Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30433 del 28/10/2021

Cassazione civile sez. lav., 28/10/2021, (ud. 14/01/2021, dep. 28/10/2021), n.30433

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10930/2015 proposto da:

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO

25, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ERRANTE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ROBERTO CROCE;

– ricorrente principale –

DUCA DI SALAPARUTA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO DI DONO 3/A,

presso lo studio degli avvocati VINCENZO MOZZI, e PAOLO DE

BERARDINIS, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 386/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 06/03/2015 R.G.N. 1587/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/01/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che con sentenza n. 386/2015, depositata il 6 marzo 2015, la Corte d’appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda, con la quale A.G. aveva chiesto che venisse accertata la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli, con lettera in data 8 novembre 2012, dalla Duca di Salaparuta S.p.A. per avere egli dato disposizioni agli addetti alla portineria dello stabilimento di (OMISSIS) di non annotare i suoi ingressi e le sue uscite, come anche dei collaboratori che fossero in sua compagnia, precisando che tali disposizioni erano obbligatorie in quanto provenienti dal responsabile del servizio;

– che la Corte ha accertato come la condotta oggetto di contestazione fosse stata posta in essere per due volte, nel medesimo giorno e con persone diverse, e come il ricorrente avesse affermato in modo non veritiero che egli era responsabile della portineria e che, in tale qualità, poteva assumersi la responsabilità di eventuali disguidi: ciò che costituiva il tentativo di indurre, con l’inganno, gli addetti alla portineria ad acconsentire alle sue richieste, ingenerando negli stessi l’erronea convinzione che sarebbero stati esenti da ogni eventuale responsabilità;

– che tale condotta, nella valutazione della Corte, integrava un fatto di estrema gravità, idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, non soltanto sotto il profilo soggettivo, per la particolare intensità del dolo emergente dalla deliberata volontà di perseguire una finalità illecita mediante affermazioni mendaci volte, in modo subdolo, a condizionare l’operato degli addetti alla portineria, distogliendoli dall’adempimento dei propri obblighi di servizio, a vantaggio dello stesso dipendente e dei suoi collaboratori; ma anche sotto il profilo oggettivo, avuto riguardo alla posizione occupata dal lavoratore nell’impresa e al rischio di emulazione che la condotta contestata avrebbe potuto suscitare in altri dipendenti;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, affidandosi a due motivi;

– che la Duca di Salaparuta S.p.A. ha resistito a mezzo di controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale, affidato ad unico motivo;

– che la società ha depositato altresì memoria;

rilevato:

che con il primo motivo del proprio ricorso il lavoratore denuncia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere il giudice di appello omesso di esaminare fatti decisivi nella valutazione di sussistenza in concreto della giusta causa ex art. 2119 c.c. e nella verifica della relazione di proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione espulsiva; in particolare, il ricorrente si duole che la Corte territoriale avesse trascurato di considerare che: 1. la condotta addebitata non era stata né sistematica, né reiterata, ma era stata posta in essere, in modo esplicito, una sola volta nel dicembre 2011 o nel gennaio 2012; 2. l’elemento soggettivo era da ritenersi di scarsa intensità, non essendosi il ricorrente mai assicurato che gli addetti al servizio di portineria avessero effettivamente seguito le sue indicazioni; 3. la condotta non si era più ripetuta fino al licenziamento, confermando trattarsi di episodio del tutto isolato; 4. la nota interna, con la quale si ribadiva l’obbligo di consegnare in portineria, in occasione delle singole uscite, l’autorizzazione scritta del responsabile di reparto, o, per quest’ultimo, della direzione, era stata emessa soltanto nel settembre 2012, a fronte della rilevazione di generalizzate irregolarità nelle uscite da parte di tutti i dipendenti; 5. gli addetti alla portineria avevano ricevuto dalla direzione aziendale una comunicazione che autorizzava il ricorrente (unitamente ad altri dipendenti dello stabilimento) ad uscire per effettuare il controllo dei contatori dell’acqua e del gas; 6. il ricorrente non aveva mai effettivamente profittato per fini personali dell’uscita non autorizzata; 7. il ricorrente, infine, affermando di potersi assumere la responsabilità di eventuali disguidi nelle annotazioni sulle uscite (come emerso dalle dichiarazioni di uno degli addetti alla portineria, dichiarazioni che, peraltro, la Corte aveva, per questa parte, trascurato di valutare in modo corretto), non aveva voluto millantare un potere, quanto piuttosto inteso rassicurare lo stesso personale, sollevandolo da eventuali conseguenze pregiudizievoli;

– che con il secondo motivo del ricorso principale viene dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5,L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, per non avere la Corte valutato che la condotta del ricorrente, se considerata nella sua complessità, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo, alla stregua di tutte le circostanze di fatto il cui esame era stato omesso, non era di tale gravità da integrare una giusta causa di recesso, con i relativi effetti sul piano della tutela applicabile;

– che con l’unico motivo del ricorso incidentale la società si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte di appello, nel disattendere il secondo motivo di reclamo, erroneamente ritenuto ammissibile la domanda di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, sebbene tale domanda fosse stata proposta esclusivamente con il deposito delle note conclusive nel giudizio di opposizione;

osservato:

che il primo motivo del ricorso principale risulta inammissibile;

– che al riguardo si deve, in primo luogo, rilevare che talune delle circostanze di fatto, che si reputano trascurate nella ricostruzione della condotta, sono state, invece, prese in esame dalla Corte di appello, direttamente o implicitamente (come quelle sub 1 e 3); che di altre non risulta dimostrata la decisività (come quelle sub 4, 5 e 6); mentre la dedotta omissione di altre ancora si risolve in una diversa lettura e valutazione del materiale di prova acquisito al giudizio (come quelle sub 2 e 7);

– che, in realtà, il ricorrente tende, nella sostanza delle censure svolte, a sollecitare a questa Corte di legittimità un nuovo apprezzamento di fatto, a fronte del fermo principio, secondo cui “Il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione” (Cass. n. 3881/2006, fra le molte conformi);

– che, d’altra parte, come più volte ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, “Spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 25608/2013, fra le molte conformi);

– che il secondo motivo è inammissibile là dove è dedotto il vizio di cui all’art. 360, n. 3, in relazione all’art. 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 5, non rilevandosi alcuna violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio;

– che al riguardo deve, infatti, essere riaffermato il principio, secondo cui “La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5)”: Cass. n. 13395/2018; conforme n. 18092/2020;

– che, nel resto, il motivo è infondato;

– che innanzitutto la Corte di merito, ricostruendo la condotta oggetto di contestazione disciplinare, si è attenuta alla regola, secondo la quale il giudizio di proporzionalità non deve effettuarsi in astratto, bensì con riferimento alle circostanze del caso concreto, all’entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata realizzata), ai moventi, alla natura e intensità dell’elemento soggettivo (Cass. n. 2013/2012, fra le numerose conformi);

– che, inoltre, nell’operazione richiesta dall’applicazione dell’art. 2119 c.c., con il relativo bilanciamento di contrapposti interessi, la condotta del lavoratore, che deve essere valutata con riferimento agli obblighi di diligenza e di fedeltà, rileva anche per il “disvalore ambientale” che la medesima sia idonea a determinare, quando, in virtù della posizione professionale rivestita o della collocazione del lavoratore all’interno del contesto organizzativo aziendale, essa possa assurgere, nei confronti degli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di tali obblighi (Cass. n. 17208/2002; conforme n. 24619/2019), potendo ritenersi proporzionata la sanzione espulsiva anche in presenza di un unico episodio (Cass. n. 12806/2014), secondo gli elementi di fatto che definiscono il caso concreto: ciò che ha formato oggetto di specifica indagine da parte della Corte di merito, come risulta soprattutto dalle considerazioni svolte alla p. 5 della sentenza impugnata;

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso principale deve essere respinto;

– che il ricorso incidentale, avente natura condizionata, resta assorbito;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 14 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2021

 

 

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