Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30505 del 23/11/2018

Cassazione civile sez. I, 23/11/2018, (ud. 12/09/2018, dep. 23/11/2018), n.30505

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15351/2013 proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione, in persona legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Flaminia n.322,

presso lo studio dell’avvocato Passero Cinzia, che la rappresenta e

difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione, M.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1867/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 08/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/09/2018 dal cons. TERRUSI FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA, che ha concluso per il rigetto;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato C. Passero che ha chiesto

l’accoglimento.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 8-5-2013 la corte d’appello di Milano respingeva il reclamo di (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione nei confronti della sentenza con la quale il tribunale di Milano ne aveva dichiarato il fallimento. Osservava che il sequestro preventivo penale, invocato dalla reclamante, aveva riguardato beni di proprietà di N.P., socio unico e amministratore, non anche beni della società, salva una partecipazione di modesto valore (Euro 10.149,00) nella GM s.r.l. e il saldo attivo (Euro 3.502,81) di un conto corrente acceso presso la Banca popolare di Sondrio. Riteneva quindi che non fosse possibile ricavare in alcun modo l’elenco dei beni della fallita al momento del fallimento, per cui non era dato di sapere se residuassero o meno beni non sottoposti a sequestro. Soggiungeva che il fallimento era stato chiesto in forza di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e che l’unico profilo sollevato atteneva alla questione, da considerare irrilevante ai fini della declaratoria di fallimento, se il credito dell’istante potesse esser fatto valere in sede fallimentare o in sede penale.

La corte d’appello rigettava altresì la doglianza con la quale la società aveva eccepito la mancata notifica del ricorso al custode amministratore giudiziario ai fini dell’udienza prefallimentare, non essendo stato allegato alcun interesse suscettibile di esser fatto utilmente valere in sede fallimentare dall’amministratore suddetto, salvo il profilo, estraneo e successivo alla declaratoria L. Fall., ex art. 16, dell’eventuale intreccio di gestione dei beni societari con la curatela.

Infine considerava pacificamente sussistente lo stato d’insolvenza poichè i debiti emersi non erano stati contestati, e mediante il reclamo non era stato indicato con quali beni si sarebbe potuto provvedere al relativo pagamento.

La società (OMISSIS) in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione sorretto da quattro motivi.

La curatela e il creditore istante non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Coi primi tre motivi, tra loro connessi e suscettibili di unitario esame, la ricorrente ripropone le questioni correlate alla avvenuta sottoposizione dei beni della fallita a sequestro penale con nomina di custode amministratore giudiziario.

1.1. – Col primo mezzo denunzia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 15,16 e 17 in combinato con l’art. 321 c.p.c., comma 2, e della L. n. 575 del 1965, art. 2-sexies e succ. modificazioni, e censura la sentenza affermando che legittimato a resistere all’istanza di fallimento avrebbe dovuto ritenersi il custode nominato dal giudice per le indagini preliminari di Marsala con le dette funzioni, essendo “il sequestro conservativo penale, per sua stessa definizione, finalizzato alla conservazione ed alla custodia dei beni sottoposti alla cautela reale”; dacchè il custode avrebbe dovuto ritenersi legittimato alle iniziative giudiziarie causalmente correlate alla funzione demandatagli. La gestione del patrimonio sociale, finalizzata alla sua conservazione in vista della conclusione del procedimento ablativo, non si sarebbe quindi potuta considerare non interferente con la finalità concorsuale, essa legittimando l’amministratore giudiziario ad agire in giudizio onde garantire le finalità sottese alla misura.

1.2. – Col secondo mezzo la ricorrente censura la decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 117 per avere la corte d’appello sostenuto che il sequestro non era di ostacolo alla dichiarazione di fallimento sulla base del D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. da 63 a 65. Obietta che nella specie il sequestro era stato disposto nell’anno 2007 e poi integrato l’anno successivo, sicchè dovevasi ritenere soggetto alla previgente normativa ex lege n. 575 del 1965, artt. 2 e seg.

1.3. – Infine col terzo mezzo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione della L. n. 575 del 1965, artt. 2-ter e seg. nella parte in cui ha ritenuto non ostativa al fallimento la questione “se il credito del ricorrente (potesse) esser fatto valere in sede fallimentare o in quella penale”, dal momento che, invece, la questione era determinante in base alla prevalenza della finalità della confisca rispetto alla destinazione impressa dalla sentenza ai beni del fallito per il soddisfacimento dei creditori. Da questo punto di vista, essendo il sequestro funzionale giustappunto alla confisca, le ragioni dei terzi creditori dovevano recedere e la declaratoria di fallimento avrebbe dovuto essere preclusa vuoi per l’inevitabile contrasto di procedure, altrimenti scaturente tra le due “amministrazioni”, vuoi perchè in caso di beni sottoposti a confisca obbligatoria la legge prevede che i terzi creditori debbano far valere le proprie ragioni dinanzi agli organi del sequestro penale, con le modalità dell’art. 665 c.p.p..

2. – I motivi sono infondati, anche se la motivazione della sentenza va corretta.

2.1. – Dall’esposizione dei fatti riportata nelle pagini iniziali del ricorso per cassazione, e indirettamente dal testo della sentenza, risulta innanzi tutto che il sequestro era stato adottato (nell’anno 2007) dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Marsala nell’ambito di un procedimento penale che aveva visto coinvolte più società per indebita percezione di finanziamenti e per truffa ai danni dello Stato, della regione Sicilia e dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., commi 1 e 2, e del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53.

Tutte le considerazioni svolte dalla ricorrente, al pari dei riferimenti dell’impugnata sentenza al D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, recante il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, non sono dunque conferenti, non essendosi trattato nella specie di una misura di prevenzione, sebbene di un comunissimo provvedimento cautelare di sequestro preventivo adottato dal giudice per le indagini preliminari ex art. 321 c.p.p., nel contesto di un procedimento penale coinvolgente la responsabilità amministrativa della società in base al D.Lgs. n. 231 del 2001.

2.2. – Risulta poi che il sequestro aveva attinto “le quote societarie e i beni nella disponibilità di N.P., anche per interposta persona”, e in tal senso anche la partecipazione della società (OMISSIS) nella società GM s.r.l.

Il provvedimento era stato poi integrato nell’anno 2008 previa estensione ai saldi attivi di distinti conti corrente bancari sempre riferibili al N., sebbene intestati a soggetti diversi: in particolare, uno intestato all’impresa Tecnova di N. Paolo, l’altro intestato direttamente al suddetto N., l’altro ancora intestato alla (OMISSIS) s.r.l.

In relazione ai citati sequestri era stato nominato custode il dott. S.A., commercialista di (OMISSIS), “con compiti di amministratore giudiziario”.

In tale prospettiva l’impugnata sentenza ha osservato – senza censure sul punto – che non era dato di stabilire se il provvedimento avesse o meno coinvolto tutti i beni della società (OMISSIS), poichè, tranne quelli formalmente riferiti a tale società (la partecipazione in GM s.r.l. e il saldo attivo del conto sopra detto), niente autorizzava a ritenere che N. disponesse, anche indirettamente, dell’intero patrimonio sociale come cosa propria.

Ne consegue che è inesatto sostenere – e comunque non emerge dall’accertamento dal giudice del merito – che la questione fosse quella del “sequestro della società” (espressione peraltro impropria rispetto a ciò che può costituire oggetto di un sequestro: beni o diritti).

Vero è che la corte d’appello ha ritenuto “il sequestro della società” ininfluente ai fini del fallimento, in base al disposto del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 63 (in particolare) salva la questione – ritenuta a sua volta non rilevante – “se il credito del ricorrente (potesse) esser fatto valere in sede fallimentare o in quella penale”.

Tale considerazione si palesa tuttavia fuori tema, rispetto a quanto emergente dalla motivazione, e comunque non possiede alcuna incidenza sul profilo di diritto involgente la soggezione o meno della società a fallimento.

E’ appena il caso di precisare che, in tema di fallimento della società di capitali, neppure la confisca disposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 2-ter (alla quale si allude nel secondo motivo di ricorso) interferisce con la dichiarazione di fallimento, dovendo la detta confisca intendersi riferita alle quote di partecipazione dell’indiziato di mafia e non al patrimonio sociale (v. Cass. n. 8238-12). Sicchè da ogni punto di vista va tesi sostenuta dalla ricorrente è errata.

Resta in ogni caso fermo che per le già viste ragioni non rileva, nella concreta fattispecie, nè l’art. 63 codice antimafiarichiamato dalla corte d’appello, nè la previgente L. n. 575 del 1965 alla quale ha alluso la ricorrente, essendosi qui trattato di una comune misura reale di stampo preventivo adottata nell’ambito di un procedimento penale, per quanto finalizzata anche alla confisca.

3. – Ai fini sottesi interessa invece unicamente questo: che l’assoggettamento a sequestro penale dei beni di una società – ove anche integrale (e nella specie tale integralità non risulta dalla sentenza) – non impedisce affatto la dichiarazione di fallimento.

Non la impedisce proprio perchè la declaratoria di fallimento ha come presupposto l’accertamento dello stato di insolvenza.

Nè da questo punto di vista è rilevante la questione della sede nella quale è necessario far valere il credito ai fini del suo soddisfacimento, poichè l’oggetto del procedimento per dichiarazione di fallimento non è funzionale all’accertamento (o alla verifica) del credito della parte istante, ma solo – come detto – all’accertamento dello stato d’insolvenza (cfr. Cass. n. 16945-16). Il procedimento tende al riscontro dei presupposti per l’instaurazione della procedura concorsuale senza un preciso accertamento delle obbligazioni gravanti sull’imprenditore, tanto che finanche il disconoscimento del credito posto a base dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, permeata da tale specifica funzione, suppone l’indagine incidenter tantum per non trasformare l’oggetto del procedimento in guisa tale da farne un giudizio di cognizione sullo specifico credito posto a base dell’iniziativa di parte.

Tutto ciò si suole rappresentare dicendo che lo stato di insolvenza può (e deve) essere accertato in forza della situazione reale, non (solo) della situazione specificamente rappresentata dal creditore istante.

4. – Giuridicamente irrilevante è anche la questione – negativamente risolta in fatto dalla corte territoriale – dell’esistenza o meno di una massa attiva ulteriore rispetto a quella sulla quale si dice caduto il sequestro penale.

A prescindere dal menzionato profilo di fatto, vi è che la dichiarazione di fallimento non dipende dalla sussistenza di una massa attiva da ripartire tra i creditori (v. Cass. n. 1739-14).

In particolare l’insussistenza di massa attiva suscettibile di esser ripartita non è mai di ostacolo alla sentenza di fallimento, per l’evidente ragione che del fallimento la legge fallimentare (art. 118, comma 1, n. 4) prevede la chiusura anche per mancanza di attivo.

Pertanto anche da questo punto di vista non v’era alcuna necessità di far riferimento, nel caso di specie, all’art. 63 codice antimafia.

Naturalmente anche il codice antimafia prevede (art. 63, comma 6) la chiusura (e non la revoca) del fallimento allorquando nella massa attiva siano compresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro (e una regola omologa vige in base all’art. 64, comma 7, per il caso di sequestro o confisca sopravvenuti al fallimento). Dunque anche in ipotesi di misura di prevenzione antimafia è da escludere una possibile interferenza con la questione della dichiarazione di fallimento (v. Cass. n. 608-17).

Tuttavia per quanto qui rileva è dirimente che le citate disposizioni del codice antimafia niente aggiungono a ciò che si desume dalla disciplina generale della legge fallimentare, essendo finalizzate solo a regolare la sorte dei beni oggetto di misura di prevenzione e il relativo procedimento. Sicchè, corretta nel senso suddetto la motivazione della sentenza, rimane ininfluente la questione di diritto intertemporale sollevata nel secondo motivo, à sensi dell’art. 117 codice antimafia medesimo.

5. – Altrettanto infondata è la censura svolta nel primo motivo, e pure in tal caso va corretta la motivazione della sentenza.

La corte d’appello ha rigettato la doglianza della società reclamante poichè non risultava allegato alcun interesse che il custode, nominato amministratore giudiziario, potesse far utilmente valere in sede fallimentare.

Il punto essenziale è tuttavia un altro, ed è che il sequestro preventivo penale dei beni di una società di capitali non rende il custode giudiziario contraddittore necessario nel procedimento per dichiarazione di fallimento, ove anche egli abbia avuto compiti di amministrazione giudiziaria.

Per la validità del procedimento è sufficiente la convocazione dell’amministratore della società, che resta nella titolarità di tutte le funzioni non riguardanti la gestione del patrimonio.

Ciò trova riscontro nella considerazione che la dichiarazione di fallimento non comporta l’estinzione della società ma solo la liquidazione dei beni, con conseguente legittimazione processuale dell’organo di rappresentanza a difendere gli interessi dell’ente nell’ambito della procedura fallimentare (cfr. Cass. n. 23461-14).

Va qui puntualizzato che la circostanza che al custode giudiziario sia riconosciuta una propria autonoma legittimazione processuale in rappresentanza del patrimonio sottoposto a sequestro, del quale ha l’amministrazione, non vuol dire che gli organi sociali siano venuti meno, o che gli stessi siano stati esautorati dalle proprie funzioni gestorie per gli aspetti che non concernono il patrimonio della società stessa.

Nè il precedente di questa Corte invocato dalla ricorrente (Cass. n. 22800-11) suffraga una diversa conclusione.

Val bene osservare che altro, rispetto alla validità della convocazione in sede prefallimentare, è il profilo (unicamente affrontato in quel precedente) della legittimazione a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento. Tale facoltà può certamente esser riconosciuta al custode giudiziario – come appunto affermato dalla sentenza n. 22800 del 2011 – ma senza che da ciò derivino conseguenze a proposito del contraddittorio in sede prefallimentare, da assicurare esclusivamente in rapporto all’organo sociale propriamente inteso, dotato di poteri di rappresentanza.

Del resto non emerge dalla sentenza, nè è minimamente paventato nel ricorso, che il custode abbia altresì assunto – come pur sarebbe stato possibile (cfr. Cass. n. 12072-14) – la funzione di amministratore della società in sostituzione del soggetto ( N.P.) risultante statutaria mente.

6. – Col quarto motivo la ricorrente censura, per violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., la statuizione della corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto la sussistenza dello stato d’insolvenza in base alla non contestazione dei crediti, nonostante che i medesimi fossero portati da titoli (decreto ingiuntivo e cartella esattoriale) notificati al solo socio unico e amministratore N., dopo la nomina dell’amministratore giudiziario.

Il quarto motivo, che ben vero sviluppa la tesi solo con riguardo a un credito di Equitalia, è inammissibile per diverse ragioni: innanzi tutto perchè giustappunto parziale, a fronte dell’affermata (in sentenza) non contestazione dello stesso credito dell’istante M.F.; in secondo luogo perchè falsato dalla errata prospettiva più sopra indicata, che confonde la funzione amministrativa dei beni sequestrati con la funzione amministrativa e di rappresentanza della società, sì da pretendere ai fini della validità del titolo di Equitalia (di cui peraltro la sentenza non parla) che codesto risulti preventivamente notificato al custode amministratore giudiziario dei beni sequestrati; infine poichè assertivo e privo di autosufficienza, dal momento che giustappunto ipotizza fatti che dalla sentenza non emergono.

L’esistenza della situazione di insolvenza, essendosi trattato di società in liquidazione, è stata desunta dalla non contestazione del credito e dalla mancata indicazione di beni all’attivo patrimoniale funzionali a garantirne il soddisfacimento. E su tali affermazioni della sentenza non sono state svolte censure.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 12 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018

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