Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30494 del 21/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 21/11/2019, (ud. 11/07/2019, dep. 21/11/2019), n.30494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5750-2018 proposto da:

S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ANTONIO MORIA TONDO;

– ricorrente –

contro

C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALDO DELLA

ROCCA 49, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA BARTOLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO PERRONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 41/2018 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 12/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 11/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. SCODITTI

ENRICO.

Fatto

RILEVATO

che:

C.E. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Brindisi S.C. chiedendo il risarcimento del danno cagionato all’immobile di sua proprietà dai lavori commissionati dal convenuto presso l’abitazione di proprietà del medesimo. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al pagamento della somma di Euro 13.753,20 oltre interessi. Avverso detta sentenza propose appello il S.. Con sentenza di data 12 gennaio 2018 la Corte d’appello di Lecce rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale che, sulla base della CTU e della relazione integrativa del consulente in appello, ricorreva l’ipotesi dell’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., avuto riguardo fra l’altro ai lavori di scavo di rilevante profondità ed all’utilizzo di martelli demolitori, e che, quanto all’utilizzo nella CTU dell’avverbio “verosimilmente” a proposito del nesso causale fra attività pericolosa ed evento dannoso, nella relazione integrativa era stato chiarito che si trattava di espressione equivalente a “elevatissima probabilità” con riferimento all’utilizzo dei mezzi meccanici. Concluse nel senso che doveva escludersi qualsiasi dubbio in ordine al nesso eziologico e che tale nesso era dimostrato, al di là delle espressioni adoperate dal CTU, in termini ragionevoli da quanto riferito dal medesimo CTU.

Ha proposto ricorso per cassazione S.C. sulla base di un motivo e resiste con controricorso la parte intimata. Il relatore ha ravvisato un’ipotesi d’inammissibilità del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il motivo di ricorso si denuncia omesso esame delle osservazioni del consulente di parte, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che manca la prova dell’esistenza del nesso eziologico fra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso ed in particolare: la CTU non fornisce un quadro sufficientemente certo ed incontrovertibile della responsabilità del S.; l’immobile del S. è costituito da conci di tufo che rendevano inutile l’utilizzazione di mezzi demolitori; nella consulenza di parte si specifica che furono utilizzati mezzi manuali e che si è trattato di intervento eseguito in più fasi in modo da limitare i danni agli immobili limitrofi; grosso modo nel medesimo periodo dei lavori nell’immobile del S. anche la C. aveva svolto lavori di ristrutturazione nel proprio immobile, come si desume dalla relazione del consulente di parte della C.; alla data dei fatti la C. già abitava altrove, sicchè non aveva modificato forzatamente il proprio domicilio in conseguenza dei lavori presso l’immobile del S., ma solo per i lavori di ristrutturazione del proprio immobile. Aggiunge che la CTU non può colmare il mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attrice.

Il motivo è inammissibile. Nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; 27 settembre 2016, n. 19001; 22 dicembre 2016, n. 26774). Tale onere processuale non risulta assolto. Sussistono tuttavia ulteriori profili di inammissibilità del motivo.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive. Sulla base di tale premessa, Cass. 18 ottobre 2018, n. 26305 non ha accolto il motivo di ricorso con il quale il ricorrente si doleva che il giudice d’appello non avesse tenuto conto delle risultanze della consulenza tecnica di parte, sottolineando come, nonostante il suo contenuto tecnico e a differenza della consulenza tecnica d’ufficio, la c.t.p. costituisca una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio (si veda anche Cass. 14 giugno 2017, n. 14802). Peraltro in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non si indicano le specifiche ragioni di appello in punto di sollecitazione all’esame della consulenza di parte.

Va inoltre evidenziato che l’accertamento dell’esistenza del nesso eziologico spetta al giudice di merito, mentre compete a questa Corte, salvo il sindacato in ordine alla denuncia di vizio motivazionale, il controllo se nello svolgimento del giudizio di fatto il giudice di merito abbia rispettato le connotazioni normative del rapporto causale fra condotta e danno. Il ricorrente non si duole del mancato rispetto delle coordinate normative del nesso eziologico ma del riconoscimento dell’esistenza di tale nesso, assumendone l’inesistenza. In tali limiti la censura corrisponde ad un’istanza di rivalutazione del giudizio di merito, inammissibile nella presente sede di legittimità. Non vi è poi rituale denuncia di vizio motivazionale, mediante la specifica indicazione di fatto decisivo e controverso il cui esame sarebbe stato omesso, ma un apprezzamento delle circostanze fattuali, di segno diverso da quello operato dal giudice di merito, essenzialmente basato sugli argomenti svolti nella CTU ed in quella di parte.

La censura relativa al cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito è inoltre inammissibile perchè la valutazione della prova non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892 ribadita in motivazione da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016, oltre che da numerose conformi).

Infine va rammentato che benchè le parti non possano sottrarsi all’onere probatorio a loro carico invocando, per l’accertamento dei propri diritti, una consulenza tecnico di ufficio, non essendo la stessa un mezzo di prova in senso stretto, è tuttavia consentito al giudice fare ricorso a quest’ultima per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario (c.d, consulenza percipiente) purchè la parte, entro i termini di decadenza propri dell’istruzione probatoria, abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda, ed il loro accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (fra le tante Cass. 22 gennaio 2015 n. 1190 e 10 settembre 2013, n. 20695)

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2019

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