Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3043 del 11/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 3043 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 21488-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante

Ero

tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2014

contro

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CRISTOFARO PASQUALE;
– intimato avverso la sentenza n. 1070/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 11/02/2014

di ROMA, depositata il 04/09/2007 R.G.N. 1255/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/01/2014 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega FIORILLO

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

LUIGI;

R.G. 21488/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 1-6-2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma
rigettava la domanda proposta da Pasquale Cristofaro nei confronti della s.p.a.

contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 21-12-1998 al 30-1-1999, per
“esigenze eccezionali” ex art. 8 ceni 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e
succ., con le pronunce consequenziali.
Il Cristofaro proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 4-9-2007, in
riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità del termine
apposto al contratto de quo con la conseguente trasformazione del rapporto in
rapporto a tempo indeterminato dal 30-1-1999 e rigettava le richieste
risarcitorie, condannando la società al pagamento della metà delle spese del
doppio grado.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con cinque
motivi.
Il Cristofaro è rimasto intimato.
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto va rilevato che con i primi due motivi la ricorrente censura
l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione
del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza di una
qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per
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Poste Italiane diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al

un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della domanda e la
conseguente presunzione di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo
al lavoratore, di provare le circostanze atte a contrastare tale presunzione,
lamentando altresì il mancato accoglimento delle richieste istruttorie circa

l’assunzione di informazioni presso l’UPLMO e la locale sede INPS.
Entrambi i motivi non meritano accoglimento
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni

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l’esibizione di eventuale documentazione su attività lavorative svolte e

rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente

comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al
riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando
esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione
sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n.
14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo
consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se
tacita.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver ritenuto irrilevante
di per sé il tempo trascorso (oltre tre anni), ha rilevato che nel caso in esame
“manca qualsiasi elemento fattuale per giustificare” la tesi della risoluzione per
mutuo consenso tacito.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
D’altra parte neppure meritano accoglimento le ulteriori censure relative al
mancato accoglimento delle richieste istruttorie, in quanto “l’esibizione di
documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando
neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento
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ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei

e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v. fra le altre Cass.
20-12-2007 n. 26943), mentre “la richiesta di informazioni alla P.A. costituisce
una facoltà rimessa alla non sindacabile discrezionalità del giudice di merito, il
cui mancato esercizio (pur in presenza di una specifica istanza in tal senso

(cfr.. Cass. 11-6-1998 n. 5794, Cass. 12-4-1999 n. 3573, Cass. 2-9-2003 n.
12789).
Con i successivi motivi, terzo, quarto e quinto, la società censura poi
(sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al
contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre la
scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997
ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente
ricognitiva dei detti accordi.
I detti motivi sono infondati in base all’indirizzo ormai consolidato in
materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente
anteriormente al ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
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formulata dalla parte) non è in alcun modo censurabile in sede di legittimità”

indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di

anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto
collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
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procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.

ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230″ (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio vanno quindi respinti anche i detti motivi.
Il ricorso va pertanto respinto.
Infine non deve provvedersi sulle spese, non avendo l’intimato svolto
alcuna attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
Roma 9 gennaio 2014
IL CONSIGLIERE ESTENSORE
IL PRESIDENTE

it0.61°

Il Funzionario Giudiz*
Dott.ssa Do

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