Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30485 del 19/12/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 19/12/2017, (ud. 16/11/2017, dep.19/12/2017),  n. 30485

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

A.E. conveniva in giudizio i germani M. e G. chiedendo l’annullamento per incapacità naturale del testamento olografo redatto dalla madre F.E. in data 17/10/2001 con il quale aveva legato al figlio G. alcuni immobili, chiedendo in via subordinata disporsi la riduzione sia della disposizione contenuta in detto testamento, sia delle disposizioni a favore del figlio M. contenute nei testamenti olografi del (OMISSIS) e del (OMISSIS), in quanto lesive della propria quota di legittima.

Si costituiva il convenuto A.G. che contestava la fondatezza della domanda e chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione ereditaria, tenendo conto in particolare delle passività.

Alle difese del convenuto si associava anche l’altro convenuto A.M..

L’attore chiedeva quindi la resa del conto.

Il Tribunale di Treviso con la sentenza n. 1080 del 6 giugno 2013 rigettava l’impugnativa del testamento, dichiarava inammissibili le domande proposte in epoca successiva agli atti introduttivi, ed accoglieva la domanda di riduzione dell’attore, ritenendo sussistere una lesione di Euro 273.490,82. Per l’effetto disponeva lo scioglimento della comunione con assegnazione di distinti lotti ai germani, condannando G. e M. al pagamento della somma equivalente alla quota dei frutti civili prodotti dai beni legati a far data dall’apertura della successione.

A seguito di appello principale di A.G. e di appello incidentale di A.E., la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1979 del 19 agosto 2015 in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva l’importo da questi dovuto al fratello E. a titolo di frutti non goduti, limitandoli al solo bene sito nel Comune di Jesolo, rigettando per il resto gli altri motivi dell’appello principale e l’appello incidentale.

Esaminava prioritariamente l’appello incidentale indirizzato al rigetto della domanda di annullamento del testamento, ritenendo corretta la decisione gravata.

A tal fine osservava che in base ai principi generali elaborati dalla giurisprudenza, l’onere della prova circa l’incapacità naturale del testatore incombeva sull’attore, in quanto le condizioni di salute della de cuius in epoca prossima alla redazione del testamento non erano tali da far ritenere sussistente una condizione permanente di incapacità.

Infatti, sebbene la stessa fosse reduce da un ricovero ospedaliero, all’esito del quale era stata dimessa con una diagnosi di demenza senile multinfartuale, tuttavia si trattava di patologia, alla luce anche di quanto emergeva dalle indagini peritali, che non comportava un’incapacità assoluta e permanente, tale da determinare un’inversione dell’onere della prova.

Nè le prove orali apparivano univoche in un senso o nell’altro, atteso che mentre alcuni testi avevano fatto riferimento ad una incapacità assoluta, altri avevano invece dichiarato che la testatrice anche dopo il ricovero era lucida e partecipe delle conversazioni che avvenivano alla sua presenza.

In merito al secondo motivo di appello incidentale con il quale l’attore si doleva del fatto che gli fosse stato assegnato all’esito della divisione, ed a tacitazione dei suoi diritti di riserva, la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS) legato al fratello G., la Corte distrettuale riteneva corretta la soluzione del Tribunale rispondendo alla previsione di cui all’art. 560 c.c. che consente, ed anzi suggerisce in via preferenziale, di tacitare i diritti del legitti m. mediante beni in natura.

Ancora condivideva la valutazione di inammissibilità, in quanto tardiva, della domanda dell’attore di includere nella massa anche gli utili spettanti alla madre della società Eredi A. S.n.c., mancando in ogni caso la prova circa l’effettiva esistenza di tali utili, e rigettava il motivo dell’appello principale volto a contestare il valore attribuito dal CTU alla cava legata al figlio G. con il testamento oggetto di impugnazione.

Infine, accoglieva il motivo dell’appello principale con il quale A.G. lamentava l’eccessiva misura delle somme riconosciute quali frutti in favore della controparte.

In particolare, ancorchè tale domanda dell’attore dovesse reputarsi tempestiva, tuttavia i frutti andavano calcolati unicamente sulla quota dell’immobile ubicato nel Comune di (OMISSIS) e che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, era stato assegnato ad E., posto che gli altri beni ricevuti per testamento da G., non erano stati sottoposti a riduzione.

A.E. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi.

A.G. ha resistito con controricorso.

A.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per la sua pretesa tardività.

Infatti, in assenza di notificazione della sentenza, alla fattispecie trova applicazione il termine lungo annuale di cui all’art. 327 c.p.c., e quindi essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 19/8/2015, tenuto conto del periodo di sospensione feriale pari a trentuno giorni, il termine per la proposizione del ricorso veniva a scadere in data 1 ottobre 2016 (e non il 30 settembre, come invece erroneamente dedotto dal controricorrente, facendo riferimento ad un periodo di sospensione feriale di soli trenta giorni). Poichè il 1 ottobre era un sabato, ne scaturisce il differimento ex lege del termine al primo giorno lavorativo successivo che è appunto il 3 ottobre, allorquando risulta notificato il ricorso.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione delle regole di riparto dell’onere della prova.

Assume il ricorrente che erroneamente i giudici di appello hanno affermato che fosse onere dell’attore dimostrare che la de cuius era assolutamente incapace di intendere e di volere alla data di redazione del testamento, posto che à contrario emergeva in maniera evidente dal complesso delle risultanze istruttorie che la testatrice versava in condizioni di salute tali da renderla permanentemente incapace.

Il secondo motivo denunzia poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 e 591 c.c. quale conseguenza dell’erronea individuazione delle regola di riparto dell’onere della prova.

I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono del tutto privi di fondamento.

Ed, invero anche a voler trascurare l’erroneo inquadramento nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 della violazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., vale ricordare in linea di principio che la violazione di tale norma si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.

Con specifico riferimento all’azione di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore, la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato il principio per cui (cfr. Cass. n. 27351/2014) l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poichè lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (conf. Cass. n. 9081/2010).

La sentenza impugnata, in ordine all’individuazione del soggetto gravato dell’onere della prova, ha fatto corretta applicazione di tali principi, pervenendo alla conclusione in punto di fatto, e come tale insuscettibile di essere sindacata in questa sede, anche perchè frutto di logica e coerente argomentazione, secondo cui la de cuius, ancorchè affetta da alcune patologie, anche suscettibili di incidere sulle sua capacità psichiche, aveva conservato una capacità di autodeterminarsi, o meglio che non vi era prova che la stessa fosse del tutto priva, ed in maniera permanente, della capacità di intendere e di volere.

Per formulare tale valutazione la sentenza gravata ha preso in esame le risultanze dei referti ospedalieri, ed in particolare di quelli prossimi alla data dell’atto impugnato, avvalendosi ai fini della loro interpretazione anche delle indagini del perito d’ufficio, che del pari aveva concluso per l’impossibilità di poter ricondurre, ed in maniera automatica, alla patologia della demenza senile multinfartuale un grave e repentino decadimento delle funzioni psichiche, tenuto conto anche del fatto che prima della caduta che ne aveva provocato il ricovero nel settembre del 2001, la F. aveva conservato un buon equilibrio psichico.

Al fine di completare la propria indagine, la sentenza impugnata ha anche dato contezza dell’esito della prova testimoniale, sottolineando come il contrasto tra le deposizioni non permetteva di ravvisare quella situazione che avrebbe giustificato l’inversione della regola dell’onere della prova che, appunto, pone a carico di colui che invoca l’invalidità del testamento, la dimostrazione dell’incapacità della de cuius al momento della redazione dell’atto di ultima volontà.

La rapida sintesi delle argomentazioni spese dal giudice di appello permette di affermare che la conclusione raggiunta sia il frutto di una attenta e ponderata valutazione delle risultanze istruttorie, occorrendo a tal fine ricordare che (cfr. Cass. n. 23900/2016) quando un giudizio – come, nella specie, quello sulla capacità di intendere e di volere della persona defunta (al fine di valutarne la capacità di testare) – deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi nonchè alle difese delle parti, senza che peraltro, l’eventuale silenzio della motivazione su taluni dei predetti elementi possa essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato e non si possa affermare che, senza quel silenzio, la decisione avrebbe potuto essere diversa.

Il motivo di ricorso in esame appare invece volto a sollecitare, in maniera peraltro non sempre specifica, facendosi richiamo ad atti ovvero a risultanze probatorie, delle quali non risulta puntualmente riportato il contenuto, esclusivamente una diversa rivalutazione dei fatti di causa, laddove anche la denunziata violazione di legge è solo apparente.

Infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129), ma oggi negli ancor più ristretti limiti della novella del 2012.

Il terzo motivo denunzia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto gli sarebbero stati riconosciuti i frutti solo sulla quota di 1/3 dell’immobile sito in (OMISSIS).

Si deduce che sarebbe stato però omesso il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che tutti i beni assegnati al convenuto G. erano stati oggetto dell’azione di riduzione, ed in particolare anche la cava legata con il testamento del 2001.

La proposizione dell’azione di riduzione, ed il riscontro della sussistenza della lesione ha fatto sì che anche gli altri beni attributi per testamento siano caduti in comunione e che quindi i frutti debbano essere calcolati su tutti i beni de quibus.

Il quarto motivo denunzia la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in quanto, limitando il calcolo dei frutti al solo detto immobile, la Corte di merito ha accolto una domanda che non era mai stata proposta dal convenuto.

Anche gli ultimi due motivi vanno congiuntamente esaminati attesa la loro connessione, rivelandosi del pari privi di fondamento.

Premessa l’erroneità della denuncia della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla limitazione del calcolo dei frutti al solo bene assegnato all’attore a tacitazione dei suoi diritti di legittimario, non potendosi ritenere che tale limitazione costituisca l’accoglimento di una domanda del convenuto, essendosi il giudice limitato unicamente a determinare le modalità attraverso le quali andava accolta la diversa domanda attorea di riconoscimento dei frutti ex art. 561 c.c., ed anche a voler sorvolare circa la corretta sussumibilità del preteso vizio denunziato nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la soluzione alla quale è pervenuta la sentenza gravata è immune dalle critiche mosse.

Ed, infatti, all’esito del giudizio, e senza che sul punto sia stata avanzata censura da parte del ricorrente, la Corte di Appello, recependo le indicazioni già date dal Tribunale, pur riscontrando la lesione dei diritti di riserva dell’odierno ricorrente, ha ritenuto però di dover soddisfare tali diritti con l’assegnazione in natura di un solo bene, tra quelli assegnati per testamento al fratello G., e precisamente con la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS).

Sebbene la domanda di riduzione avesse inteso aggredire tutti i beni dei quali i germani erano a vario titolo beneficiari, emerge chiaramente che la soluzione alla quale si è pervenuti, è stata quella di individuare l’entità della lesione, tenendo conto del valore anche delle attribuzioni mortis causa, ritenendo che tale lesione potesse però essere tacitata con l’assegnazione in natura del solo bene in questione, avendo l’attore ricevuto all’esito della divisione altri beni in natura, non oggetto delle disposizioni testamentarie, con il riconoscimento anche di un conguaglio in denaro a carico del fratello G., al fine di assicurare la perequazione di valore delle quote.

Ebbene, in presenza di una soluzione siffatta, vale richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 7478/2000) al legittimario cui venga restituito un immobile per reintegrare la quota di legittima spetta, a norma dell’art. 561 cod. civ., anche il diritto ai frutti quali accessori del bene, in relazione al suo mancato godimento, mentre, nell’ipotesi in cui il bene non possa essere restituito e la reintegrazione della quota di riserva avvenga per equivalente monetario, con l’ulteriore riconoscimento degli interessi legali sulla somma a tal fine determinata, nulla è dovuto per i frutti, posto che gli interessi legali attribuiti rispondono alla medesima finalità di risarcire il danno derivante dal mancato godimento del bene (lucro cessante) e pertanto il cumulo tra frutti e interessi comporterebbe la duplicazione del riconoscimento di una medesima voce di danno (conf. Cass. n. 843/1965).

Trattasi peraltro di una coerente applicazione del diverso principio per il quale (cfr. Cass. n. 1079/1970) colui che possiede un bene in virtù di un atto a titolo gratuito o di una disposizione testamentaria, possiede in virtù di un titolo idoneo a trasferire il dominio, il quale è originariamente valido e tale rimane fino a che non sia esercitata l’azione di riduzione, il cui accoglimento ne determina appunto l’inefficacia, con effetto dalla data della domanda giudiziale. La norma dell’art. 561 cod. civ., comma 2 costituisce un’applicazione del suddetto principio e, pertanto, in ogni caso di disposizione testamentaria o di donazioni, soggette a riduzione, i frutti dei beni da restituire sono dovuti al legittimario con decorrenza dalla domanda giudiziale. Se, però, si debba corrispondere una somma di denaro, nei casi previsti dalla legge o pattuiti dalle parti, i frutti non sono dovuti affatto, in quanto l’obbligazione di restituzione dei frutti è consequenziale a quella di restituzione del bene che li produce se il diritto del legittimario si è trasformato in un diritto di credito, viene meno la detta conseguenzialità, mancando la cosa fruttifera.

Pertanto, e tornando al caso in esame, poichè il ricorrente non ha contestato la divisione dei beni operata dal giudice di merito, con la quale è stata assicurata anche la riduzione delle disposizioni lesive, ed atteso che all’esito di tale divisione, dei beni assegnati per testamento ai fratelli, gli è stato restituito il solo bene in (OMISSIS) e pro quota, correttamente i frutti sono stati calcolati esclusivamente in relazione al mancato godimento di tale cespite, non potendosi estendere la pretesa a beni diversi, il cui acquisto iure hereditario non è stato inficiato dall’accoglimento della domanda di riduzione.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2017

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