Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3051 del 08/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/02/2011, (ud. 25/01/2011, dep. 08/02/2011), n.3051

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4726/2010 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo

Studio dell’avvocato PAOLO PAGLIARA (Studio Legale TONOLO), in VIA

FLAMINIA 441, rappresentato e difeso dall’avvocato SAMBATI LUCA,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

INPS, ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentato e difeso dagli avvocati SGROI ANTONINO, CALIULO LUIGI,

MARITATO LELIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 106/2009 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 12/02/2009, R.G.N. 2405/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/01/2011 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato SAMBATI LUCA;

udito l’Avvocato TRIOLO VINCENZO per delega MARITATO LELIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La sentenza di cui si domanda la cassazione respinge l’appello proposto da C.C. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce, Sezione lavoro, del 30 giugno 2005 di rigetto dell’opposizione promossa dal medesimo C. avverso due verbali di accertamento congiunti dell’INPS e della competente Direzione provinciale del lavoro con i quali gli sono state contestate violazioni e omissioni contributive scaturenti dalla mancata registrazione e denuncia della dipendente D.C., sanzionate, rispettivamente, per lire 7.954.450, con riferimento al periodo 1979 – 31 dicembre 1995 di lavoro della D. come collaboratrice domestica alle dipendenze del C. e per L. 78.675.000, per il periodo dal 1979 al 31 ottobre 1997 di svolgimento da parte della stessa anche delle mansioni di assistente presso lo studio medico del C..

Secondo la Corte di appello di Lecce, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la deposizione testimoniale di D. C. è stata assunta del tutto legittimamente dal primo giudice, consistendo nell’audizione di persona non avente interesse nel giudizio, nel senso richiesto dall’art. 246 c.p.c.. Tale deposizione, infatti, ha avuto luogo all’udienza del 14 maggio 2003.

quando, cioè, era già stata conciliata, in data 2 ottobre 1998, la lite della D. col datore di lavoro, riguardante anche la sussistenza per determinati periodi del rapporto di lavoro.

Conseguentemente, essendosi venuta a determinare l’impossibilità giuridica del riconoscimento in favore della lavoratrice di una durata del rapporto maggiore rispetto a quella stabilita in sede di conciliazione, la stessa non doveva considerarsi più fornita (dopo la conciliazione) di una posizione sostanziale idonea a legittimarne la partecipazione al giudizio nella veste processuale di interventore adesivo dipendente a sostegno della posizione dell’INPS (v. Cass. 9 maggio 2007, n. 10545).

Peraltro, l’eventuale interesse riflesso della teste alla decisione, ha indotto la Corte a valutare specificamente l’attendibilità della deposizione stessa.

Tale valutazione ha avuto esito positivo in considerazione del tenore delle dichiarazioni rese e del loro preciso riscontro con le altre risultanze processuali.

Il ricorso di C.C. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste con controricorso l’INPS. Nell’imminenza dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., nella quale ha ribadito le argomentazioni già svolte e confutato le tesi avversarie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso viene denunciata violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 246 c.p.c., derivante dalla mancata dichiarazione di nullità della testimonianza della lavoratrice assunta in primo grado, che si porrebbe in contrasto con l’orientamento di questa Corte secondo cui se, nel giudizio tra datore di lavoro ed istituti previdenziali o assistenziali avente ad oggetto il pagamento di contributi, sorga contestazione sull’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, con conseguente necessità di preliminare accertamento di detto rapporto quale presupposto dell’obbligo contributivo, la posizione che il lavoratore assume in detto giudizio determina la sua incapacità a testimoniare. Ancorchè, ciò non escluda che il giudice possa, avvalendosi dei poteri conferitigli dall’art. 421 c.p.c., interrogarlo liberamente sui fatti di causa (vengono citate: Cass. 23 novembre 1988. n. 6299; Cass. 4 agosto 1998. n. 7661: Cass. 8 giugno 2000, n. 7835: Cass. 29 maggio 2006. n. 12729; Cass. 14 novembre 2008. n. 27161).

Il motivo è infondato.

Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il suddetto orientamento non è affatto consolidato e univoco, anzi, come di recente affermato da questa Corte (Cass. 5 ottobre 2009. n. 21209 e, nello stesso senso: Cass. 26 febbraio 2009. n. 4651). esso si deve considerare superato dalla più recente giurisprudenza (in parte anche citata dal ricorrente), quanto meno nell’accezione più radicale (richiamata dal ricorrente) secondo la quale, nelle controversie di cui si tratta, il lavoratore sarebbe aprioristicamente incapace a testimoniare e quindi potrebbe essere, tutt’al più, interrogato liberamente dal giudice.

Va osservato, al riguardo, che, al di là dell’apparente non univocità delle argomentazioni, può tuttavia ormai considerarsi come principio generalmente affermato quello secondo cui non può escludersi la suddetta capacità a testimoniare quando sia stata accertata, in concreto, l’assenza di un interesse giuridico attuale e concreto che legittimi il lavoratore-teste ad intervenire in giudizio (Cass. 21 ottobre 2003. n. 15745; Cass. 27 febbraio 2007. n. 4500:

Cass. 26 febbraio 2009, n. 4651: Cass. 3 marzo 2009. n. 5074; Cass. 5 ottobre 2009. n. 21209). Ciò, in particolare, si è ritenuto che si verifichi laddove il lavoratore abbia sottoscritto, in data antecedente alla deposizione testimoniale, verbale di conciliazione della causa proposta contro il datore di lavoro, per cui ogni possibilità di riconoscimento della maggior durata del rapporto di lavoro gli è ormai preclusa dall’intervenuta conciliazione giudiziale, con la conseguenza della mancanza di interesse a deporre in tal senso nel giudizio di opposizione (Cass. 9 maggio 2007, n. 10545), come è accaduto nel caso di specie.

Tale conclusione – che non appare contraddetta da Cass. 14 novembre 2008. n. 27161 e da Cass. 14 giugno 2010. n. 14197 che. in giudizi relativi ad opposizioni ad ordinanze-ingiunzioni emesse dall’INPS per contributi omessi e sanzioni nei quali i lavoratori erano stati interrogati liberamente, si sono limitate a ribadire l’orientamento secondo cui l’utilizzazione dello strumento di cui all’art. 421 c.p.c., u.c., è sicuramente ammissibile – si deve anche considerare quella maggiormente conforme alla giurisprudenza di questa Corte relativa all’interpretazione dell’art. 246 c.p.c., in genere, secondo cui l’incapacità a testimoniare prevista da questa disposizione è correlabile soltanto ad un diretto coinvolgimento della persona chiamata a deporre nel rapporto controverso, tale da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale o processuale nel giudizio, e non già alla ravvisata, sussistenza di un qualche interesse di detta persona in relazione a situazioni ed a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza, anche in qualche modo connessi (vedi, per tutte. Cass. 10 maggio 2010, n, 11314).

E comunque, la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. 30 marzo 2010, n. 7763). Il che significa che la valutazione va fatta, caso per caso, in concreto.

Del resto. la suddetta interpretazione è conforme anche alla rado dell’art. 246 c.p.c., che, come autorevolmente affermato dalla Corte costituzionale, è una norma dettata “in funzione del principio, proprio del nostro ordinamento processuale civile, di incompatibilità delle posizioni di teste e di parte nel giudizio”, anche solo potenziale (Corte cost. sentenze n. 248 del 1974; 62 del 1995 e, da ultimo, ordinanza n. 143 del 2009). Trattandosi di una antitesi che “non è stata vista dal legislatore soltanto con riguardo a colui che sia già parte formale del giudizio ovvero parte in senso sostanziale, cioè quella in nome della quale o contro la quale viene chiesta l’attuazione della legge, ma anche rispetto al titolare o contitolare della situazione giuridica dedotta in giudizio da altro soggetto, il quale ultimo sia legittimato a farla valere in nome proprio, e rispetto al titolare di una situazione giuridica dipendente, sotto il profilo sostanziale, da quella dedotta in giudizio”.

Solo se si verificano. in concreto, le suddette condizioni può ricorrersi all’applicazione della disposizione in oggetto, non essendo configurabile, nell’ordinamento vigente, un generale divieto di testimonianza e dovendosi invece verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza (Cass. 9 febbraio 2005. n. 2621 e Cass. 16 aprile 2009. n. 9015), tanto più che, come si è detto, l’esclusione dell’incapacità a testimoniare non esclude, comunque, la necessaria valutazione della attendibilità del teste.

Peraltro, in base all’art. 421 c.p.c., u.c., il giudice può ordinare la comparizione del lavoratore che ritenga incapace di testimoniare a norma dell’art. 246 c.p.c., qualora ciò sia giustificalo da una motivata situazione di necessità che renda indispensabile il suo libero interrogatorio sui fatti di causa, onde giungere all’accertamento della verità materiale (Cass. 18 gennaio 1993. n. 557 e Cass. 8 aprile 1994, n. 3302).

La sentenza impugnata ha applicato i suddetti principi, richiamando il precedente specifico rappresentato dalla menzionata Cass. 9 maggio 2007, n. 10545.

In particolare, l’eventuale interesse riflesso della teste alla decisione, ha indotto la Corte di appello di Lecce a soffermarsi specificamente sull’attendibilità della deposizione stessa, che ha desunto dall’ampiezza e specificità delle dichiarazioni rese, dal preciso riscontro delle stesse con le dichiarazioni di altri testi e con le risultanze dei verbali di accertamento impugnali e dall’inidoneità delle dichiarazioni del teste I. indicato dal ricorrente a scalfire le suddette emergenze probatorie.

2. Con il secondo motivo di ricorso viene denunciata la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa motivazione in ordine al rigetto del motivo di appello riguardante l’inattendibilità e la nullità della deposizione della teste D..

Il motivo è inammissibile in quanto, secondo un orientamento condiviso di questa Corte, la denuncia di un errar in indicando, per violazione di norme di diritto sostanziale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, o per vizi della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, presuppone che il giudice di merito abbia preso in esame la questione prospettatagli e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto, e consente alla parte di chiedere, ed al giudice di legittimità di effettuare, una verifica in ordine alla correttezza giuridica della decisione ed alla sufficienza e logicità della motivazione, sulla base del solo esame della sentenza impugnata. Conseguentemente, tale censura non può riguardare l’omessa pronuncia del giudice di secondo grado in ordine ad uno dei motivi dedotti nell’atto di appello, la quale postula la denuncia di un errar in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in riferimento al quale il giudice di legittimità può esaminare anche gli atti del giudizio di merito, essendo giudice anche del fatto, inteso in senso processuale (Cass. 22 novembre 2006. n. 24856,; Cass. 19 gennaio 2007, n. 1196: Cass. 19 marzo 2007. n. 6361).

3. Con il terzo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per insufficiente e contraddittoria motivazione circa il punto decisivo afferente alla prevalente credibilità riconosciuta alla deposizione della teste D. rispetto a quella del teste I..

Anche tale doglianza è inammissibile perchè riguarda la valutazione comparativa delle prove testimoniali assunte e, nel ricorso, non sono state trascritte le risultanze probatorie che si assumono non adeguatamente valutate, così come richiede la giurisprudenza di questa Corte, al fine del controllo, sulla sola base del ricorso per cassazione, della decisività della prova insufficientemente valutata e/o della congruità della comparazione effettuata dal giudice del merito (vedi, per tutte. Cass. 29 settembre 2005. n. 19051).

4. Con il quarto motivo di ricorso viene denunciata la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia riguardante la mancata dimostrazione della contestata attività di collaboratrice domestica della D. presso l’abitazione del C..

Il motivo non è fondato in quanto, nella motivazione della sentenza impugnata, la Corte di appello di Lecce ha dato atto, in modo esauriente e immune da vizi logici, di aver sottoposto le risultanze di entrambi verbali di accertamento in contestazione al proprio potere di comparazione e apprezzamento rispetto a tutti gli altri clementi probatori acquisiti. Ciò è conforme all’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui i verbali di accertamento degli enti previdenziali, essendo attestazioni di fatti provenienti dalla pubblica amministrazione, sono soggetti al potere di apprezzamento e valutazione del giudice del merito, al pari di tutti gli altri elementi acquisiti (ex plurimis: Cass. SU 26 ottobre 2000. n. 1133: Cass. 3 luglio 2004, n. 12227 e Cass. 7 novembre 2008. n. 26816).

5. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata la violazione dell’art. 360, n. 5. cod. proc. civ. per contraddittorietà della motivazione circa il punto decisivo della controversia rappresentato dall’interpretazione della conciliazione della vertenza tra la D. e il C..

Sottolinea al riguardo il ricorrente che la circostanza che. nella suddetta conciliazione giudiziale intercorsa tra il C. e la D., a quest’ultima, a titolo di differenze retributive. è stata riconosciuta la “cospicua somma di L. 25.000.000 (dell’anno 1998)”, è stata considerata come un elemento di ulteriore riscontro della veridicità delle dichiarazioni rese dalla D. in merito al tipo di rapporto di lavoro pluriennale intrattenuto con il C. e alle mansioni svolte.

Secondo il ricorrente la rilevante entità dell’importo corrisposto in sede di transazione (di gran lunga inferiore a quello originariamente richiesto) avrebbe, invece, dovuto indurre la Corte di appello a valutare in termini assolutamente riduttivi l’evasione contributiva contestata al C.. sicchè il ragionamento svolto sul punto sarebbe “illogico e incomprensibile”.

Anche questo motivo – che si può ritenere ammissibile, anche in difetto della allegazione o della completa trascrizione del verbale di conciliazione in argomento, visto che non è diretto a denunciare una omessa o insufficiente valutazione di una risultanza processuale da parte del giudice di appello (arg. ex Cass. 12 maggio 2005. n. 9954), ma a contestare il merito della valutazione stessa – non è fondato.

Va infatti ribadito riguardo che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Sicchè, risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (vedi, per tutte: Cass. 7 giugno 2005. n. 11789 e Cass. 14 giugno 2010. n. 14197).

6. Conclusivamente, il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al rimborso delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, complessivamente liquidate le prime in Euro 11,00 i secondi in Euro 3000.00 (tremila/00), con accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 25 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2011

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