenza impugnata deve quindi essere cassata solo nei punti in cui ha liquidato in distinti e duplici importi le spese per il primo grado, per il primo appello e per il giudizio di rinvio in favore di P.F. e della s.n.c. Due P. Non essendo al riguardo necessari altri accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, condannando l’appellante principale P.E. a rimborsare a P.F. ed alla s.n.c. Due P, per le spese processuali sostenute nel giudizio di primo grado, l’importo unico complessivo di Euro 9.121,13, oltre a spese generali e ad accessori di legge; per le spese processuali sostenute nel primo giudizio di appello, l’importo unico complessivo di Euro 9.160,21, oltre a spese generali e ad accessori di legge; e per le spese processuali sostenute nel giudizio di rinvio l’importo unico complessivo di Euro 7.000,00, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Visto l’esito finale di complessiva soccombenza della ricorrente P.E. (valutata in modo globale ed unitario, con riguardo all’assoluta prevalenza delle sue censure comunque disattese), la stessa va altresì condannata a rimborsare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, al controricorrente P.R., non dovendosi invece provvedere in proposito per gli altri intimati P.R., P.M., G.O., G.F. (tutti anche quali eredi di R.M.), P.F. e Due P di P.F. & c. s.n.c., i quali non hanno svolto attività difensive.

PQM

La Corte accoglie i motivi di cui a pagina 291 e ss., a pagina 303 e ss. ed a pagina 314 e ss. di ricorso, dichiara assorbito il motivo di cui a pagina 319 di ricorso, rigetta tutti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata nei limiti delle censure accolte, e, decidendo nel merito, condanna l’appellante principale P.E. a rimborsare a P.F. ed alla s.n.c. Due P le spese processuali sostenute nel giudizio di primo grado, liquidate nell’importo unico complessivo di Euro 9.121,13, oltre a spese generali e ad accessori di legge; le spese processuali sostenute nel primo giudizio di appello, liquidate nell’importo unico complessivo di Euro 9.160,21, oltre a spese generali e ad accessori di legge; e le spese processuali sostenute nel giudizio di rinvio, liquidate nell’importo unico complessivo di Euro 7.000,00, oltre a spese generali e ad accessori di legge; condanna la ricorrente P.E. a rimborsare al controricorrente P.R. le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2017

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