Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30443 del 23/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 23/11/2018, (ud. 11/10/2018, dep. 23/11/2018), n.30443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22190-2017 proposto da:

TORRE ROSSA S.R.L., PALAZZO CARPEGNA S.R.L., in persona dei legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

MONTE ZEBIO, 32, presso lo studio dell’avvocato CHRISTIANO GIUSTINI,

che le rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

A.S., C.P., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

GERMANICO, 172, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO BRUNETTI,

che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIER LUIGI

PANICI, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3866/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/07/2017 R.G.N. 1376/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato EUGENIO CIPOLLA per delega Avvocato CHRISTIANO

GIUSTINI;

udito l’Avvocato ANDREA MATRONOLA per delega verbale Avvocato PIER

LUIGI PANICI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Roma adito con procedimento ex lege n. 92 del 2012 da A.S. e C.P., accertato che le stesse erano dipendenti delle società Torre Rossa Srl e Palazzo Carpegna Srl, che costituivano un unico centro di imputazione, dichiarò che per i licenziamenti intimati loro non ricorrevano gli estremi del giustificato motivo oggettivo e condannò le convenute in solido ad indennizzare ciascuna attrice nella misura di 18 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Proposta opposizione da parte delle sole società, lo stesso Tribunale, confermata l’illegittimità dei licenziamenti, condannò l’unico centro di imputazione di interessi costituito dalle opponenti alla reintegrazione delle lavoratrici nel posto di lavoro nonchè al pagamento in solido di una indennità per ciascuna commisurata a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17 luglio 2017, ha respinto il reclamo proposto dalle soccombenti società.

Per quanto qui rileva la Corte ha ritenuto che “avendo formulato domanda di reintegrazione in sede di conclusione dei propri ricorsi L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 47 e 48 non era necessario per le lavoratrici riproporre tale domanda, formulando apposita riconvenzionale, nella fase di opposizione. Nè, al contempo, risulta violato il diritto di difesa delle società reclamanti, atteso che la fase dell’opposizione rappresenta una prosecuzione della precedente fase sommaria, che consente un nuovo esame della domanda, nelle forme ordinarie e con cognizione piena, di ogni questione oggetto della fase precedente”.

2. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso la Torre Rossa Srl e la Palazzo Carpegna Srl con 2 motivi, cui hanno resistito le lavoratrici con unico controricorso.

Le società ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso denuncia “violazione e/o falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1 e degli artt. 416 e 418 c.p.c.”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si lamenta che, nonostante nella fase sommaria del rito speciale il Tribunale non avesse accolto la domanda di reintegrazione ma solo quella subordinata di tutela indennitaria, nella successiva fase di opposizione azionata dalle sole società le lavoratrici si erano limitate a riproporre, con la comparsa di costituzione, la domanda reintegratoria, “ma senza introdurre nè opposizione incidentale, nè domanda riconvenzionale”, per cui lo stesso Tribunale avrebbe dovuto dichiarare la medesima inammissibile e non invece disporre la reintegrazione.

Con il secondo motivo si denuncia “lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost. e art. 111 c.p.c.) – error in procedendo – nullità”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si deduce che la decisione della fase sommaria aveva affermato la sussistenza del “fatto” posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, rilevando invece la sola violazione dell’obbligo di repechage, di talchè le società avevano necessariamente improntato su tale ultimo profilo l’opposizione, per cui avere consentito la prosecuzione della domanda sulla “manifesta infondatezza” avrebbe determinato una ingiusta lesione del diritto di difesa, che non poteva essere assicurato da mere deduzioni a verbale e che si era concretizzata, esemplificativamente, nella mancata concessione di termini per deduzioni e per istanze di prova.

2. I motivi, esaminabili congiuntamente per connessione, sono infondati.

Rispetto al procedimento regolato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, commi 47 e ss., (cd. rito “Fornero”), essi pongono questione del se, nella fase di opposizione instaurata da una delle parti avverso l’ordinanza che ha accolto o rigettato la domanda (comma 49) “avente ad aggetto l’impugnativa del licenziamento” (comma 48), la parte opposta, che sia risultata parzialmente soccombente nella prima fase, possa comunque richiedere al giudice di delibare le domande o le eccezioni già proposte e non accolte, anche senza aver formulato una autonoma opposizione ed anche ove sia spirato il termine di trenta giorni previsto per l’opposizione (comma 51).

Il Collegio intende dare continuità al principio già espresso da questa Corte che ha dato risposta positiva al quesito (v. Cass. n. 3836 del 2016 e Cass. n. 21156 del 2018) – osservando quanto segue.

2.1. Occorre muovere dalla pronuncia delle Sezioni unite civili n. 19674 del 2014 secondo cui il “carattere peculiare” del nuovo rito speciale, finalizzato all’accelerazione dei tempi del processo relativo all’applicazione delle tutele modellate dal novellato L. n. 300 del 1970, art. 18 “sta nell’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado”.

In particolare questa seconda fase “non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio dì primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario”; in essa, secondo le Sezioni unite, “il procedimento si riespande… alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti”.

La negazione della natura impugnatoria dell’opposizione si è oramai consolidata in termini di diritto vivente, come riconosciuto dalle stesse Sezioni unite con l’ordinanza n. 4308 del 2017 (che cita le decisioni conformi: Cass. n. 3136 del 2015; Cass. n. 7782 del 2015; Cass. n. 4223 del 2016; Cass. n. 17325 del 2016; Cass. n. 19552 del 2016), per cui, nella soluzione della questione che ci occupa, nonostante talune perplessità manifestate dalla dottrina, non può essere seguita una interpretazione che ponga in discussione siffatto asserto, atteso che, con specifico riferimento alle disposizioni processuali, se la formula della legge è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile (cfr. Cass. SS.UU. n. 10864 del 2011).

2.2. Anche la Corte costituzionale, con sentenza 20 maggio 2015 n. 78, ha escluso che il giudizio di opposizione in discorso si risolva in una revisio prioris instantiae, così respingendo i dubbi di legittimità costituzionale circa la possibile identità del giudice investito dell’opposizione all’ordinanza con la stessa persona fisica che l’ha pronunciata all’esito della fase sommaria.

Ragionando su “ruolo e… funzione” che assolve la fase oppositoria nel complessivo contesto del nuovo rito speciale, il Giudice delle leggi ha rilevato che “l’opposizione non verte sullo stesso oggetto dell’ordinanza opposta, nè è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purchè fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori”. “Il che – secondo la Corte costituzionale – esclude che la fase oppositoria (nell’ambito del giudizio di primo grado)… possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta”.

La richiamata pronuncia rileva altresì che l’ordinanza – in esito alla fase di opposizione – “è destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio” e che “la circostanza che l’art. 1, comma 50 legge in esame non preveda la possibilità che l’efficacia esecutiva dell’ordinanza che definisce la prima fase possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che conclude la successiva fase di opposizione costituisce, a sua volta, conferma ulteriore della ravvisabilità, nella specie, di un giudizio unico anche se contraddistinto da due fasi, in conformità, del resto, al diritto vivente ormai univocamente formatosi sulla questione”.

2.3. La negazione della natura impugnatoria del giudizio di opposizione, così come emerge dal quadro giurisprudenziale innanzi descritto, lungi dal prefigurare una disputa meramente qualificatoria, produce rilevanti conseguenze dal punto di vista della disciplina, per quanto qui ci occupa, in quanto esclude che possano trovare applicazione alla fase introdotta con il ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, in via analogica, le regole previste per le impugnazioni incidentali, anche tardive.

Diversamente da quanto accade, ad esempio, per il giudizio di opposizione al decreto ex art. 28 S.d.L. cui è stato espressamente riconosciuto “contenuto impugnatorio” (Cass. SS.UU. n. 20161 del 2010), tale da far scattare l’obbligo di astensione del giudice per aver conosciuto della causa in un “altro grado” (C. cost. n. 387 del 1999), con la conseguenza di ritenere applicabili, in quel caso, i principi enucleabili dalla disciplina delle impugnazioni in generale (artt. 323 e ss.) ed ammissibile una opposizione tardiva.

2.4. Piuttosto, valorizzata la natura prosecutoria del giudizio di opposizione che ci occupa (v. anche Cass. n. 25046 del 2015) nonchè lo svolgimento di esso come stadio progressivo del medesimo procedimento di primo grado, l’inapplicabilità delle regole sulle impugnazioni incidentali non incide sul diverso piano delle modalità attraverso le quali i contendenti che nella fase sommaria non abbiano visto accolte le loro istanze possano comunque chiederne al giudice l’esame nella fase di opposizione instaurata dalla controparte.

Infatti, una volta che una delle parti propone una “opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore” (comma 51), viene meno l’attitudine dell’ordinanza emessa in fase sommaria ad acquisire la stabilità della cosa giudicata (cfr. Cass. SS.UU. n. 17443 del 2014; Cass. SS.UU. n. 19674/2014 cit.), che consegue solo al caso in cui la stessa non venga opposta da alcuno nel termine di decadenza previsto (cfr. Cass. n. 21720 del 2018, in motivazione), tanto che, in seguito all’opposizione, l’ordinanza è integralmente sostituita dalla sentenza pronunciata all’esito della seconda fase che “provvede… all’accoglimento o al rigetto della domanda” (comma 57 che richiama la stessa formula del comma 49) e non già alla semplice revoca o conferma dell’ordinanza emessa.

L’opposizione produce così la riespansione del giudizio, per cui il giudice di primo grado è chiamato ad esaminare l’oggetto dell’originaria impugnativa di licenziamento nella pienezza della cognizione integrale.

Di qui la conferma dell’assunto, già espresso da questa Corte, in base al quale “non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato su alcune statuizioni e non su altre della ordinanza, atteso che quest’ultima è destinata ad acquisire il carattere della definitività nella sola ipotesi in cui l’opposizione non venga promossa” (Cass. n. 3836/2016 cit.; successiva conf. Cass. n. 21156/2018 cit.).

2.5. Una volta esclusa l’attitudine alla stabilità del giudicato dell’ordinanza opposta anche da una sola delle parti parzialmente soccombente, resta da verificare in qual modo il corredo di domande, di eccezioni, di istanze, già avanzate nella fase sommaria e non accolte oppure assorbite, possa essere sottoposto alla rituale delibazione del giudice dell’opposizione.

L’espresso richiamo all’art. 414 c.p.c., quanto ai requisiti del ricorso in opposizione, unitamente a quello dell’art. 416 c.p.c., quanto alla memoria di costituzione, e dell’art. 421 c.p.c., quanto ai poteri d’ufficio del giudice, implica che l’opposizione sia modellata sulla disciplina dell’ordinario giudizio di primo grado di cui agli artt. 413 c.p.c. e ss., cui deve farsi riferimento per integrare quella speciale prevista dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 51-57 senza possibilità di fare ricorso alle norme sulle impugnazioni.

In particolare l’opposto, “fino a dieci giorni prima dell’udienza” (comma 51), “deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c.” (comma 53); in tale memoria difensiva potrà dunque “riproporre la domanda o le difese non accolte, e ciò anche nella ipotesi in cui per la parte che si costituisce sia spirato il termine per proporre autonomo atto di opposizione” (in termini Cass. n. 3836/2016 cit.; successiva conf. Cass. n. 21156/2018 cit.).

L’ammissibilità di una mera riproposizione in memoria di costituzione, non preclusa da un giudicato che non si è formato mercè l’opposizione della controparte, è coerente con un giudizio di opposizione che riespande l’oggetto del contendere nella dimensione della cognizione ordinaria e che addirittura ne consente l’ampliamento, attraverso la chiamata di terzi in causa e la proposizione di domande riconvenzionali (pur se fondate sui medesimi fatti costitutivi), per cui sarebbe irragionevole impedire l’accesso all’esame del giudice di questioni invece già sollevate nella precedente fase.

La riproposizione, per il tramite della memoria difensiva dell’opposto, delle istanze già formalizzate nel corrispondente atto introduttivo della fase sommaria è compatibile con le esigenze di rispetto del contraddittorio, considerato proprio che si tratta di un patrimonio conoscitivo già esposto alle parti ed al giudice nel primo stadio del procedimento.

Del resto anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, finanche nell’ipotesi in cui sia stato emesso per una somma inferiore a quella indicata nel ricorso monitorio, il creditore opposto può limitarsi ad insistere, con la sua costituzione, nell’accoglimento dell’originaria più ampia domanda, non essendo “alterato l’oggetto dell’accertamento del giudizio di opposizione, a seguito del quale non è stato riconosciuto al creditore più di quello che egli aveva richiesto con il ricorso introduttivo” (Cass. n. 7003 del 1993).

Pertanto al giudice dell’opposizione si devolve l’oggetto del contendere secondo quanto proposto con il ricorso ex art. 414 c.p.c. e con la memoria ex art. 416 c.p.c., con le relative decadenze, quali atti introduttivi che segnano i confini del giudizio di impugnazione del licenziamento.

L’onere di riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte non deriva quindi dall’applicazione, in via analogica, dell’art. 346 c.p.c. dettato per le impugnazioni, bensì dal meccanismo imposto dalla combinazione degli artt. 414 e 416 codice di rito, come richiamati dalla L. n. 92 del 2012, al quale viene affidato il compito, in relazione agli interessi ed alle richieste palesati dalle parti in detti atti introduttivi, di delimitare definitivamente l’oggetto del contendere.

2.6. Non è necessaria la proposizione da parte dell’opposto di una domanda riconvenzionale, con relativa istanza di fissazione di nuova udienza ai sensi dell’art. 418 c.p.c..

la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 56, prevede la possibilità per l’opposto di proporre domanda riconvenzionale, purchè “fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale”, altrimenti il giudice ne dispone la separazione.

Invero la richiesta con cui il lavoratore opposto, come nella specie, ferma l’illegittimità del licenziamento, insiste nella richiesta di reintegrazione già formulata con il ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 47 e 48, non può essere considerata una domanda riconvenzionale intesa nel senso di azione diretta ad ottenere una pronuncia suscettibile di giudicato del tutto autonoma, anche se connessa, rispetto all’iniziativa dell’attore, perchè non amplia l’oggetto del processo con carattere di novità ma replica i contenuti della domanda già introdotta nella prima fase.

Del pari non può essere considerata una riconvenzionale in senso proprio la richiesta del datore di lavoro opposto che – evocato in giudizio dal lavoratore opponente che richiede una maggiore tutela rispetto a quella riconosciuta dall’ordinanza – si limiti in memoria difensiva ad insistere nel rigetto dell’impugnativa di licenziamento, sostenendo la legittimità del medesimo, così come da conclusioni formulate in occasione della costituzione nella precedente fase sommaria (che è il caso deciso da Cass. n. 21156 del 2018).

2.7. Le società ricorrenti lamentano che, ove non si postuli come necessaria la domanda riconvenzionale con il conseguente differimento dell’udienza, verrebbe pregiudicato il diritto di difesa dell’opponente che avrebbe solo 10 giorni per replicare alla riproposizione di domande o eccezioni da parte dell’opposto in memoria difensiva, non essendo peraltro ritenuta sufficiente la possibilità di controdedurre a verbale in udienza.

L’assunto non può essere condiviso.

Proprio il rilievo che si tratta di riproposizione di questioni già esposte al contraddittorio delle parti nella precedente fase, rispetto alla quale l’opposizione si presenta in rapporto di prosecuzione e continuità, induce a ritenere che nessuna lesione del diritto di difesa, tale da determinare la nullità del procedimento, può dirsi consumata, tanto più in un rito speciale cadenzato con termini più stringenti rispetto a quello ordinario.

Dal punto di vista istruttorio, considerato che non può essere negato neanche all’opponente del giudizio ex lege n. 92 del 2012 di richiedere i mezzi di prova che non abbia potuto proporre prima ovvero quelli resi necessari dalle difese della controparte, l’art. 1, comma 57 legge citata prevede appunto che il giudice dell’opposizione “all’udienza,…, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonchè disposti d’ufficio, ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

Naturalmente l’esercizio di tale potere è affidato al giudice di merito e non è sindacabile da questa Corte di legittimità nei termini proposti dalle ricorrenti società.

Inoltre, poichè il comma citato prevede che il giudice dell’opposizione procede “nel modo che ritiene più opportuno” omettendo “ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, proprio laddove sorga una esigenza di salvaguardia dell’effettività del contraddittorio medesimo, in ragione delle difese delle parti e della complessità delle relative istanze ed eccezioni, non può escludersi che il giudice, ove lo ritenga necessario a tutela del diritto di difesa, conceda all’uopo un breve differimento dell’udienza.

3. Conclusivamente il ricorso va respinto, con condanna delle società ricorrenti al pagamento delle spese liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le società ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018

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