Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30325 del 18/12/2017


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Civile Sent. Sez. L Num. 30325 Anno 2017
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO

SENTENZA
sul ricorso 5273-2016 proposto da:
GIGLIO VINCENZO, domiciliato

ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato
EUGENIA PERRI, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2017
2659

DERICO NEW GEO S.R.L.;
-Intimatanonchè da:
DE.RI.CO . NEW GEO S.R.L.,

in persona del legale

Data pubblicazione: 18/12/2017

rappresentante pro ,_e_wpdre, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA ERITREA N.21, presso lo studio
dell’Avvocato LUIGI LUCENTE, rappresentata e difesa
dall’Avvocato DOMENICO GUALTIERI MARINO, giusta delega
in atti;

contro
GIGLIO VINCENZO;
-intimatoavverso la sentenza n. 1284/2015 della CORTE D’APPELLO
di CATANZARO, depositata il 26/10/2015 R.G.N.
692/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/06/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO
AMENDOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale DOTT. ALBERTO CELESTE, che ha concluso per il
rigetto del ricorso principale ed inammissibilità del
ricorso incidentale;
udito l’Avvocato MARCO VIGLIETTA per delega verbale
EUGENIA PERRI;
udito l’Avvocato DOMENICO GUALTIERI MARINO.

-controricorrente e ricorrente incidentale-

R.G. n. 5273/2016

Fatti di causa

1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 26.10.2015, in riforma
della pronuncia di primo grado, ha accertato l’illegittimità del licenziamento
intimato a Vincenzo Giglio dalla Derico New Geo Srl ed ha condannato la

retribuzione globale di fatto, richiamando il comma sesto dell’art. 18 della I.
n. 300 del 1970 come novellato dalla I. n. 92 del 2012.
La Corte territoriale ha preliminarmente ritenuto che il licenziamento fosse
riconducibile non ad un illecito disciplinare bensì ad un fatto oggettivo che
non aveva reso possibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, nella specie
consistente in una interdittiva prefettizia che aveva evidenziato il pericolo di
infiltrazioni mafiose nell’azienda in ragione della presenza di lavoratori aventi
precedenti penali e comunque vicini, per rapporti di parentela o affinità, ad
esponenti dei locali clan mafiosi. Tale provvedimento aveva comportato una
modifica dell’organizzazione dell’impresa, “pacificamente votata in via
esclusiva o comunque prevalente all’acquisizione ed esecuzione di appalti
pubblici (raccolta e smaltimento dei rifiuti e nettezza urbana)”, al fine di
evitare la perdita di commesse.
Premesso che il provvedimento prefettizio che aveva originato tale
riorganizzazione era successivamente venuto meno, perché dichiarato
illegittimo dal giudice amministrativo, la Corte calabra ha considerato che
non sussistesse il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, tanto che il
provvedimento de quo era stato tempestivamente ritenuto illegittimo dal
datore ed impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Ha
aggiunto che “il datore, infatti, nelle more del ricorso giurisdizionale
amministrativo, ben avrebbe potuto procedere ad una temporanea
sospensione del rapporto con i lavoratori, indicati come segno di infiltrazione
mafiosa, trattandosi di circostanza che sottoposta a vaglio giurisdizionale ben
poteva essere ritenuta temporanea”.
Quindi, una volta accertata la mancanza di un “giustificato motivo oggettivo
di licenziamento”, la Corte di Appello ha considerato però che non potesse

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società al pagamento di una somma pari a sei mensilità dell’ultima

R.G. n. 5273/2016

“qualificarsi la fattispecie come priva in modo manifesto dei fatti
astrattamente idonei a cagionare i licenziamenti”.
La sentenza d’appello ha poi così testualmente concluso: “non può, allora,
ad avviso della Corte, farsi applicazione alla fattispecie in esame del quarto
comma del novellato art. 18, bensì del comma sesto che richiama il quinto”.

cinque motivi. Ha resistito la società con controricorso, contenente ricorso
incidentale affidato ad un motivo.

Ragioni della decisione

1. Per ragioni di carattere logico-giuridico deve essere prioritariamente
esaminato il ricorso incidentale della società, in quanto con esso si contesta
l’illegittimità del licenziamento ritenuta dalla Corte territoriale.
Con un unico motivo si denuncia testualmente “violazione e falsa
applicazione di norme e principi di diritto”; sarebbe viziato l’iter motivazionale
della sentenza impugnata che violerebbe il principio secondo cui “la sentenza
fa stato fra le parti presenti nel processo”, atteso che il lavoratore non aveva
partecipato al processo amministrativo sicché gli effetti della sentenza che
aveva caducato il provvedimento prefettizio potevano prodursi
esclusivamente nei confronti della società e delle amministrazioni pubbliche
presenti in detto giudizio; si deduce che sulla valutazione della legittimità del
licenziamento non potevano influire fatti successivi quali la sentenza del TAR
Calabria.
Il motivo, così come formulato, è inammissibile.
Non solo nella rubrica di esso, ma anche nell’illustrazione non viene indicata
in alcun modo norma di diritto alla quale parametrare la denunciata
violazione e falsa applicazione di legge, in modo da consentire a questa Corte
il sindacato sulla sentenza impugnata previsto secondo i canoni della critica
rigorosamente vincolata dall’art. 360 c.p.c..
Infatti secondo il costante insegnamento di questa Corte, proprio con
riferimento all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di

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2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con

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inammissibilità,

non solo con

l’indicazione delle norme di diritto

asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che
motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della
fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di

valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti
consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare
il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n.
635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n.
3010 del 2012).
Inoltre le doglianze proposte appaiono prive di adeguata specificità ed
inconferenti rispetto al decisum atteso che la Corte territoriale non ha affatto
ritenuto l’illegittimità del licenziamento in ragione di un preteso giudicato
amministrativo.
2. Posta quindi l’illegittimità del licenziamento con una statuizione della
Corte calabra che, per quanto innanzi esposto, ha superato il vaglio di
legittimità, è possibile esaminare i motivi di ricorso principale che riguardano
le tutele riconosciute dai giudici del merito nella vigenza dell’art. 18 I. n. 300
del 1970, come novellato dalla I. n. 92 del 2012.
3. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di detta
disposizione, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., in quanto “il fatto
posto a fondamento del licenziamento, l’esistenza di un rapporto di
parentela, …, indicato nell’interdittiva, quale “capo dell’omonima cosca
mafiosa operante a Strongoli”, trattandosi di una condizione giuridica
svincolata da un’azione, comportamento del lavoratore, deve considerarsi
quale fatto insussistente, secondo l’interpretazione dell’art. 18 fornita da
questa Corte Suprema”.
Con il secondo motivo si denuncia violazione del medesimo articolo di legge
in quanto “il rapporto di parentela, dal quale si vuole fare scaturire il fatto
sussistente posto alla base del licenziamento, è privo del carattere

3

legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una

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dell’illiceità e dunque giuridicamente irrilevante” ed all’uopo si richiamano
quali precedenti Cass. n. 23669 del 2014 e Cass. n. 20540 del 2015.

Il terzo mezzo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.
assumendo che “il fatto contestato al ricorrente non è stato provato dal
datore di lavoro, che si limitava nelle sue difese ad addurre nell’emissione

viene fornita, e ciò in palese violazione di legge, d’ufficio dalla Corte di
Appello di Catanzaro, in virtù di una motivazione illogica”.
Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della I. n.
104 del 2010 e della I. n. 241 del 1990 nonché violazione del giudicato; ci si
duole di “una motivazione del tutto illogica e contraddittoria” della sentenza
impugnata “emessa in violazione delle norme relative al procedimento e al
giusto processo amministrativo nonché in violazione dello stesso
provvedimento del giudice amministrativo, che ha dichiarato l’illegittimità per
eccesso di potere dell’interdittiva antimafia”.
4. Tali motivi, congiuntamente scrutinabili per reciproca connessione, sono
in parte inammissibili ed in parte infondati.
Innanzitutto essi soffrono della medesima inadeguatezza segnalata per il
ricorso incidentale laddove lamentano violazioni o false applicazione di legge
senza la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella
sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le
norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita
dalla giurisprudenza di legittimità.
Anche laddove denunciano “vizi di motivazione” le doglianze trascurano di
considerare che essi possono riguardare solo la ricostruzione in fatto della
vicenda storica che ha dato origine alla controversia e non certo le
argomentazioni in diritto della sentenza impugnata e comunque ignorano che
i difetti di motivazione, di per sé, non possono determinare la cassazione
della sentenza al di fuori delle ipotesi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.,
novellato, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa
Corte a partire dalle sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.

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dell’interdittiva la motivazione del licenziamento, la prova del presunto fatto

R.G. n. 5273/2016

Inoltre i motivi di gravame sono in larga parte inconferenti rispetto al
decisum della Corte di Appello che ha espressamente escluso “la natura
disciplinare del licenziamento” (pag. 12), mentre invece il ricorrente
principale propone censure che presuppongono l’esistenza proprio di un
licenziamento disciplinare, come è reso manifesto dal continuo riferimento al

pronunciatasi in ipotesi di recessi individuali aventi appunto natura
disciplinare.
In definitiva, poi, la Corte territoriale ha correttamente negato la tutela
reintegratoria in considerazione della natura residuale di essa come prevista
dall’art. 18 novellato così già interpretato da questa Corte (Cass. n. 14021
del 2016).
Invero la I. n. 92 del 2012, graduando le tutele in caso di licenziamento
illegittimo, ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18 una tutela
reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di
cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e
condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al
pagamento di una indennità risarcitoria dl giorno del licenziamento sino a
quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12
mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela
meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di
lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al
pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un
minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri
contenuti nella disposizione medesima.
La linea di confine tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo illegittimo, è disegnata dal settimo comma dell’art. 18
novellato secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: “Può
altresì applicare la predetta disciplina (ndr. quella di cui al quarto comma)
nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui

“fatto contestato” così come dal richiamo alla giurisprudenza di legittimità

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accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il
giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”.
Da più parti è stata segnalata l’incertezza di portata applicativa cui può dar
luogo la norma citata che ricollega alla nozione di “manifesta insussistenza
del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”

reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica.
Secondo la pronuncia di questa Corte già citata – che qui si condivide poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra
tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato
motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del
licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta
“insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che l’intenzione del
legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di
riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da
eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento
individuale per motivi economici.
Ciò detto nella specie non è in dubbio l’esistenza, al momento del
licenziamento, dell’interdittiva prefettizia, afferente anche la posizione del
lavoratore in controversia, potenzialmente idonea ad incidere sul regolare
funzionamento dell’organizzazione del lavoro dell’impresa datrice ai sensi
dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966; l’illegittimità del recesso sta piuttosto nel
non avere la società dimostrato le ragioni che rendevano intollerabile
attendere la rimozione dell’impedimento alle normali funzioni del lavoratore,
impedimento che poteva avere una durata temporanea tenuto conto che
l’azienda – come accertato dalla Corte territoriale – aveva “tempestivamente
ritenuto illegittimo” il provvedimento e lo aveva “impugnato dinanzi agli
organi della giustizia amministrativa” (cfr. Cass. n. 7904 del 1998, con cui
questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto
sorretto da un giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato da una
società appaltatrice del servizio di nettezza urbana di un Comune siciliano
commissariato ad un proprio dipendente che, da una comunicazione del

3L)

6

conseguenze rilevanti quali il riconoscimento di una tutela di tipo

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Commissario straordinario del Comune stesso, risultava in una condizione di
“incompatibilità ambientale” ad operare nel territorio comunale perché
“affiliato” ad organizzazioni malavitose).
Pertanto tale ipotesi è riconducibile non a quella peculiare che postula un
connotato di particolare evidenza nell’insussistenza del fatto posto a

generale per la quale è sufficiente che “non ricorrano gli estremi del predetto
giustificato motivo” oggettivo.
5. In ragione di quanto precede, dal punto di vista delle conseguenze
derivanti dall’illegittimo licenziamento di Vincenzo Giglio, può essere accolto
l’ultimo motivo nei limiti in cui, comunque ribadita l’esclusione della tutela
reintegratoria, si invoca la “responsabilità risarcitoria nei confronti del
lavoratore” da parte della società e, dunque, il risarcimento di un maggior
danno rispetto a quello liquidato nella sentenza impugnata.
Infatti la Corte territoriale ha erroneamente parametrato la condanna della
datrice di lavoro ad una somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto.
Invece, la tutela del sesto comma dell’art. 18 I. n. 300 del 1970 modificato
dalla I. n. 92 del 2012, “con attribuzione al lavoratore di un’indennità
risarcitoria onnicomprensiva determinata … tra un minimo di sei ed un
massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”, opera
esclusivamente nelle ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace
per violazione del requisito di motivazione del licenziamento, della procedura
di cui all’art. 7 della I. n. 300 del 1970 o della procedura conciliativa prevista
dall’art. 7 della I. n. 604 del 1966.
Ipotesi all’evidenza non ricorrenti nella specie.
Una volta esclusa “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo … nelle altre ipotesi – come
quella in controversia – in cui accerta che non ricorrono gli estremi del
predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto
comma”, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità
risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 ed un massimo

CAII\
7

fondamento del recesso, bensì è sussumibile nell’alveo di quella di portata

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di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in base alla
valutazione degli elementi indicati nel medesimo comma.
6. Conclusivamente, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, quello
principale, respinto ogni altro motivo, va accolto limitatamente al quinto nei
sensi specificati nella presente motivazione, con cassazione della sentenza

l’indennità risarcitoria onnicomprensiva commisurata tra un minimo di 12
mensilità ad un massimo di 24, secondo quanto previsto dal quinto comma
dell’art. 18 novellato dalla I. n. 92 del 2012.
Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese,
comprese quelle del giudizio di legittimità.
Occorre dare atto della sussistenza, per la sola ricorrente incidentale, dei
presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come
modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte, rigettato ogni altro motivo del ricorso principale, accoglie l’ultimo,
cassa la sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvia alla Corte di
Appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese; dichiara
inammissibile il ricorso incidentale.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente
incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art.
13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 giugno 2017

impugnata e rinvio al giudice indicato in dispositivo al fine di stabilire

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