Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3035 del 08/02/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 3035 Anno 2018
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: ROSSETTI MARCO

ORDINANZA
sul ricorso 23651-2015 proposto da:
FABRIZI

EMANUELE,

elettivamente

domiciliato

in

MARINO, CORSO VITTORIA COLONNA, 196, presso lo studio
dell’avvocato AUGUSTO MANNI, che lo rappresenta e
difende giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente contro

ASSID ASSICURATRICE ITALIANA DANNI SPA IN LCA, in
persona del suo legale rappresentante pro tempore e
Commissario Liquidatore Prof. Avv. RAFFAELE LENER,
elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI
MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato MAURO
MAZZONI, che la rappresenta e difende giusta procura

\A`U

Data pubblicazione: 08/02/2018

speciale in calce al controricorso;
– controricorrentenonchè contro

GENERALI

ITALIA

SPA

ASSITALIA

(INCORPORANTE

ASSICURAZIONI SPA), SPIRO KRISTO, HAMIDOVIC SEVDA;

avverso la sentenza n. 4747/2014 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 29/11/2017 dal Consigliere Dott. MARCO
ROSSETTI;

2

– intimati –

R.G.N. 23651/15
Udienza del 29 novembre
2017

FATTI DI CAUSA
1. Franco Fabrizi, nella veste di genitore del minore Emanuele
Fabrizi, nel 2000 convenne dinanzi al Tribunale di Velletri, sezione di
Albano, Kristo Spiro, la Assid s.p.a. in liquidazione coatta
amministrativa e l’Assitalia s.p.a. (che in seguito muterà ragione

Generali”), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti
dal proprio figlio Emanuele Fabrizi in conseguenza d’un sinistro stradale,
avvenuto il 10.5.1997 e causato – nella prospettazione attorea – da un
veicolo Opel di proprietà di Kristo Spiro ed assicurato dalla Assid.
Il contraddittorio venne integrato nei confronti di Sevda Hamidovic,
che risultò proprietario del veicolo Opel.

2. Con sentenza 16.2.2006 n. 258 il Tribunale accolse la domanda,
e liquidò alla vittima la somma di euro 77.435 a titolo di risarcimento
del danno biologico, ed euro 58.998,75 a titolo di risarcimento del
“danno morale”.

3. La Corte d’appello di Roma, adita dalla parte vittoriosa che
domandava una più cospicua liquidazione del risarcimento, con
sentenza 15.7.2014 n. 4747, rigettò il gravame.
La Corte d’appello, dopo avere premesso che l’appellante aveva
formulato una “generica perorazione volta a sostituire un diverso
giudizio a quello fatto proprio dal primo giudice”, ritenne che:
(-) il grado di invalidità permanente patito dalla vittima fu
correttamente stimato dal primo giudice nella misura del 30%;
(-) il giudice di primo grado aveva adeguatamente personalizzato
il risarcimento del danno non patrimoniale, tenendo in debito conto le
specificità del caso concreto per come dedotte e dimostrate;

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sociale in Generali Italia s.p.a.; d’ora innanzi, sempre e comunque, “la

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Udienza del 29 novembre
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(-) la vittima non aveva dimostrato di avere subito alcun danno
patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro.

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da
Emanuele Fabrizi, nelle more del giudizio divenuto maggiorenne, con

Ha resistito con controricorso la sola Assid.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di
nullità processuale, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c..
Deduce che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto
generico, ai sensi dell’articolo 342 c.p.c., un appello che invece doveva
ritenersi specifico e perciò ammissibile, in particolare sotto tre profili:
(-) nella parte in cui aveva lamentato “l’omessa valutazione e
liquidazione del danno alla vita di relazione sociale del danno
esistenziale”;
(-) nella parte in cui aveva lamentato “l’omessa valutazione e
liquidazione del danno di natura psichica consistito nella ipocondria
depressiva”;
(-) nella parte in cui aveva lamentato l’omessa valutazione del
danno patrimoniale alla capacità lavorativa.

1.2. Il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza.

E’ vero, infatti, che la corte d’appello a p. 2 della sentenza oggi in
esame ha affermato “l’appello è inammissibile per difetto di specificità
dei motivi ai sensi dell’articolo 342 c.p.c.”.
Tuttavia è altresì vero che, nelle pagine seguenti, la Corte d’appello
non solo mostra di avere perfettamente compreso quale fosse il
contenuto delle censure proposte dall’appellante, ma le esamina nel

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r

ricorso fondato su quattro motivi ed illustrato da memoria.

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merito e le dichiara infondate. La sentenza si conclude poi con un
dispositivo nel quale si dichiara di “respingere l’appello”.
Ora, è noto che i provvedimenti giurisdizionali vanno interpretati e
qualificati sub specie iuris non già estrapolandone singole parti, ma
valutandoli nel loro complesso.

nelle pp. da 3 a 6 comprese della sentenza; sia il dispositivo di reiezione
dell’appello, impongono di concludere che la Corte d’appello non abbia
affatto inteso dichiarare “inammissibile”, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., il
gravame, ma l’abbia esaminato e rigettato nel merito, e che l’accenno
all’art. 342 c.p.c. di cui a p. 2 della sentenza costituisca un superfluo
obiter dictum.

2. Il secondo motivo.
2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la
sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di
legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (si lamenta, in particolare, la
violazione degli artt. 2 cost.; 1226, 2056 c.c.; 112, 115, 116, 132 c.p.c.;
118 disp. att. c.p.c.); sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo
e controverso, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato
dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto
2012, n. 134).
Nell’illustrazione del motivo il ricorrente deduce che la Corte
d’appello avrebbe violato il principio di integrale riparazione del danno,
oltre che i principi costituzionali di tutela dei diritti inviolabili della
persona, per aver rigettato la domanda di risarcimento del danno
esistenziale e del danno alla vita di relazione.

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Nel nostro caso sia il diffuso esame dei motivi d’appello contenuto

r

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2.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.,
il motivo è manifestamente inammissibile: la censura di omesso esame
d’un fatto decisivo non viene infatti nemmeno illustrata.

2.3. Nella parte in cui lamenta il vizio di violazione di legge, il

Violazione del principio di integrale riparazione del danno vi sarebbe
stata, in tesi, se il giudice di merito, dopo avere accertato in facto
l’esistenza d’un determinato pregiudizio, ne avesse negato in iure la
risarcibilità.
Non è questo, tuttavia, il nostro caso. Qui la Corte d’appello, dopo
avere accertato che la vittima patì, in conseguenza del sinistro, una
invalidità fisica permanente del 30%, ha ritenuto che la somma di euro
136.433,75, liquidata dal Tribunale a ristoro di tale danno, fosse
adeguata a riparare tutti i pregiudizi non patrimoniali conseguiti al fatto
illecito, “anche sotto l’aspetto relazionale ed esistenziale”, per come
dedotti e dimostrati.
Si tratta di una statuizione rispettosa dei principi più volte affermati
da questa Corte, secondo cui:
(-) il danno non patrimoniale ha natura omnicomprensiva (Sez. U,
Sentenza n. 26972 del 11/11/2008);
(-) la particolare incidenza d’una lesione della salute su particolari
capacità od attitudini della vittima può giustificare un aumento della
misura standard del risarcimento (ex permultis, Sez. 3 – , Sentenza n.
21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014);
(-) le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del
risarcimento del danno non patrimoniale integrano un “fatto
costitutivo” della pretesa, e devono essere allegate in modo
circostanziato e provate dall’attore, né possono risolversi in mere

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motivo è infondato.

‘W”

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enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n.
24471 del 18/11/2014).

2.3. Nel caso di specie, il ricorrente sostiene (foglio 6, ultimo
capoverso, del ricorso, le cui pagine non sono numerate) che la perdita

delle funzioni basilari dell’essere umano”, e che tale perdita, così come
la cicatrice derivatane, “hanno per sempre sconvolto la [sua] vita
personale, sociale e sentimentale”.
Una deduzione di questo tipo è insignificante dal punto di vista
medico legale prima, e dal punto di vista giuridico poi.

2.3.1. E’ insignificante dal punto di vista medico legale, perché il
grado di invalidità permanente suggerito da un baréme medico legale
esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli

Nui
t

.

aspetti della vita quotidiana della vittima.
Il grado percentuale di invalidità permanente non indica infatti, al
contrario di quanto alcuni si ostinano a ritenere, la mera
compromissione dell’integrità psicofisica, in sé e per sé considerata,
ma rappresenta l’intensità delle conseguenze che da quella
compromissione sono derivate sulla vita concreta della vittima.
In questo senso si espresse già vani anni fa la Società Italiana di
Medicina Legale, la quale definì il danno biologico, espresso nella
percentuale di invalidità permanente, come “la menomazione (…)
all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti
personali dinamico-relazionali (…), espressa in termini di percentuale
della menomazione dell’integrità psicofisica, comprensiva della
incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti”.
La percentuale di “invalidità permanente” esprime dunque un
pregiudizio dinamico, e non statico; relazionale e non solo individuale,

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di un occhio, da lui sofferta in conseguenza del sinistro, “affligge una

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e per l’esattezza il pregiudizio che i postumi hanno prodotto su tutte le
attività della vittima “comuni a tutti”.

2.3.2. Sul piano strettamente giuridico consegue, da quanto
esposto, che per potere pretendere in giudizio un risarcimento ulteriore

invalidità permanente, è necessario dedurre e dimostrare che la
menomazione, nel caso concreto, ha prodotto conseguenze ulteriori e
più gravi di quelle che solitamente produce in persone dello stesso
sesso e della stessa età della vittima.
Ma nel caso di specie sarebbe vano cercare negli atti del ricorrente
l’indicazione di quali siano state, nel caso di specie, queste
conseguenze “più gravi” rispetto ai casi consimili.
In applicazione di tali princìpi, questa Corte ha già stabilito che
soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali,
tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno
concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze
ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da
persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione
analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo
risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3,
Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del
18/11/2014).

3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. L’epigrafe del terzo motivo di ricorso (foglio 7 del ricorso)
riproduce ad litteram quella del secondo motivo.
Anche in questo caso il ricorrente lamenta che la sentenza
impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi
dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (si lamenta ancora una volta la violazione degli

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rispetto a quello ottenuto mediante la monetizzazione del grado di

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artt. 2 cost.; 1226, 2056 c.c.; 112, 115, 116, 132 c.p.c.; 118 disp. att.
c.p.c.); sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso,
ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 54 d.l.
22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134).
Nell’illustrazione del motivo il ricorrente deduce che la Corte

del danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità
lavorativa generica e specifica.
Sostiene che la perdita della vista da un occhio costituirebbe un
danno patrimoniale in re ipsa; che la Corte d’appello non avrebbe preso
in considerazione i documenti dai quali risultava che la vittima, al
momento dell’infortunio, studiava come apprendista cuoco; che anche
uno studente od un disoccupato può patire un danno patrimoniale da
riduzione della capacità di lavoro; che lo stesso consulente tecnico
d’ufficio aveva ammesso che l’invalidità patita dalla vittima avrebbe
inciso su tutte le attività di lavoro per le quali è richiesta la visione
binoculare.

3.2. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame d’un fatto decisivo,
ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., il motivo è infondato.
Il problema della esistenza d’un danno patrimoniale da lucro
cessante è stato infatti espressamente preso in esame dalla Corte
d’appello, alle pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata.
V’è solo da aggiungere che l’omesso esame d’un documento o
comunque d’una fonte di prova, da parte del giudice di merito, non
costituisce un errore censurabile ai sensi del novellato art. 360, n. 5,
c.p.c., così come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez.
U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, ove si afferma: “l’omesso esame
di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa
un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico

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d’appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di risarcimento

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rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
astrattamente rilevanti”).

3.3. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è del

La Corte d’appello non ha affatto affermato che un minore o uno
studente non possano patire, in conseguenza di lesioni personali, un
danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro.
Ha semplicemente ritenuto che, nel caso di specie, non esistevano
elementi per formulare un giudizio anche solo di

probabilità

sull’esistenza di tale danno.
Tale valutazione per un verso costituisce un apprezzamento di fatto,
come tale non sindacabile in questa sede; per altro verso è conforme
alla giurisprudenza di questa Corte in tema di accertamento e
liquidazione del danno futuro, secondo la quale tale danno va accertato
in base a presunzioni semplici e all’id quod plerumque accidit, ma è pur
sempre necessario che tali presunzioni si fondino su fatti noti e concreti
dedotti dall’interessato.
Nel caso di specie, per contro, la Corte d’appello ha rilevato come
l’attore non avesse fornito la prova “delle sue attitudini personali né
altri elementi d’ordine presuntivo che consentano di ritenere
dimostrata la perdita effettiva della possibilità di svolgere lavori
adeguati alla sua predisposizione”:

valutazione, quest’ultima, non

illegittima né illogica, posto che un lavoratore del settore turisticoalberghiero non ha di norma bisogno della visione binoculare per lo
svolgimento delle proprie mansioni.

4. Il quarto motivo di ricorso.

Pagina 10

pari infondato.

rAi

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:-

)

4.1. Col quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la
sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di
legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (si lamenta, in particolare, la
violazione degli artt. 112, 115, 116, 132 c.p.c.; 118 disp. att. c.p.c.);
sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi

2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134).
Sostiene che la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sull’istanza
da lui formulata, intesa ad ottenere che venisse disposta una nuova
consulenza tecnica d’ufficio sulla persona dell’attore, per accertare il
danno psichico da questi patito. Spiega che tale istanza era giustificata
dal fatto che il consulente tecnico d’ufficio

“non sottoponeva il

ricorrente ad alcun test specifico, ma si limitava ad effettuare un
colloquio preliminare dal quale desumeva l’assenza della riferita
patologia depressiva”.

4.2. Il motivo è inammissibile per la sua genericità, che impedisce
a questa Corte di saggiarne la decisività.

4.3. La scelta di disporre o non disporre una consulenza tecnica
d’ufficio, così come quella di rinnovarla o non rinnovarla, costituiscono
valutazioni discrezionali riservate al giudice di merito.
L’esercizio di tale discrezionalità potrebbe tuttavia essere sindacato
in sede di legittimità, perché si tradurrebbe in un vizio del
procedimento, quando ricorrano due presupposti:
(a)

i fatti costitutivi della domanda (o dell’eccezione) non

potrebbero essere provati altrimenti che con una consulenza tecnica;
(b)

il giudice trascuri di nominare un consulente; ovvero,

nominatolo, trascuri di esaminare le motivate ed analitiche censure
tecniche mosse al suo operato.

Pagina 11

dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 54 d.l. 22 giugno

Ifrt/
1,0

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Nel caso di specie il ricorrente, per quanto detto, ascrive al giudice
di non avere voluto rinnovare un esame medico svolto, a suo dire,
superficialmente.
Ma una simile evenienza, di per sé, non costituisce un vizio

Infatti, da un punto di vista teorico, in assenza d’una storia clinica
documentata per patologie psichiche e di sintomi evidenti, non
errerebbe il consulente che evitasse di disporre ulteriori ed inutili
approfondimenti.
Pertanto, per potere censurare – sotto il profilo dell’illogicità
manifesta della motivazione – la sentenza che avalli l’operato d’un
consulente superficiale o malaccorto, è pur sempre necessario dedurre
che il consulente, se avesse correttamente condotto l’esame a lui
richiesto, sarebbe verosimilmente pervenuto a conclusioni diverse.
..,

Applicando questi princìpi al nostro caso, ne discende che sarebbe
stato onere del ricorrente, in questa sede, esporre quali elementi di
fatto, e risultanti da quali fonti di prova, consigliavano od addirittura
imponevano al consulente di non limitarsi ad un mero colloquio con la
persona da visitare, ma di compiere un più approfondito esame
neuropsichiatrico.
In assenza di tale allegazione il motivo va dunque dichiarato
inammissibile, in quanto aspecifico.

5. Le spese.
5.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a
carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono
liquidate nel dispositivo.

5.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà
atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte

metodologico della consulenza, e non impone al giudice di rinnovarla.

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Udienza del 29 novembre
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ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater,
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma
17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
Per questi motivi

(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna Emanuele Fabrizi alla rifusione in favore di Assid s.p.a. in
liquidazione coatta amministrativa delle spese del presente giudizio di
legittimità, che si liquidano nella somma di euro 7.200, di cui 200 per
spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2,
comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1
quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di
Emanuele Fabrizi di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile

la Corte di cassazione:

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