Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30347 del 21/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 21/11/2019, (ud. 17/09/2019, dep. 21/11/2019), n.30347

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 26243/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con

domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.P.A., già (OMISSIS) S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, come da procura

speciale in atti, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti Massimo

Antonini, Marco di Siena ed Irene Pellecchia, con domicilio eletto

presso lo studio Chiomenti in Roma, via XXIV Maggio, n. 43;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte n. 510/1/17, depositata il 29 marzo 2017.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Michele Cataldi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Basile Tommaso, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso;

uditi l’Avv. dello Stato Paolo Gentili per la ricorrente e l’Avv.

Marco Di Siena per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato ad un motivo, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 510/1/17, depositata il 29 marzo 2017, che ha accolto l’appello della (OMISSIS) s.p.a., già (OMISSIS) s.p.a., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Torino che aveva respinto il ricorso della medesima società contro l’avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2006, avente ad oggetto la maggiore IRES dovuta dalla contribuente, oltre alle relative sanzioni.

2. Infatti, con l’atto impositivo impugnato, l’Ufficio aveva contestato alla contribuente di non aver dichiarato ed assoggettato ad imposizione, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, il 5 per cento del dividendo che, nell’anno d’imposta 2006, le era stato versato dalla società Fiat Bank GmbH, residente in Germania, della quale possedeva l’intero pacchetto azionario, ed aveva pertanto rettificato il reddito complessivo della ricorrente, irrogando le relative sanzioni.

3. La contribuente ha impugnato in primo grado l’avviso d’accertamento, deducendo, per quanto qui ancora interessa, l’applicabilità dell’art. 24 Convenzione tra la Repubblica italiana e la Repubblica federale di Germania, par. 2, capoverso b), per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e prevenire le evasioni fiscali, ratificata e resa esecutiva nell’ordinamento nazionale dalla Legge 24 novembre 1992, n. 459, per effetto della quale il dividendo in questione sarebbe stato, a suo dire, esente da tassazione.

4. La CTP adita ha respinto il ricorso, ritenendo che la Convenzione italo-tedesca non trovasse applicazione al caso di specie, poichè essa non contempla la doppia imposizione economica, ma solo quella giuridica, esclusa, nel caso di specie, dalla circostanza che il dividendo in questione non era stato tassato, in uscita, anche in Germania, dove non aveva subito alcuna ritenuta fiscale alla fonte.

5. Proposto appello dalla contribuente, la CTR lo ha accolto, assumendo invece l’applicabilità dell’art. 24 predetta Convenzione, par. 2, capoverso b), e la sua prevalenza, quale norma pattizia di diritto internazionale, sul D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, disposizione nazionale ritenuta dal giudice a quo di natura impositiva, e sulla quale l’Amministrazione ha fondato l’accertamento controverso.

6. Proposto ricorso per cassazione dall’Agenzia delle Entrate, la contribuente si è costituita con controricorso, depositando successivamente memoria ed istanza di riunione a questo giudizio di quelli aventi R.G. n. 6101/2014, n. 6312/2014 e n. 3925/2013.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della Convenzione tra l’Italia e la Germania contro le doppie imposizioni, art. 3, par. 2, art. 10, art. 24, par. 2, capoverso b), ratificata e resa esecutiva in Italia dalla L. n. 459 del 1992; nonchè della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, art. 31, par. 3, lett. b) e art. 32, lett. a), ratificata e resa esecutiva in Italia dalla L. n. 112 del 1974.

Assume infatti l’Agenzia che il giudice a quo avrebbe erroneamente interpretato il ridetto art. 24 Convenzione italo-tedesca, par. 2, capoverso b), laddove ha affermato che l’esclusione del dividendo dalla base imponibile, disposta da tale norma, sarebbe volta ad evitare la doppia imposizione economica internazionale (ovvero la duplice tassazione, da parte di due Stati diversi, della medesima capacità economica in capo a due soggetti distinti, il produttore ed il percettore del medesimo reddito), e non solo la doppia imposizione giuridica internazionale (ovvero l’applicazione di imposte comparabili da parte di due o più Stati, per lo stesso presupposto e per lo stesso periodo d’imposta, che si verificherebbe ove i dividendi, sui quali fosse stata in ipotesi già operata la ritenuta alla fonte, confluissero, presso il beneficiario, nella base imponibile Ires, per venire ivi nuovamente tassati, senza l’integrale detrazione della ritenuta alla fonte), che nel caso di specie è pacifico non si sia realizzata, atteso che il dividendo proveniente dalla società residente in Germania non è stato oggetto di ritenuta alla fonte in quest’ultimo paese.

Sostiene invece la ricorrente che l’art. 24 Convenzione italo-tedesca, par. 2, capoverso b), letto alla luce dei criteri interpretativi offerti dalla medesima fonte pattizia e dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, avrebbe per oggetto esclusivamente la doppia imposizione giuridica internazionale, non configurabile nella fattispecie concreta sub iudice, che pertanto andrebbe sottoposta alla limitata imposizione sul dividendo prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2.

1.1. La questione controversa attiene dunque la disciplina dell’imposizione sui dividendi infragruppo erogati da una società-figlia residente della Repubblica federale di Germania ad una società-madre residente della Repubblica italiana, che ne possiede l’intero capitale azionario.

Non è invece controverso tra le parti che la partecipazione della società-madre nella società-figlia sia nel caso di specie integrale; nè che i dividendi in oggetto non abbiano subito ritenute alla fonte nel paese, la Germania, di residenza della società-figlia, nel quale è invece sottoposto a tassazione l’utile societario da quest’ultima realizzato.

1.2. La norma nazionale, sulla quale si fonda la pretesa impositiva dell’Ufficio, è il D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, come modificato dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, che, per quanto qui interessa, dispone che “Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione, anche nei casi di cui all’art. 47, comma 7, dalle società ed enti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) e b), non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare. (…)”.

1.3. La contribuente, assecondata dal giudice a quo, sostiene invece l’applicabilità, al caso di specie, della disposizione internazionale pattizia di cui all’art. 24 Convenzione tra l’Italia e la Germania, par. 2, capoverso b), ratificata e resa esecutiva nell’ordinamento nazionale dalla L. n. 459 del 1992, che, per quanto qui interessa, sotto la rubrica “Disposizioni per evitare la doppia imposizione.”, così recita: “1. Si conviene che la doppia imposizione sarà eliminata in conformità dei seguenti paragrafi del presente articolo. (…)

2. b) Sono esclusi dalla base imponibile delle imposte italiane i redditi derivanti dai dividendi di cui all’art. 10, par. 6, capoverso a), pagati ad una società (diversa da una società di persone) residente della Repubblica italiana da parte di una società residente della Repubblica federale di Germania il cui capitale sociale è direttamente detenuto per almeno il 25 per cento dalla società italiana.”.

A sua volta, il richiamato art. 10, par.6, capoverso a), nella parte che qui rileva, così dispone: ” Ai fini del presente art. il termine “dividendi” designa: a) gli utili distribuiti su azioni, compresi i redditi derivanti da azioni, azioni o diritti di godimento, quote minerarie, quote di fondatore o altre quote di partecipazione agli utili (ivi compresi quelli derivanti da partecipazioni in società a responsabilità limitata) ad eccezione dei crediti), e (…)”.

1.4. Si pone, pertanto, il problema dell’interpretazione del predetto art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), al fine di verificare se – come assume l’Ufficio, in contrasto con quanto ritenuto dal giudice a quo – l’esclusione, dalla base imponibile delle imposte italiane, dei redditi derivanti dai dividendi pagati dalla società-figlia, debba operare esclusivamente laddove si concretizzerebbe, altrimenti, una doppia imposizione internazionale giuridica internazionale pacificamente non sussistente nel caso di specie, in difetto di ritenute alla fonte nel paese, la Germania, di residenza della società-figlia). O se piuttosto – come sostiene la contribuente- la medesima disposizione comporti l’esclusione dei dividendi dal reddito imponibile della società-madre anche per scongiurare la doppia imposizione internazionale economica, ed in particolare la cosiddetta “imposizione economica a catena”, che deriverebbe dalla tassazione, in Germania, a carico della società-figlia, dell’utile societario da quest’ultima realizzato, e dalla concorrente imposizione (sia pur sul solo 5 per cento, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2) in Italia, a carico della società-madre, del dividendo distribuitole dalla prima, composto dall’utile societario di quest’ultima, già tassato.

1.5. Giova peraltro sottolineare, prima di procedere ad ogni altra considerazione, che la Convenzione contro le doppie imposizioni in parola, conclusa tra l’Italia e la Repubblica federale tedesca – insieme a quella in vigore con il Brasile, firmata il 3 ottobre 1978 e ratificata con la L. 29 novembre 1980, n. 844- si differenzia, all’interno del complesso degli strumenti convenzionali cui l’Italia ha aderito in materia, per la circostanza che l’eliminazione della doppia imposizione è ottenuta non già ricorrendo al tradizionale metodo dell’imputazione (ovvero del credito d’imposta), ma attraverso il sistema dell’esenzione. Di tale peculiarità è quindi necessario tener conto, sia nel considerare conclusioni giurisprudenziali già maturate con riferimento a convenzioni che operano attraverso il diverso meccanismo del credito d’imposta, sia nel contestualizzare le argomentazioni che seguono in questa sede.

1.6. L’interpretazione della disposizione internazionale pattizia deve innanzitutto muovere dalla previsione dell’art. 3 stessa Convenzione che, nel par. 1, detta le definizioni generali – “a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione” – delle espressioni adottate nel resto del testo. Tuttavia, tra le definizioni elencate, non figura la “doppia imposizione”.

Dovrebbe allora soccorrere, secondo l’Agenzia ricorrente, il criterio residuale di cui allo stesso art. 3, par. 2, secondo il quale “Per l’applicazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente, ogni espressione ivi non definita ha il significato che ad essa è attribuito dal diritto di tale Stato relativo alle imposte cui si applica la Convenzione, a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione.”.

Ai fini della definizione del concetto di doppia imposizione, l’interpretazione dell’art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), ai sensi di quest’ultima, predetto art. 3, par. 2, dovrebbe allora essere condotta alla luce del D.P.R. 22 Dicembre 1986, n. 917, artt. 163 (ex art. 127) (“La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi.”) e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 67 (“La stessa imposta non può essere applicata più volte, in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi. L’imposta personale pagata dal soggetto erogante a titolo definitivo a seguito di accertamento è scomputata dall’imposta dovuta dal percipiente il medesimo reddito”), nonchè della giurisprudenza che esclude che violi il relativo divieto la duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, tanto più se le due imposizioni attingono soggetti giuridici diversi (cfr. Cass., 29/05/2018, n. 13503; Cass., 30/10/2018, n. 27625).

Tuttavia, sul punto, la giurisprudenza Euro-unitaria (Corte Giustizia, Grande Sez., sent. 12/09/2017, n. 648/15, ai punti 35-39 della motivazione), sia pure a proposito di una Convenzione sulle doppie imposizioni stipulata tra altri Stati, ha già avuto modo di chiarire che il criterio residuale pattizio, che rimette ad un unico Stato contraente l’interpretazione di espressioni non già definite dallo stesso accordo, non può essere considerato di per sè solo decisivo, ed è comunque recessivo rispetto ai criteri dettati dagli artt. 31-33 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, conclusa a Vienna il 23 maggio 1969, di cui sono parti sia l’Italia che la Repubblica federale tedesca, dalla quale risulta la regola generale (art. 31, par. 1) che un trattato dev’essere interpretato in buona fede, in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce dei suo oggetto e del suo scopo.

Nello stesso senso, peraltro, anche questa Corte (Cass., 17/04/2019, n. 10706, al punto 1.10 della motivazione), a proposito dei criteri di interpretazione delle convenzioni sulla doppia imposizione, ha a sua volta fatto riferimento alla medesima regola generale di cui all’art. 31, par. 1, della predetta Convenzione di Vienna, evidenziando peraltro che, ai sensi di quest’ultima disposizione, l’interpretazione letterale delle Convenzioni sia il criterio prima facie rilevante, nell’ambito di una ermeneutica rivolta prevalentemente al testo dello strumento pattizio ed al senso ordinario delle espressioni che lo compongono, mentre il ricorso a metodi diversi dall’interpretazione letterale è consentito unicamente nei casi in cui quest’ultima conduca a conclusioni oscure o in conflitto con altre regole del sistema (Cass., 24/11/2016, n. 23984, in motivazione).

1.7. Nella fattispecie di cui all’art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), l’interpretazione letterale deve prendere atto che, al ricorrere delle condizioni previste dalla stessa disposizione, l’esclusione, dalla base imponibile delle imposte italiane, dei redditi derivanti dai dividendi pagati ad una società (diversa da una società di persone) residente della Repubblica italiana da parte di una società residente della Repubblica federale di Germania, il cui capitale sociale è direttamente detenuto per almeno il 25 per cento dalla società italiana, è espressa in termini incondizionati e non correlata all’ipotetico ulteriore presupposto della doppia imposizione giuridica, nella specie della contemporanea imposizione, alla fonte, sugli stessi dividendi, da parte dello Stato tedesco.

Nè, peraltro, stesso art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), contiene una previsione analoga a quella dell’art. 10 stessa fonte, par. 2, secondo capoverso, che, nel limitare al 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi il potere impositivo dello Stato contraente di cui è residente la società che paga i dividendi, precisa che “Questo par. non riguarda l’imposizione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”, circoscrivendo così espressamente la relativa disciplina alla fattispecie della doppia imposizione giuridica.

1.8. Nella giurisprudenza di questa Corte in materia di convenzioni per evitare le doppie imposizioni (Cass., 19/12/2018, n. 32842, in tema di definizione del concetto di “beneficiario effettivo” utilizzato nella medesima Convenzione italo-tedesca; Cass., 7/9/2018, n. 21865, in materia di redditi percepiti all’estero dagli artisti; Cass., 10/11/2017, n. 26638, in relazione alla Convenzione Italia-Federazione Russa, per l’individuazione della residenza della persona fisica; Cass., 21/12/2018, n. 33218, con riferimento alla Convenzione tra l’Italia ed il Regno del Marocco, per l’interpretazione della “stabile organizzazione”) viene inoltre riconosciuta rilevanza, in funzione interpretativa – ossia per arricchire di argomenti e corroborare una tesi già assunta in base al dato testuale, così come prevede la stessa Convenzione di Vienna (cfr. la citata Cass. n. 23984 del 2016 e Cass. nn. 3367 e 3368 del 2002, n. 7851 del 2004 e n. 9942 del 2000, ivi richiamate) – sia al Modello di Convenzione approvato in ambito OCSE nel 1963, aggiornato nel 1977 ed oggetto via via di ulteriori emendamenti, costituente uno schema-tipo di riferimento, al quale si sono ispirati i contraenti; sia al Commentario OCSE al relativo modello, il quale, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai paesi aderenti all’OCSE (Cass., 28/7/2006, n. 17206).

Non ha quindi errato il giudice a quo nell’affermare, nella motivazione della sentenza impugnata, che il Modello OCSE di Convenzione detta linee-guida per contrastare la doppia imposizione internazionale, ma “non costituisce fonte del diritto internazionale e non è vincolante per gli Stati nella redazione dei trattati internazionali”. Tuttavia, così come sostenuto dalla ricorrente, e sostanzialmente condiviso dalla stessa controricorrente, lo stesso Modello, ed il relativo Commentario, OCSE assumono comunque, per quanto già argomentato, rilevanza, nei limiti di cui al citato orientamento giurisprudenziale, ai fini dell’interpretazione della singola convenzione concretamente conclusa tra gli Stati.

1.9. L’art. 24 Convenzione tra l’Italia e la Germania, par. 2, capoverso b), intitolato “Disposizioni per evitare la doppia imposizione”), trova corrispondenza, quanto meno per la materia trattata, nell’art. 23. A del modello OCSE di Convenzione, che introduce uno dei due possibili modi alternativi di eliminare la doppia tassazione, ovvero l'”exemption method”, nel caso di specie adottato dagli Stati contraenti, laddove l’art. 23B prevede invece il “credit method” (ovvero l’imputazione, mediante il credito d’imposta).

Il commentario OCSE agli artt. 23 A e 23B modello di Convenzione, ai punti 1. e 2. delle considerazioni introduttive, chiarisce che le due formulazioni alternative della disposizione disciplinano la sola doppia imposizione giuridica, tuttavia dando contemporaneamente atto che se due Stati desiderano risolvere (anche) problemi di doppia imposizione economica, possono comunque includere la relativa disciplina nel contesto delle loro pattuizioni concrete e della conseguente Convenzione.

Successivamente, al punto 50., nella sezione intitolata “Dividends from substantial holdings by a company”, il medesimo commentario precisa che i rimedi disposti dal modello contrastano la doppia imposizione giuridica, ma non impediscono la tassazione ripetuta delle società sugli utili distribuiti alla società madre: prima a livello della società controllata e poi, di nuovo, a livello della società madre. Tale tassazione ripetuta, prosegue il commentario, crea un ostacolo molto importante allo sviluppo di investimenti internazionali, e molti Stati lo hanno riconosciuto ed hanno inserito nelle loro leggi nazionali disposizioni volte a evitare questo ostacolo. Inoltre, disposizioni orientate al medesimo fine sono spesso inserite nelle convenzioni sulla doppia imposizione.

1.10. L’art. 23 A del modello OCSE di riferimento (nella versione del 1977, sussistente alla data di stipulazione della Convenzione, come in quella del 1992, antecedente la legge che ha ratificato e reso esecutiva quest’ultima nel nostro ordinamento) non contiene una previsione che, al ricorrere dei medesimi presupposti cui all’art. 24, par. 2, capoverso b), disponga analoga ed incondizionata esclusione dalla base imponibile delle imposte derivanti dai dividendi pagati alla società madre da una società figlia.

Tale difformità del dettato pattizio italo-tedesco, rispetto al modello OCSE di riferimento, come pure è stato rilevato dalla dottrina, può costituire, al fine di confermare l’approccio interpretativo testuale già evidenziato, un significativo indizio della volontà dei contraenti di superare, in parte qua, la funzione basica di contrasto alla doppia imposizione giuridica, assegnata allo stesso modello dai predetti punti 1. e 2. del relativo commentario OCSE agli artt. 23 A e 23B, e di raccogliere la raccomandazione, rivolta ai paesi aderenti all’OCSE dal successivo punto 50. dello stesso commentario, di impedire altresì la doppia imposizione economica internazionale (definita un ostacolo molto importante allo sviluppo di investimenti internazionali) con riferimento specifico proprio alla tassazione reiterata delle società sugli utili distribuiti alla società madre, prima a livello della società controllata e poi, di nuovo, a livello della società madre.

Non può quindi ritenersi, come sostenuto dall’Ufficio, che i richiamati punti del commentario OCSE costituiscano un argomento preclusivo della riferibilità dell’art. 24, par. 2, capoverso b), all’ipotesi della doppia imposizione (soltanto) economica.

Piuttosto, il dato letterale della disposizione de qua, supportato anche dal confronto con il Modello OCS di riferimento e con il relativo Commentario, conduce a ritenere che il quadro degli strumenti di contrasto alla doppia imposizione internazionale offerto dalla Convenzione, rispetto ai dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad una residente dell’altro Stato contraente, si presenti invece integrato, per quanto qui interessa, dall’art. 10 dello strumento pattizio – che contrasta, attenuandola, la doppia imposizione giuridica, alla fonte (convenzionalmente limitata al massimo sul 15% del relativo ammontare lordo, ma successivamente venuta meno, rispetto al caso sub iudice, per effetto dell’adeguamento del diritto domestico tedesco alla Dir. comunitaria “madre-figlia” del 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE) ed all’ingresso sul relativo reddito- e dall’art. 24, par. 2, capoverso b), che, ricorrendone i presupposti (ovvero qualora si tratti di dividendi pagati ad una società residente italiana da una società residente tedesca il cui capitale sociale sia direttamente detenuto per almeno il 25 per cento dalla prima), dispone un’esclusione totale dalla base imponibile della società-madre, che prescinde dalla previa ritenuta alla fonte sui dividendi in questione ed è finalizzata dunque ad impedire la doppia imposizione economica internazionale a catena, che deriverebbe dalla tassazione in Germania dell’utile in capo alla società-figlia che lo ha prodotto, e successivamente in Italia, sia pur nel limite del 5%, sotto forma di dividendo, in capo alla società-madre cui lo stesso utile viene distribuito.

1.11. Le Convenzioni, una volta recepite nel nostro ordinamento interno con legge di ratifica, acquistano il valore di fonte primaria, ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 1 (che prevede il sistema di adattamento dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale) e dell’art. 117 Cost. (che prevede l’obbligo comune dello Stato e delle Regioni di conformarsi ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed agli obblighi internazionali), come peraltro ribadito, nella materia tributaria, anche dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75 (“nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi accordi internazionali resi esecutivi in Italia”) e dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 169 (per il quale le disposizioni dello stesso T.U. “si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”).

Sulla base di dette norme, quindi, questa Corte (Cass., 19/01/2009, n. 1138; Cass., 15/7/2016, n. 14474) ha non solo affermato il principio generale che le Convenzioni, per il carattere di specialità del loro ambito di formazione, così come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1, nel testo di cui alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, art. 3); ma anche specificato in particolare che, in materia d’imposte sul reddito, le norme pattizie derivanti da accordi tra gli Stati prevalgono, attesane la specialità e la ratio di evitare fenomeni di doppia imposizione, su quelle interne (Cass., 24/11/2016, n. 23984).

Pertanto, l’esclusione convenzionale dalla base imponibile disposta dall’art. 24, Convenzione tra Italia e Germania, par. 2, capoverso b), ratificata dalla L. n. 459 del 1992, così come ante interpretato, prevale, rispetto al caso sub iudice, sulla residuale imposizione, in Italia, sul 5% dei dividendi distribuiti alla società controllante residente nel territorio nazionale, prevista dal D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 89, commi 2 e 3, come modificato dal D.Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003.

1.12. Deve poi escludersi che la vigenza e l’efficacia, nel nostro ordinamento, dell’art. 24 Convenzione tra Italia e Germania, par. 2, capoverso b), ratificata dalla L. n. 459 del 1992, che dispone – ricorrendo le descritte condizioni- l’esclusione dei dividendi dalla base imponibile del reddito della società madre italiana, siano venute meno per effetto della Dir. 90/435/CE, e della sua modifica applicabile ratione temporis, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (c.d. direttiva madre-figlia).

Infatti, il concorso formale tra norma bilaterale e norma comunitaria è risolto, nel senso della sopravvivenza della prima, dall’art. 7 stessa Direttiva CEE n. 435 del 23/07/1990, par. 2, il quale dispone che: ” La presente Dir. lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi” (nello stesso senso, in motivazione, Cass. Cass. 27/10/2017, n. 25585, secondo cui la permanente efficacia degli accordi bilaterali è resa esplicita dall’art. 7 stessa Dir., par. 2, che non intende superare la ‘competizionè di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di Dir. e di Convenzione bilaterale implichi l’automatica espunzione dell’una a favore dell’altra).

Inoltre, la medesima Dir. 90/435/CEE contiene, nel suo testo originario, la seguente premessa: “considerando che, quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti, lo Stato della società deve: – astenersi dal sottoporre tali utili a imposizione, – oppure sottoporli a imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta pagata dalla società figlia a fronte di detti utili; considerando che, per garantire la neutralità fiscale, è inoltre opportuno esentare da ritenuta alla fonte, salvo in taluni casi particolari, gli utili conferiti da una società figlia alla propria società madre; che occorre però autorizzare la Repubblica federale di Germania e la Repubblica ellenica, a motivo della peculiarità del loro sistema di imposta sulle società, e la Repubblica portoghese, per motivi di bilancio, a continuare a riscuotere temporaneamente una ritenuta alla fonte”

Peraltro, anche il Considerando sub 10) della Dir. CE n. 123 del 22/12/2003, che ha modificato la predetta Dir. 90/435/CEE, pare coerente con la predetta disposizione pattizia, laddove precisa che: “Quando gruppi societari sono organizzati in catene di società, e gli utili sono distribuiti attraverso la catena di affiliate alla società madre, la doppia imposizione dovrebbe essere eliminata per mezzo di esenzione o di credito d’imposta. Nel caso di credito d’imposta, la società madre dovrebbe poter dedurre le imposte pagate da qualsiasi società affiliata della catena, a condizione che siano rispettati i requisiti della Dir. 90/435/CEE”.

E lo stesso deve dirsi per l’art. 4 Dir. 90/435/CEE, par. 1, come modificato dalla Dir. CE n. 123 del 22/12/2003, il quale infatti dispone che: “Quando una società madre o la sua stabile organizzazione, in virtù del rapporto di partecipazione tra la società madre e la sua società figlia, riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato della società madre e lo Stato della sua stabile organizzazione:

– si astengono dal sottoporre tali utili ad imposizione, o

– li sottopongono ad imposizione, autorizzando però detta società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata, a condizione che a ciascun livello la società e la sua sub-affiliata soddisfino i requisiti di cui agli artt. 2 e 3 entro i limiti dell’ammontare dell’imposta corrispondente dovuta”.

Nello stesso senso, nella giurisprudenza comunitaria, argomenta poi il p. 37 di CGUE, 8 marzo 2017, C 448/15, Wereldhave, dove si precisa che: ” (…) l’art. 4 Dir. 90/435, par. 1, prevede che, quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti, lo Stato membro della società madre si astiene dal sottoporre tali utili a imposizione o autorizza detta società madre a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui ha sede la società figlia, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente (sentenze del 12 dicembre 2006, Test Claimants in the FII Group Litigation, C 446/04, EU:C:2006:774, punto 102, e del 3 aprile 2008, Banque Fèdèrative du Crèdit Mutuel, C 27/07, EU:C:2008:195, punto 25)”.

Pertanto, in ragione degli argomenti passati in rassegna, deve ritenersi che, con riferimento al caso sub iudice, l’applicabilità dell’art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), interpretato nel senso già illustrato, sia rimasto impregiudicato dalla sopravvenienza del Dir. 90/435/CE.

1.13. Non può condividersi l’ulteriore argomentazione accennata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui, interpretando l’art. 24, Convenzione, par. 2, capoverso b), come preclusivo dell’imposizione sui dividendi in entrata in Italia, a prescindere dalla loro imposizione alla fonte in Germania, si verrebbe a creare un beneficio (l’esenzione del dividendo in entrata dall’imponibile della società-madre) ingiustificato e discriminatorio, in quanto riconosciuto solo quando la partecipazione della società-madre integra almeno la soglia del 25 per cento del capitale della società-figlia.

Assume infatti la ricorrente che a tutte le società italiane che partecipano in società tedesche, anche con quote inferiori al 25%, deve applicarsi il medesimo regime d’imposizione (del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2), perchè altrimenti l’esonero delle sole società con partecipazione pari almeno al 25 per cento si tradurrebbe in un beneficio discriminatorio e totalmente ingiustificato.

Invero, sotto il profilo logico, deve innanzitutto rilevarsi che il trattamento differenziato, in dipendenza della misura della partecipazione nella società-figlia tedesca, è previsto testualmente dall’art. 24, par. 2, capoverso b) e non deriva dall’interpretazione di quest’ultima disposizione come preclusiva della doppia imposizione economica, atteso che esso rileverebbe anche rispetto alla doppia imposizione giuridica, nel senso di sottrarre dall’imponibile – in concomitanza con l’eventuale imposizione tedesca alla fonte limitatamente consentita dall’art. 10, par. 2, secondo capoverso – esclusivamente i dividendi incassati dalle società-madri residenti in Italia che detengano almeno il 25 per cento delle società-figlie tedesche.

Pertanto (a prescindere dagli effetti del sopravvenuto adeguamento del diritto domestico tedesco alla Dir. comunitaria “madre-figlia” del 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE) la previsione di un trattamento differenziato tra società-madri italiane, in ragione della misura della loro partecipazione nelle società-figlie tedesche, appartiene all’impianto originario della Convenzione e non deriva dall’interpretazione, nel caso di specie, del concetto di doppia imposizione in senso giuridico od economico, per cui il relativo argomento non assume la rilevanza sistematica, ai fini dell’interpretazione dell’art. 24, par. 2, capoverso b), che la ricorrente Agenzia gli attribuisce.

Inoltre, la differenziazione del regime fiscale in dipendenza anche della soglia di partecipazione al capitale sociale di una diversa società (dato oggettivo sintomatico dell’influenza funzionale della partecipante sulle decisioni e sulle attività della partecipata, e quindi della natura industriale e commerciate dell’investimento, potenzialmente durevole) non è, di per sè sola, irragionevole e discriminatoria, tanto che è condivisa dalla stessa Dir. comunitaria “madre-figlia” del 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, e dalle sue successive modificazioni, che all’art. 3, par. 1, capoverso a), ai fini dell’applicazione della medesima Dir., riconosce la qualità di società-madre a quella che detenga nel capitale di una società di un altro Stato membro una partecipazione minima del 25 per cento (successivamente ridotta, nelle versioni successive della Dir., al 10 per cento).

Peraltro, come argomentato dalla contribuente, non mancano, nel nostro ordinamento, altre disposizioni che subordinano al possesso di partecipazioni societarie oltre una determinata soglia l’applicazione di un determinato regime fiscale favorevole al contribuente, come il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 117 (in materia di soggetti ammessi alla tassazione di gruppo di imprese controllate residenti, con il rinvio all’art. 2359 c.c., comma 1, n. 1, per la definizione del concetto di “imprese controllate” come ” le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”) o il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27-bis, a proposito di diritto al rimborso della ritenuta sui dividendi distribuiti a soggetti non residenti.

E del resto la stessa giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto a dato “quantitativo” della misura della partecipazione al capitale sociale una rilevanza “qualitativa” e funzionale significativa, al fine di distinguere le partecipazioni che consentono di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinarne le attività da quelle acquisite al solo scopo di realizzare un investimento finanziario, senza l’intento di influire sulla gestione e sul controllo dell’impresa (Corte Giustizia, Baudinet, ord. 4/2/2016, C-194/15, punto 25; Corte Giustizia, sent. Bouanich, 13 marzo 2014, C-375/12, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).

Pertanto, nei termini nei quali lo ha accennato la ricorrente, ovvero con riferimento al trattamento fiscale differenziato in ragione della misura della partecipazione al capitale della società-figlia, non si ravvisa la natura irragionevole e discriminatoria della disposizione in questione. Deve, infine, aggiungersi che, all’interno del sistema delineato dalla Convenzione in esame, all’esenzione di cui all’art. 24, par. 2, capoverso b) a favore della società-madre residente in Italia, corrisponde (salvo che per la misura inferiore della soglia percentuale di partecipazione) quella, prevista dall’art. 24, par. 3, lett. a), a favore della società residente in Germania, per quanto concerne i redditi derivanti dai dividendi che le vengano pagati da una società residente della Repubblica italiana.

Viene quindi integrato, a fondamento dell’esenzione qui sub iudice, il principio di reciprocità, tramite reciproche concessioni, che caratterizza e legittima i trattati fiscali, e nello specifico quelli in materia di doppia imposizione.

1.14. Infine, l’Agenzia ricorrente sostiene che, anche a voler ritenere che il ridetto art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b), abbia per oggetto la doppia imposizione economica internazionale, quest’ultima comunque non si realizzerebbe nel caso di specie.

Infatti, secondo tale tesi, la norma fiscale nazionale, ovvero il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89 (già 56), comma 2, come modificato dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, nel disporre che “Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione, anche nei casi di cui all’art. 47, comma 7, dalle società ed enti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) e b), non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare.(…)”, non attribuirebbe comunque rilevanza reddituale al 5 per cento dei dividendi e non avrebbe quindi natura impositiva, per cui non potrebbe concorrere integrare quella “doppia imposizione” cui la Convenzione dovrebbe porre rimedio.

L’argomentazione si fonda sulla circostanza che il già citato testo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, introdotto dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, avrebbe la ratio di adeguare il diritto interno alla sopravvenuta Dir. comunitaria “madre-figlia” del 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, il cui art. 4, al par. 2, statuisce che ogni Stato membro ha la facoltà di stipulare che oneri relativi alla partecipazione e minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano deducibili dall’utile imponibile della società madre, ed in tal caso, qualora le spese di gestione relative alla partecipazione siano fissate forfettariamente, l’importo forfettario non può essere superiore al 5 per cento degli utili distribuiti dalla società figlia.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, quindi, non tasserebbe, neppure nei limiti del 5 per cento, i dividendi in questione, ma si limiterebbe ad assicurare che la deduzione, dall’imponibile, dei costi di gestione della partecipazione non superi il 5 per cento dei dividendi. Tuttavia, tale argomentazione non può essere condivisa.

Infatti, il D.P.R. n. 917 del 1986, lettera del citato art. 89, comma 2, laddove dispone che gli utili distribuiti “non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare” conduce logicamente, ed inequivocabilmente, alla conclusione che, invece, per il restante 5 per cento i medesimi dividendi ” concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti” e, quindi, sono componenti attive della relativa base imponibile e, in quanto tali, sottoposti ad imposizione fiscale.

La natura reddituale della quota del 5 per cento dei dividendi, e la conseguente funzione impositiva della norma interna in esame, trovano inoltre conferma nella relazione governativa che ha accompagnato il D.Lgs. n. 344 del 2003, che ha introdotto il testo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, applicabile ratione temporis.

Si legga infatti nella predetta relazione che:

“Con il provvedimento in esame il sistema dell’imputazione viene abbandonato, eliminando, in particolare, il meccanismo del credito di imposta e adottando il sistema dell’esenzione. Ciò consente di assoggettare sia i dividendi nazionali che quelli di provenienza estera al medesimo trattamento consistente, in linea di principio, nella loro esclusione da imposizione in capo al percettore. In tal modo, così come già avviene in molti ordinamenti Europei, si afferma il principio secondo cui l’utile viene tassato solo al momento della produzione, in capo alla società che lo produce, e non anche in sede di distribuzione ai soci.” (pag. 9);

“La tassazione degli utili nella misura del 5%, ovvero nell’intero ammontare, risulta applicabile anche alla distribuzione degli stessi nelle ipotesi di recesso, di esclusione e riscatto, di riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale delle società residenti e non residenti (…)” (pag. 16);

“Giova porre l’attenzione alla locuzione “in quanto esclusi” al fine di osservare che il riferimento è, ad esempio, ai dividendi per i quali, quindi, simmetricamente all’imponibilità parziale, è riconosciuta a piena deducibilità dei costi connessi alla gestione della partecipazione.” (pag. 27, a proposito del D.P.R. n. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109).

Anche la relazione, pertanto, nel parlare di “tassazione degli utili nella misura del 5%” e della loro “imponibilità parziale”, conforta l’interpretazione testuale, già peraltro inequivoca, in ordine alla natura impositiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, che è quindi idoneo a concorrere ad integrare quella doppia imposizione, in senso economico, alla quale si riferisce l’art. 24 Con., par. 2, capoverso b), interpretato come sopra.

Inoltre la relazione – con l’espresso riferimento al principio secondo cui l’utile viene tassato solo al momento della produzione, in capo alla società che lo produce, e non anche in sede di distribuzione ai soci, e con la ripetuta (cfr. pagg. 2,9,11,53) precisazione che la nuova disciplina reddituale dei dividendi ha la funzione di ridurre, quanto meno, la doppia imposizione economica- induce ad attribuire all’art. 89 T.U.I.R., comma 2, una finalità di contrasto alla doppia imposizione economica sostanzialmente comune a quella riconosciuta all’art. 24 Convenzione, par. 2, capoverso b).

Con la conseguenza, pertanto, che la prevalenza dello strumento convenzionale, che elimina totalmente la doppia imposizione economica, rispetto a quello normativo interno, che la riduce soltanto, deriva dalla prevalenza generale della fonte pattizia internazionale, sulla quale si è già ante argomentato (cfr. punto 1.11).

2. Le spese del giudizio di legittimità si compensano interamente, in considerazione della novità e della complessità della questione controversa.

3. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2019

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