Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30522 del 22/11/2019

Cassazione civile sez. III, 22/11/2019, (ud. 15/10/2019, dep. 22/11/2019), n.30522

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14623-2018 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OSLAVIA 30,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GIZZI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CARLO ZAULI;

– ricorrente –

contro

D.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1151/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 03/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/10/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIZZI FABRIZIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.E. ricorre, avvalendosi di diciotto motivi, per la cassazione della sentenza n. 1151/2018 della Corte d’Appello di Bologna, pubblicata il 3 marzo 2018.

Il ricorrente espone in fatto di avere agito nei confronti di D.F., ritenendolo responsabile del delitto di lesioni personali a suo danno consistite in una violenta gomitata al capo nel corso di una partita di calcio amatoriale che gli aveva causato un trauma cranico ed una violenta crisi epilettica.

Il Tribunale penale di Ravenna e la Corte d’Appello di Bologna avevano ritenuto che non vi fossero elementi sufficienti per accertare una responsabilità penale a titolo di dolo o di colpa a carico di D.F., non potendo considerarsi oltre il ragionevole dubbio che egli avesse saltato scompostamente per conseguire illecitamente un obiettivo agonistico.

La Corte di Cassazione penale, investita del gravame dall’odierno ricorrente costituitosi parte civile, annullava la sentenza d’appello ai soli effetti civili per omesso accertamento della sussistenza di una responsabilità civile per fatto colposo con conseguente rinvio al giudice competente in grado d’appello.

La Corte d’appello, nella sentenza qui impugnata, rigettava la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c., per incomprensibilità della ragione principale (c.d. ragione più liquida) a sostegno della reiezione della domanda.

La tesi del ricorrente è che la Corte d’Appello abbia respinto la domanda con tre diverse motivazioni – inammissibilità della costituzione di parte civile, inammissibile frazionabilità della domanda, difetto di prova del danno patrimoniale richiesto – ciascuna delle quali sufficiente per rigettarla e che pertanto la sentenza sia nulla perchè avrebbe dovuto indicare una sola ragione sufficiente a sostegno della decisione. A suo avviso, essendo tutte le ragioni indicate parimenti sufficienti, la sentenza non consentirebbe di individuare quale sia la ragione più liquida e quali siano le rationes decidendi superflue.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 132 c.p.c. per difetto di specifica motivazione.

La sentenza sarebbe viziata perchè a fronte di più di un motivo per dichiarare inammissibile o irricevibile la domanda avrebbe dovuto individuare e porre a fondamento della propria motivazione la ragione più liquida, senza aggiungere una motivazione additiva, fonte di confusione e priva di valore.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in ordine alla ritenuta inammissibilità della costituzione di parte civile per contrasto con l’art. 491 c.p.c..

La tesi del ricorrente è che la, sentenza abbia violato l’art. 491 c.p.c. perchè d’ufficio avrebbe sollevato una questione inerente la costituzione di parte civile.

4. Con il quarto motivo il ricorrente imputa alla sentenza gravata una violazione di legge per non aver ritenuto sussistente un giudicato in ordine alla regolare costituzione di parte civile (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La Corte territoriale avrebbe deciso su una questione, la costituzione di parte civile, coperta da giudicato.

5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ordine alla questione del frazionamento del credito e dunque dell’abuso del diritto ex artt. 51,52 e 54 della Carta di Nizza.

Il ricorrente imputa alla sentenza di avere censurato la parcellizzazione della domanda senza farne derivare conseguenze.

6. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata per avere ritenuto sussistente il frazionamento di credito ed un supposto abuso del diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo il ricorrente il frazionamento della domanda nel caso di specie era meritevole di tutela, perchè la richiesta avente ad oggetto il danno patrimoniale fu trasferita in sede penale dove l’autorità giudiziaria statuisce normalmente in forma generica e rimette la liquidazione alla sede civile, la costituzione di parte civile in sede penale fu necessaria perchè la decisione fu cassata, perciò la costituzione di parte civile fu un atto dovuto e di conseguenza fu legittimo insistere in sede penale per rivendicare il danno patrimoniale e in sede civile chiedere il danno non patrimoniale.

7. Con il settimo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente lamenta che non sia stato considerato l’esito diverso dei processi penali e dunque la necessità di trasferire parte dell’azione civile in sede penale.

8. Con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c. “per mancata incomprensione della domanda con riferimento al quantum del pregiudizio del danno non patrimoniale”.

Per il ricorrente il giudice a quo avrebbe dovuto pronunciarsi sulla richiesta di liquidazione delle spese, nonostante il rigetto della domanda di riconoscimento del danno non patrimoniale.

9. Con il nono motivo il ricorrente assume l’avvenuta violazione di legge in ordine alla valutazione della natura del giudizio di rinvio (art. 392 e ss. c.p.c.) peraltro riveniente da decisione penale (art. 394 c.p.c.).

La tesi sostenuta è che, essendo quello di rinvio un giudizio chiuso, la Corte d’Appello avrebbe dovuto decidere dell’an debeatur sulla scorta delle prove già raccolte, “poichè le prove non potevano essere prospettate in sede di rinvio non essendo state affrontate nè avanti al Gup nè in sede di appello per la ritenuta pregiudizialità della scriminante”.

10. Con il decimo motivo il ricorrente denuncia la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata in relazione all’omessa condanna generica ex art. 278 c.p.c., tenuto conto anche della dinamica processuale in sede penale.

Il ricorrente insiste sul fatto che in sede di rinvio non fosse possibile articolare prove dopo che in sede penale in ben due gradi l’imputato era stato assolto.

11. Con l’undicesimo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge per mancata liquidazione equitativa del danno patrimoniale nel giudizio di rinvio ex artt. 392 e 394 c.p.c. ed ex art. 1226 c.c., tenuto conto pure delle pregresse fasi processuali.

Essendo impossibile la prova del fatto storico perchè vi era stata una duplice assoluzione in sede di merito e per la natura chiusa del giudizio di rinvio, il danno non poteva che essere liquidato equitativamente.

12. Con il dodicesimo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per omessa motivazione del rigetto dell’istanza di riunione con la causa civile in grado d’appello in relazione all’art. 273 o art. 274 c.p.c..

La tesi è che se i due procedimenti fossero stati riuniti, come a suo avviso sarebbe stato doveroso, ex art. 273 c.p.c., o necessario, ex art. 274 c.p.c., fare sarebbero state possibili una più ampia conoscenza del fatto ed una maggiore estensione del quadro istruttorio.

13. Con il tredicesimo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in relazione agli artt. 273 e 274 c.p.c..

Il ricorrente assume la doverosità o la necessità di riunione dei due procedimenti, perchè in sede penale non si potè dedurre alcuna prova o/e istanza istruttoria, in quanto il Gup ed il giudice d’Appello dichiararono la condotta di D.F. contenuta nell’alveo dell’agonismo sportivo e non connotata da responsabilità per assenza di dolo o colpa. Tenendo conto che una causa era stata istruita e l’altra no, per effetto dell’annullamento in sede di legittimità, la riunione avrebbe consentito di utilizzare la CTU medico-legale e le prove orali.

14. Con il quattordicesimo motivo il ricorrente invoca la nullità della decisione relativamente alla mancata considerazione delle produzioni istruttorie, in particolare di quella del giudizio civile, tenuto conto dell’omessa contestazione avversaria (artt. 115 e 116 c.p.c.) relativamente alla possibilità di addivenire ad una determinazione equitativa del danno rivendicato.

La Corte d’Appello avrebbe omesso di motivare sulla sufficienza del livello introduttivo a supportare le domande.

15. Con il quindicesimo motivo il ricorrente denuncia l’omessa considerazione di un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla mancata considerazione delle produzioni effettuate. Il fatto omesso sarebbe costituito dai documenti prodotti e non contestati da cui attingere per liquidare il danno anche senza il ricorso all’equità.

16. Con il sedicesimo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere esplicitato quali prove avrebbe potuto addurre nella fase processuale in corso per dimostrare il danno.

La tesi è che il ricorrente non potesse provare il pregiudizio subito, perciò la Corte d’appello, vieppiù in considerazione della mancata riunione dei procedimenti, non avrebbe dovuto rigettare la domanda per mancanza di prova.

17. Con il diciassettesimo motivo il ricorrente denuncia la violazione di diritti fondamentali ed assoluti, ai sensi degli artt. 6 e 13 della Carta di Nizza.

Data la natura di giudizio chiuso, nel giudizio di rinvio la parte, essendo nell’impossibilità giuridica di produrre prove, non poteva essere tenuta a provvedervi, e non avrebbe dovuto subire le conseguenze di provvedimenti assolutori pregressi ed ingiusti.

19. Con il diciottesimo ed ultimo motivo il ricorrente assume la violazione della sentenza per motivazione erronea in ordine alla descrizione dell’accertamento della responsabilità a titolo di colpa e non di dolo eventuale.

La tesi è che la Corte territoriale abbia omesso di accertare, una volta escluso il dolo, se ricorresse una ipotesi di dolo eventuale o di colpa cosciente, cioè la creazione di una situazione ove l’evento negativo poteva verificarsi.

20. In prima battuta, questo Collegio stigmatizza la tecnica redazionale utilizzata dal ricorrente per la esposizione sommaria dei fatti. Il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1 n. 3, che, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve essere soddisfatto mediante una esposizione che sia in grado di garantire alla Corte di Cassazione una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e dello svolgersi del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., 18/05/2006, n. 11653). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass., Sez. Un., 20/02/2003, n. 2602). Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata.

Nel caso di specie, alla esposizione sommaria dei fatti di causa il ricorso provvede con il p. A, a p. 2, che si limita a riportare quanto “scrive la Corte d’Appello nell’impugnata sentenza”.

Di per sè la riproduzione del fatto come riportato nella sentenza impugnata non è causa di inammissibilità, semprechè se ne evinca una chiara esposizione dei fatti rilevanti alla comprensione dei motivi di ricorso (Cass. 16/09/2013, n. 21137).

La sentenza impugnata non consente di percepire compiutamente il contenuto del tenore del fatto sostanziale, e soprattutto non contiene riferimenti di alcun tipo a fatti che sono stati specificamente assunti a fondamento di taluni motivi di ricorso. Non vi è alcun riferimento, in particolare, alla costituzione di parte civile dell’attuale ricorrente ed alle correlative domande formulate e, pur essendo attinto dai motivi di ricorso, non emerge con chiarezza a quale procedimento pendente faccia riferimento l’attore in riassunzione, instando per la riunione ad esso del procedimento in corso, cui si sarebbe opposto D.F.. Sicchè non si può dire che si sia in presenza di un’esposizione dei fatti per relationem idonea allo scopo.

21. In disparte tale aspetto, il ricorso non merita accoglimento in ragione del fatto che ciò che regge il rigetto della domanda risarcitoria del danno patrimoniale formulata dall’attore in riassunzione è, come si evince da p. 6 della sentenza gravata, l’assenza di prova del danno subito.

I dubbi che la Corte d’Appello esprime in ordine al contenuto contraddittorio della dichiarazione di parte civile e alla meritevolezza di tutela del frazionamento della domanda non si sono tradotti, infatti, in una pronuncia di inammissibilità, come, del resto, riconosce lo stesso ricorrente.

Che si tratti di dubbi che non sono sfociati in una pronuncia di inammissibilità è chiarito dall’incipit dell’ultima proposizione contenuta a p. 5 della sentenza gravata “anche senza giungere a una pronuncia di inammissibilità, va rilevato che (…)”.

Peraltro, quand’anche il giudice d’Appello avesse inteso sostenere la decisione anche sulla scorta di una ratio decidendi ulteriore rispetto a quella con cui aveva negato accoglimento alla domanda risarcitoria, egli non sarebbe affatto incorso in errore, non essendo vero che ricorra un obbligo a carico del giudice di decidere la controversia sulla scorta del principio della ragione più liquida.

Ben avrebbe potuto la sentenza, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esaminarne ed accoglierne anche una seconda ed ulteriori, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui le altre fossero risultate erronee. Così facendo il provvedimento non incorrerebbe nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa “ratio decidendi”, nè conterrebbe quanto alla “causa petendi” alternativa o subordinata, un mero “obiter dictum”, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configurerebbe il fatto fisiologico di una pronuncia basata su due o più distinte “rationes decidendi”, ciascuna di per sè sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle tutte, a pena di inammissibilità del ricorso (Cass. 18/04/2019, n. 10815).

Il principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., comporta che la causa “può” essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c.. A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente deve ritenersi consentito e non imposto al giudice di ricorrere al principio processuale della ragione più liquida.

22. Chiarito tale aspetto, va osservato che la Corte d’appello, impegnata nell’attività di qualificazione della istanza che le competeva, ha inteso stigmatizzare il contenuto non chiaro della domanda di parte civile in ordine alla voce di danno richiesta – danno patrimoniale e/o non patrimoniale – e sottolineare come il dubbio risultasse accresciuto dal fatto che la parte volesse e, che in tal caso, potesse frazionare la domanda e ne ha tratto poi la conseguenza che oggetto della domanda fosse la sola richiesta di risarcimento del danno patrimoniale.

In merito a tale approdo dell’attività qualificatoria non vi è alcuna censura da parte del ricorrente, il quale, dunque, concorda sull’esito dell’attività di qualificazione operata dal giudice a quo.

Una volta individuato l’oggetto della domanda, la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, la sentenza l’ha rigettata ritenendo che, pur ravvisando a carico di D.F., la ricorrenza di una condotta colposa, la sussistenza del richiesto danno patrimoniale non fosse stata provata e che pertanto non potesse procedersi alla sua liquidazione in via equitativa, perchè l’equità soccorre ad una oggettiva difficoltà di provare il quantum ma non anche al difetto di prova dell’an.

Rispetto a tale ratio decidendi le censure del ricorrente, articolate attraverso la prospettazione di una pluralità di argomentazioni difensive spalmate tra i motivi in cui si articola il ricorso, si rivelano infondate.

23. L’assunto da cui parte C.E. è sbagliato.

Egli muove, infatti, dal convincimento che il giudizio di rinvio sia chiuso e che ad esso si attaglino la cristallizzazione del thema decidendum e le preclusioni istruttorie valevoli nella correlazione tra iudicium rescindens e iudicium rescissorium.

Proprio di recente, i caratteri del giudizio di rinvio dinanzi al giudice civile a seguito di annullamento di una sentenza penale ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 622 c.p.c., è stato sottoposto ad un’attività di approfondita analisi e rimeditazione da parte di questa Corte con la pronuncia n. 15859 del 12/06/2019, cui si rinvia.

Da essa e dalle pronunce successive che vi si sono confermate emerge il superamento della tesi secondo cui il giudizio di civile di rinvio di cui all’art. 622 c.p.p. sia da equiparare a quello disciplinato dall’art. 394 c.p.c. e il convincimento che, invece, debba essergli riconosciuta piena autonomia dal punto di vista morfologico e funzionale, con le seguenti conseguenze di ordine generale:

a) il diritto al risarcimento del danno è un diritto eterodeterminato, sicchè l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del relativo petitum e della relativa causa petendi, così come rappresentata dal danneggiato in sede di costituzione di parte civile;

b) i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato;

c) all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale, è diverso l’ambito entro il quale l’attività difensiva delle parti viene a svolgersi, dovendo le relative questioni essere trattate in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo (non del reato, ma) dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.;

d) all’esito del rinvio al giudice civile, il fatto perde la sua originaria connessione con il reato per riacquistare i caratteri dell’illecito civile, seguendo i canoni probatori propri di quel processo;

e) il giudice civile in sede di rinvio dovrà applicare, in tema di nesso causale, il canone probatorio del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale;

f) rispetto alla fattispecie di reato a condotta vincolata, nel giudizio civile possono essere fatte valere modalità di condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, e diversi titoli di responsabilità, che viceversa rilevino ai sensi dell’art. 2043 c.c. e ss.

g) deve ritenersi legittima una diversa valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito ove nel processo penale si sia proceduto per un reato doloso per il quale la legge penale non preveda una speculare punibilità a titolo di colpa, e che la valutazione dell’elemento soggettivo colposo (ove, nel giudizio penale, si sia proceduto a tale titolo) è autonoma dalla nozione di colpa penale;

h) l’esistenza di una causa di non punibilità prevista dalla legge penale e riconosciuta in quel giudizio non ne preclude un’autonoma valutazione in sede civilistica.

i) nel giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., non è consentita l’utilizzazione, alla stregua di una testimonianza, delle dichiarazioni rese dalla parte civile sentita quale testimone nel corso del processo penale, dovendo viceversa trovare applicazione il principio di cui di cui all’art. 246 c.p.c., ai sensi del quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.

In applicazione dei suddetti principi, deve ritenersi escluso che al ricorrente fosse impedito provare nel giudizio di rinvio il danno patrimoniale di cui chiedeva il risarcimento.

La pregnanza di tale conclusione è tale da sottrarre decisività agli altri motivi che, quand’anche accolti, non muterebbero l’esito del ricorso.

24. Ad ogni modo, questa Corte rileva che non giova al ricorrente lamentare che la sentenza impugnata non abbia riconosciuto la ricorrenza del dolo, perchè ciò non ha inciso sul rigetto della domanda risarcitoria e perciò il ricorrente non ha alcun interesse a provare la ricorrenza di un elemento soggettivo di maggiore riprovevolezza rispetto a quello individuato dalla Corte (ultimo motivo).

I motivi numeri 14, 15 e 16 non hanno messo bene a fuoco la ratio decidendi del provvedimento impugnato, il quale non ha escluso che il fatto colposamente posto in essere da D.F. abbia potuto cagionare un danno patrimoniale, ma ha negato che la sua ricorrenza nel caso di specie sia stata dimostrata.

Il ricorrente si avvale della scomposizione del nesso di causa – la causalità materiale rispetto alla causalità giuridica – per portare avanti la tesi a sè favorevole della avvenuta dimostrazione della ricorrenza del danno patrimoniale reclamato in giudizio derivante dal mero accertamento dell’iniuria.

In verità, la argomentazione assume un punto di vista non corretto e cioè che vi sia stata una condanna generica al risarcimento del danno e che il giudizio di rinvio dovesse limitarsi a quantificare il danno. Ciò si aggiunge al convincimento, anch’esso erroneo, che ai fini della condanna generica al risarcimento del danno sia sufficiente la dimostrazione della ricorrenza di un comportamento antigiuridico.

Non a caso la giurisprudenza richiamata a sostegno di tale conclusione riguarda appunto la condanna generica al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 278 c.p.c.; tale giurisprudenza, però, ben diversamente da come preteso nel ricorso, non deduce il danno dalla mera ricorrenza dell’iniuria, al contrario, precisa che, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, per ottenere una condanna generica non è sufficiente accertare l’illegittimità della condotta, ma occorre anche accertarne la portata dannosa, senza la quale il diritto al risarcimento, di cui si chiede anticipatamente la tutela, non può essere configurato.

Nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l’esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa devono essere accertati nel giudizio relativo all’an debeatur e di essi va data la prova sia pure sommaria e generica, in quanto costituiscono il presupposto per la pronuncia di condanna generica (tra le altre, in tale senso, ad esempio, Cass. 22/01/2009, n. 1631).

Nel caso di specie, non vi era stata alcuna sentenza di condanna generica al risarcimento del danno, come supposto del tutto erroneamente dal ricorrente, ma solo l’annullamento su ricorso della parte civile “ai soli effetti della responsabilità civile”, ex art. 576 c.p.p., della sentenza di proscioglimento.

E’ ritenuta, infatti, eccezionale – Cass., Sez. Un., 29/09/2016, n. 46688 – ed ispirata da esigenze di economia processuale la disposizione contenuta nell’art. 578 c.p.p., secondo cui se è stata pronunciata condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni a favore della parte civile, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decidono comunque sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

Nella vicenda per cui è causa sia in primo che in secondo grado l’imputato era stato assolto e la Cassazione penale aveva annullato la sentenza ai soli effetti civili, perchè il danneggiato costituitosi parte civile si era evidentemente avvalso della facoltà di impugnare le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti civili, onde ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno.

Il giudice di rinvio era chiamato a decidere sulla domanda di risarcimento e su quella relativa alle spese, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto, in quanto “il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare”.

Sempre dallo stesso errore – e cioè che l’accertamento dell’iniuria implicasse affermazione della responsabilità – deriva la pretesa che le spese di lite siano poste a carico della controparte.

A p. 23 del ricorso, illustrandone il motivo n. 8, C.E. asserisce “affermata la responsabilità, le spese di lite avrebbero dovuto comunque essere poste a carico della controparte in quanto soccombente sull’accertamento della responsabilità e quindi sulla legittimità della costituzione di parte civile” ed insiste con l’erroneo convincimento che la domanda sull’an fosse stata accolta e che le spese della fase penale dovessero “essere liquidate perchè l’esito fu di integrale riforma”.

Per le ragioni già chiarite, invece, il giudice del rinvio ha riconosciuto l’antigiuridicità del comportamento colposo tenuto da D.F., ma non ne ha affatto affermato la responsabilità risarcitoria. Al fine di integrare la fattispecie di responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. è necessaria la dimostrazione della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, non essendo sufficiente al fine di ottenere il soddisfacimento della propria pretesa creditoria la prova della antigiuridicità del comportamento.

La mancata dimostrazione che il comportamento antigiuridico gli avesse procurato un ingiusto danno patrimoniale – circostanza che, indirettamente, è riconosciuta dallo stesso ricorrente – sorregge la sentenza impugnata.

Va dato risalto, inoltre, al fatto che non c’è nè nella parte destinata all’esposizione sommaria del fatto nè in alcuno dei motivi di ricorso e delle prospettazioni che li sostengono un’indicazione chiara circa la natura del danno patrimoniale lamentato.

Solo a p. 39, a sostegno del motivo n. 14, il ricorrente, allo scopo di censurare la sentenza impugnata per non aver liquidato equitativamente il danno richiesto, riferisce di una CTU svolta nel corso del procedimento civile dinanzi al Tribunale di Ravenna – che, con una certa difficoltà, si capisce essere il giudizio intrapreso da C.E. prima di costituirsi parte civile nel processo penale per ottenere in quella sede il risarcimento del danno patrimoniale e proseguito per l’accertamento del danno non patrimoniale – che avrebbe accertato, quale esito dell’illecito posto in essere a suo carico, una invalidità permanente del 12-13% secondo la tabella ANIA, consistente in sindrome post-trauma cranico, amnesia persistente per l’evento, cefalea ricorrente, diminuita capacità di concentrazione, soggettiva sensazione di disequilibrio per spostamenti rapidi, stabilità, complesso cicatriziale chirurgico, dimorfismo della teca cranica. Il ricorrente ne trae la seguente conseguenza: “pertanto il danno comporta un pregiudizio patrimoniale sia da temporanea sia da permanente che in considerazione della proiezione futura non può non essere valutabile in via equitativa”. A ciò aggiunge che la mancata contestazione da parte di D.F. avrebbe dovuto indurre il giudice a ritenerlo provato.

Pur non potendosi negare che la motivazione della sentenza sia alquanto laconica sul punto – cioè sulle ragioni per cui è stato ritenuto non provato il danno patrimoniale lamentato – le argomentazioni del ricorrente consentono di ipotizzare che egli avesse chiesto il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita di capacità lavorativa specifica, il quale richiede un giudizio prognostico sulla compromissione delle aspettative di lavoro in relazione alle attitudini specifiche della persona (Cass. 25/06/2019, n. 16913) e comporta a carico della vittima oneri di allegazione e di prova che hanno fatto difetto. Infatti, sarebbe stato possibile provvedere ad una liquidazione equitativa, secondo la giurisprudenza di questa Corte, solo nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente avesse reso altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica e il danno necessariamente derivantene; verificandosi tali circostanze, che nella vicenda per cui è causa difettano, il giudice avrebbe potuto procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorchè possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio (Cass. 08/02/2019, n. 3724).

In assenza di prova del pregiudizio concreto alla capacità lavorativa specifica, infatti, continuando a ragionare in via ipotetica, perchè – si ripete – il ricorso è del tutto sfornito di elementi atti a rappresentare il fatto sotto il profilo sostanziale e processuale, il pregiudizio lamentato potrebbe avere assunto i caratteri della lesione della “cenestesi lavorativa”, di natura non patrimoniale, consistente nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento, dell’attività lavorativa, non incidente, neanche sotto il profilo delle opportunità, sul reddito della persona offesa, risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo. Tale ultima tipologia di danno configurabile ove non si superi la soglia del 30% del danno biologico, va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (Cass. 28/06/2019, n. 17411). In questo caso, la frammentazione della domanda, rispondente ad una precisa strategia difensiva del ricorrente, avrebbe impedito al giudice di prendere in considerazione il pregiudizio in questione, atteso che la domanda risarcitoria aveva ad oggetto esclusivamente il danno patrimoniale.

Se ne conclude che non sono stati forniti con il ricorso elementi per ritenere che la Corte d’Appello abbia erroneamente negato l’esistenza del danno nonostante le prove addotte a sostegno della sua ricorrenza.

Del resto, proprio sull’erroneo convincimento di non poter addurre prove a supporto della richiesta risarcitoria nel giudizio di rinvio si fonda buona parte del ricorso.

Quanto alla asserita omessa motivazione sul diniego di riunione del procedimento in corso con quello pendente dinanzi ad altro giudice della stessa Corte d’Appello, è opportuno rilevare che la già stigmatizzata carenza della parte espositiva del fatto per cui è causa, impedisce di percepire il rilievo della richiesta di riunione.

Il fatto che la Corte d’Appello non abbia accolto la richiesta e che lo abbia fatto senza motivare non è sufficiente per accogliere il mezzo impugnatorio.

Va sempre rammentato che attraverso il ricorso per cassazione non si fa valere un interesse alla astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma l’interesse ad eliminare un pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo. Il ricorrente ha indicato quale danno derivatogli dall’invocata nullità processuale l’impossibilità di provare il danno patrimoniale subito nel giudizio di rinvio che essendo un giudizio chiuso per definizione gli avrebbe reso impossibile dedurre prove orali o alte istanze.

Precisamente, il ricorrente sostiene che la riunione appariva doverosa o necessaria perchè “in sede penale non si potè dedurre alcuna prova o istanza istruttoria perchè il GUP e il giudice d’appello dichiararono la condotta di D.F. contenuta nell’albero dell’agonismo sportivo e non connotata da responsabilità per assenza di dolo o di colpa. Dunque o la sentenza era solo sull’An (quella derivante dal penale) oppure anche sul quantum solo se fosse stata accordatala riunione (…) riguardando lo stesso fatto le cause avrebbero dovuto essere riunite qualora in una sia stata svolta l’istruttoria e nell’altra non sia stato possibile per ragioni processuali assolutamente singolari e normalmente inusuali (doppia assoluzione e poi cassazione).

In altri termini, il motivo addotto a sostegno della doverosità/necessità della riunione è basato sull’erronea convinzione, com’è stato dimostrato supra, che nel giudizio di rinvio fosse preclusa al ricorrente la possibilità di fornire la prova del danno. Ne consegue l’inammissibilità del mezzo impugnatorio per la mancata allegazione del pregiudizio concreto che sarebbe derivato al ricorrente dal vizio dell’attività del giudice.

In definitiva, il ricorso è rigettato.

Nulla deve essere liquidato per le spese non avendo il resistente svolto alcuna attività difensiva.

Si dà atto della ricorrenza dei presupposto processuali per porre a carico del ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Non provvede a liquidare alcunchè per le spese del giudizio di legittimità, essendo mancato lo svolgimento di attività difensiva da parte del resistente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2019

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