Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30369 del 21/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 21/11/2019, (ud. 29/04/2019, dep. 21/11/2019), n.30369

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6220/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, ed ivi domiciliata in via dei Portoghesi, n.

12;

– ricorrente –

contro

Banca Popolare Pugliese s.c.p.a., in persona del suo legale

rappresentante pro-tempore Dott. Carmelo Caforio, con l’avv. Claudio

Lucisano con studio e domicilio in Roma, via Crescenzio n. 91;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Puglia – Bari – n. 95/05/13, pronunciata in data 04/11/2013 e

depositata il 16/12/2013, notificata il 09/01/2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 aprile

2019 dal Consigliere Dott. Fracanzani Marcello Maria.

Fatto

RILEVATO

La Banca di Credito Cooperativo Nord Barese, sottoposta nel 2005 ad amministrazione straordinaria e cedute nel 2007 attività e passività alla Banca Popolare Pugliese, conclusa la procedura concorsuale si poneva in liquidazione. Quindi, approvati i bilanci ordinario e di liquidazione, nel dicembre 2007 presentava la dichiarazione dei redditi riferita al periodo di amministrazione straordinaria, dalla quale emergeva per l’anno d’imposta 2006 un credito Ires di Euro 176,00 ed uno Irap di Euro. 10.942,00. Cessata l’attività e cancellata dal registro delle imprese nel febbraio 2008, nel febbraio 2010 presentava istanza di rimborso dei crediti Ires e Irap maturati, anch’essi ceduti alla Banca Popolare Pugliese.

L’Ufficio opponeva rifiuto di rimborso per il decorso dei termini per la rettifica delle dichiarazioni e perchè i crediti fiscali non erano stati riportati nel bilancio di liquidazione della BCC. Impugnava il diniego la BCC, ed autonomamente anche che la BPP. La CTP accoglieva le ragioni della contribuente BCC, ritenendo che i crediti fossero stati correttamente esposti nella dichiarazione finale dell’amministrazione straordinaria della BCC e, quindi, transitati in capo alla BPP. Insorgeva l’Ufficio e la CTR rigettava l’appello, ritenendo che il capo di sentenza circa la sussistenza del credito non fosse stato contestato, vertendo l’appello solo sul difetto di legittimazione di BCC (estinta) e di BPP cessionaria. Sotto quest’ultimo profilo, che considerava quale thema decidendum, la CTR accertava la carenza di legittimazione della BCC, perchè cessata e, comunque, cedente il credito. Riconosceva, invece, dotata di legittimazione la cessionaria BPP, tempestivamente intervenuta e legittimata a riscuotere il credito che affermava non contestato e, dunque, affermato in appello.

Ricorre l’Agenzia affidandosi a tre motivi, cui resiste la banca contribuente con puntuale controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Con i(primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 e D.P.R. n. 642 del 1972, art. 37, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 III giudice di merito, pur avendo affermato il difetto di legittimazione della ricorrente, non ha disposto altrettanto per la BPP che, invece, ha ritenuto legittimata ad impugnare il diniego essendo succeduta a titolo universale in tutti i rapporti giuridici facenti capo alla BCC. Omettendo di considerare che, invece, la BPP avrebbe dovuto presentare autonoma istanza di rimborso.

Il motivo è fondato.

Il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 prevede che il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare istanza di rimborso entro il termine decadenziale di 48 mesi dalla data del versamento stesso. Nella fattispecie il credito era riferito all’anno d’imposta 2006 e portato nella dichiarazione dei redditi del 2007, mentre, invece l’istanza era stata presentata in data 09 febbraio 2010, peraltro dal liquidatore della BCC, soggetto giuridico al tempo non più esistente. La BCC, infatti, aveva approvato bilancio finale e di cessazione attività il 12 maggio 2007 ed in data 08 febbraio 2008 era stata cancellata dal registro delle imprese: il liquidatore della BCC, dunque, non era legittimato a chiedere i(rimborso, che per questo deve ritenersi non validamente richiesto e, dunque, prescritto. Inoltre, a mente della norma speciale D.M. 3 agosto 1998, art. 1, comma 2, l’istanza di rimorso andava richiesta entro il 15 febbraio dell’anno successivo, cioè entro il 15 febbraio 2008, mentre, invece, essa è stata presentata solo in data 09 febbraio 2010.

Con il secondo motivo si rileva la violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In sostanza si nega la formazione di un giudicato implicito sulla eccezione relativa ai motivi di rigetto dell’istanza di rimborso, perchè in presenza di un capo non espressamente impugnato, sebbene sia stato impugnato un capo strettamente correlato a quello.

Il motivo è fondato.

Ampia giurisprudenza di questa Corte conferma il principio secondo il quale il giudicato non è configurabile rispetto a capo della sentenza che, seppure non impugnato, è strettamente collegato o dipendente da quello sul quale verte l’impugnazione, sicchè, nella specie nessun giudicato dirsi formato sul capo della sentenza di primo grado che ha pronunciato sui motivi di rigetto dell’istanza di rimborso. Infatti, tale statuizione è indubbiamente dipendente da quella relativa al difetto di legittimazione della BCC e della BPP, espressamente impugnata dalla amministrazione finanziaria. La CTR, d’altra parte, ha troppo sbrigativamente dato per consolidato il credito di imposta, senza compiutamente esaminarne la reale consistenza.

Invero, questa Corte, con un orientamento al quale si intende dare seguito, ha affermato che “per aversi acquiescenza parziale per effetto dell’impugnazione parziale (come previsto dall’art. 329 c.p.c., comma 2), è necessario che dal contesto dell’atto di impugnazione si deduca in modo non equivoco la volontà dell’appellante di sottoporre solo in parte la decisione all’esame d’appello. D’altro canto, l’acquiescenza può verificarsi solo con riferimento ai capi della sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dal motivo di gravame, perchè fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi l’efficacia precettiva anche se gli altri vengano meno, mentre non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove questa sia oggetto del gravame (vedi, per tutte, Cass. nn. 12062/1999, 438/1996, 9823/1992, 5641/1986). In tal caso, la mancata impugnazione di un capo comporta la formazione del giudicato sullo stesso con conseguente preclusione di riesame per il giudice dell’impugnazione. L’acquiescenza parziale esige pertanto un elemento soggettivo (costituito dalla volontà di impugnare solo una parte della sentenza) ed un elemento oggettivo (l’autonomia, nel fondamento logico e nell’efficacia giuridica, della parte impugnata e della parte non impugnata). Su questo secondo elemento, è stato affermato che l’acquiescenza non si verifica ove la parte non impugnata si ponga in nesso di consequenzialità con la parte impugnata, trovando in essa il suo presupposto, poichè in detta ipotesi gli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione si estendono ai capi dipendenti, che ne costituiscano un consequenziale sviluppo; in altre parole, qualora i diversi capi siano fra loro inscindibilmente collegati, o le affermazioni ed enunciazioni contenute nella motivazione costituiscano premessa logica necessaria della pronuncia specificata nel dispositivo, l’impugnazione di un capo è sufficiente ad escludere l’acquiescenza agli altri capi ad esso collegati (Cass. nn. 11790/2002,, 8859/2001, 2062/2001, 11422/2000, 9823/1998, 6494/1988, 2747/1998)”(Cass.7.1.2008 n. 33).

Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo in tesi la CTR omesso di spiegare le ragioni della riconosciuta legittimazione della BPP di ottenere un rimborso da essa non richiesto.

Il motivo è fondato.

I giudici di merito, invero, hanno dato per scontata la successione tra BCC e BPP, ed hanno obliato di verificare se quest’ultima avesse presentato una valida richiesta di rimborso, unico atto che le avrebbe dato titolo ad impugnare il diniego di rimborso ed ottenere il pagamento.

D’altra parte, cessata l’attività della cedente (ed estinta) BCC – a maggior ragione a fronte dalla sua dichiarata carenza di legittimazione affermata dalla CTR – il rimborso doveva essere domandato prima di tutto in sede amministrativa dalla cessionaria e non dall’ex liquidatore della cedente, che era un soggetto giuridico non più esistente.

Questa Corte ha infatti chiarito che la successione del cessionario nel credito del credito non è configurabile in presenza di cessione di azienda “la quale comporta per legge la cessione dei crediti relativi all’esercizio di essa, ivi compresi i crediti d’imposta vantati dal cedente nei confronti dell’erario”; “Conseguentemente, per effetto della cessione, il cedente medesimo è privo di legittimazione a domandare all’erario il rimborso dell’IVA pagata in eccedenza” (Cass., Sez. 5, n. 8644 del 09/04/2009, Rv. 607527-01; in termini Cass., Sez. 5, n. 6578 del 12/03/2008, Rv. 602736-01), spettando detta legittimazione al cessionario” (Cass. 1/08/208 n. 20415).

Il ricorso è, dunque, fondato e merita di essere accolto.

La pronuncia impugnata va dunque cassata, e, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la controversia può essere decisa nel merito, con il rigetto dell’originario ricorso del contribuente.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo, con compensazione delle spese dei gradi di merito in ragione dell’evolversi delle vicende processuali.

Dichiara la non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente che condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida in Euro 2.300,00 oltre spese prenotate a debito; compensa le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2019.

Depositato in cancelleria il 21 novembre 2019

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