Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30326 del 18/12/2017
Civile Sent. Sez. L Num. 30326 Anno 2017
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO
SENTENZA
sul ricorso 11926-2016 proposto da:
BRUNO EGIDIO, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,
presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato
MARIO BOMBARDIERE, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
2660
DE.RI.CO . NEW GEO S.R.L., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in
ROMA,
VIA
ERITREA
21,
presso
lo
studio
dell’avvocato LUIGI LUCENTE, rappresentata e difesa
Data pubblicazione: 18/12/2017
dall’avvocato DOMENICO GUALTIERI MARINO,
giusta
delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 416/2016 della CORTE D’APPELLO
di CATANZARO, depositata il 03/03/2016 R.G.N.
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/06/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO
AMENDOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale DOTT. ALBERTO CELESTE, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso 1=izttaziager1!e-;
udito l’Avvocato GUALTIERI MARINO DOMENICO.
1592/2015;
R.G. n. 11926/2016
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 3.3.2016, in riforma
della pronuncia di primo grado, ha accertato l’illegittimità del licenziamento
intimato a Bruno Egidio dalla Derico New Geo Srl e, dichiarato risolto il
a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale ha qualificato la vicenda estintiva in termini di
impossibilità sopravvenuta della prestazione per
factum principis
–
determinato da una interdittiva prefettizia antimafia adottata nei confronti
della società in quanto aveva alle proprie dipendenze soggetti, quali il
reclamante, attinti da “pregiudizi” per reati di stampo mafioso o in rapporti di
parentela con appartenenti a cosche di “ndrangheta” – provvedimento che
precludeva al datore lo svolgimento dell’attività di impresa fintanto che
manteneva alla sue dipendenze il lavoratore di poi espulso.
Indi la Corte – per quanto qui ancora rileva – pur ritenendo l’illegittimità del
licenziamento ricondotto al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della
I. n. 604 del 1966, ha applicato la tutela prevista dai commi quinto e settimo
dell’art. 18 della I. n. 300 del 1970 come novellato dalla I. n. 92 del 2012.
Ha considerato infatti che detta “illegittimità discende non già dalla
manifesta insussistenza del fatto addotto, attesa l’obiettività
dell’impedimento scaturente dal provvedimento autoritativo a cui il
licenziamento aveva fatto seguito, bensì dalla considerazione che esso non
integra gli estremi del giustificato motivo oggettivo stante la transitorietà
dell’impedimento medesimo o, meglio, stante la mancanza di prova della sua
intollerabilità per il periodo di prevedibile durata”.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con
due motivi. Ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Il ricorrente denuncia sia “omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” sia “violazione o falsa
rapporto di lavoro, ha condannato la società al pagamento di una somma pari
R.G. n. 11926/2016
applicazione di norme di diritto – in relazione all’art. 18, commi 4 e 7, della I.
n. 300/1970”.
Si deduce in sostanza che la non manifesta insussistenza del fatto addotto a
giustificazione del licenziamento, così come ritenuta dalla Corte calabra, “non
tiene in debito conto l’atteggiamento assunto dal datore di lavoro, che non ha
contenuta nella interdittiva antimafia”.
2. I motivi, come formulati, si rivelano palesemente inammissibili.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non viene in
alcun modo individuato quale sarebbe il fatto decisivo di cui sarebbe stato
omesso l’esame, tale che, se fosse stato invece valutato, avrebbe condotto
ad una diverso esito della controversia con grado di certezza e non con
prognosi di mera probabilità. Inoltre si trascura di considerare che per la
sentenza impugnata opera il novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ed il motivo è
formulato senza il rispetto degli enunciati imposti dalle Sezioni unite di
questa Corte a partire dalle sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.
Circa la denunciata violazione o falsa applicazione di legge, secondo il
costante insegnamento di questa Corte, proprio con riferimento all’art. 360,
co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con
l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante
la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza
impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme
regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla
giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare
criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non
risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito
istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n.
287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n.
16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
Mentre nella specie in alcun modo viene enucleato quale sarebbe l’errore di
interpretazione ovvero il vizio di sussunzione in cui sarebbe incorsa la Corte
territoriale.
2
mai dubitato dell’assoluta inconsistenza della ‘accusa di ingerenza mafiosa’
R.G. n. 11926/2016
Infine le doglianze proposte appaiono prive di qualsiasi specificità,
traducendosi in una generica critica alla sentenza impugnata, ben lontana dai
canoni rigorosamente vincolati dall’elencazione tassativa contenuta nell’art.
360 c.p.c..
3. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile.
Occorre dare atto della sussistenza, per il ricorrente, dei presupposti di cui
all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1,
co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per
esborsi, oltre accessori e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 giugno 2017
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.