Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30482 del 28/10/2021

Cassazione civile sez. VI, 28/10/2021, (ud. 05/10/2021, dep. 28/10/2021), n.30482

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3973/2021 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Migliaccio;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

Avverso la sentenza n. 1065/2020 della Corte d’appello di Catanzaro,

depositata il 21/7/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 5/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. IOFRIDA

GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 1065/2020 depositata in data 21/7/2020, ha respinto l’impugnazione di A.S., cittadino del Pakistan avverso ordinanza del Tribunale che aveva respinto la sua richiesta, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, i giudici d’appello, ritenuta preliminarmente non necessaria una nuova audizione del richiedente, hanno sostenuto che: il racconto del richiedente (essere stato costretto a fuggire temendo ritorsioni da parte di alcuni pregiudicati che avevano minacciato il proprio fratello ed ucciso il figlio di questi) era non credibile, per assoluta genericità, anche considerato irragionevole un protratto astio nei suoi riguardi per un decennio, e doveva essere confermato il giudizio del Tribunale sull’insussistenza dei presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; in ordine alla protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 lett. c), il motivo era infondato perché non sussisteva in Pakistan una situazione di violenza indiscriminata (sulla base dei siti consultati: South Asia Terrorism Portai 2012.2016, Enciclopedia Treccani, con gli aggiornamenti ed articoli correlati, riviste di geopolitica quali Limes, Amnesty International, il sito del Ministero degli Esteri); neppure ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, in difetto di condizioni, oggettive o soggettive, di vulnerabilità.

Avverso la suddetta pronuncia, A.S. propone ricorso per cassazione, notificato 21/1/21, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione). E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti. Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta a) con il primo motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi per il riconoscimento dello status di rifugiato e di avente diritto alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b), rappresentati dal fatto che i suoi agenti persecutori erano membri di un partito politico pakistano, il PPP, i quali avevano osteggiato con atti intimidatori e violenti la candidatura di suo fratello nel partito opposto, il ML, alle elezioni locali e non si trattava quindi di “meri pregiudicati”, cosicché era stato allegato un concreto rischio di persecuzione per ragioni politiche; b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4 e 5, e art. 14, lett. c) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento dei profili di danno grave derivante da una situazione di violenza indiscriminata nel Paese d’origine, avendo oltretutto la Corte d’appello utilizzato informazioni non precise ed aggiornate; c) con il terzo motivo, l’omesso esame di fatti decisivi, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentati dalla situazione di vulnerabilità oggettiva dovuta alla crisi umanitaria, violenza diffusa e compressione dei diritti fondamentali in Pakistan e soggettiva (atteso il lasso di tempo trascorso dall’arrivo in Italia, otto anni, la condizione di sfollato interno in cui il richiedente potrebbe trovarsi in caso di rientro nel Paese d’origine), nonché l’omesso esame del livello di integrazione raggiunto in Italia per effetto di inserimento lavorativo dal 2016, socio-culturale (conoscenza della lingua italiana), documentati, in relazione al diniego di protezione umanitaria.

2. La prima e la seconda censura, da trattare unitariamente in quanto connesse, sono inammissibili.

In ordine alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, è vero che nella materia in oggetto il giudice ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534); ma la Corte di merito ha attivato il potere di indagine nel senso indicato.

Invero si è già chiarito che, in tema di protezione internazionale, la valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (cfr. Cass. 27593/2018 e Cass.29358/2018).

Anche di recente (Cass. 11925/2020), si è affermato che “la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicché, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati e si è proceduto poi ad un approfondimento istruttorio, confermandosi, con congrua motivazione, il giudizio di insussistenza di una situazione di violenza generalizzata in Pakistan, già espresso in primo grado, rilevandosi che nel Paese si sta fronteggiando il problema del terrorismo islamico.

La doglianza è altresì inammissibile perché, in maniera peraltro del tutto generica, anche con riguardo al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) ed alla questione delle fonti informative, mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta sulla base di informazioni tratte da fonti attuali e dunque insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

3. Il terzo motivo è del pari inammissibile.

Il ricorrente censura il rigetto della richiesta di protezione umanitaria, lamentando genericamente che la Corte d’appello non avrebbe vagliato la condizione di particolare vulnerabilità cui sarebbe esposto il richiedente, in caso di rientro nel Paese, con riferimento alla perdita dell’integrazione raggiunta in Italia.

Ora la Corte territoriale ha motivatamente ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio né integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali.

Le Sezioni Unite (Cass. 24413/2021) si sono nuovamente pronunciate sul tema della protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, e del contenuto della valutazione comparativa affidata al giudice, tra la situazione che, in caso di rimpatrio, il richiedente lascerebbe in Italia e quella che il medesimo troverebbe nel Paese di origine, già condiviso dalle Sezioni Unite, con la precedente sentenza n. 29459/2019, affermando il seguente principio di diritto: “In base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno”.

Ora, il ricorso risulta del tutto generico anche in relazione all’integrazione effettiva in Italia del richiedente, limitandosi lo stesso a dedurre di aver potuto lavorare nel nostro Paese (dal 2016, senza altra specificazione).

4. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2021

 

 

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