Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30323 del 18/12/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 18/12/2017, (ud. 14/06/2017, dep.18/12/2017),  n. 30323

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 26.11.2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato a P.M. dalla Derico New Geo Srl ed ha condannato la società al pagamento di una somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, richiamando la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

La Corte territoriale ha preliminarmente ritenuto che il licenziamento fosse riconducibile non ad un illecito disciplinare bensì ad un fatto oggettivo che non aveva reso possibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, nella specie consistente in una interdittiva prefettizia che aveva evidenziato il pericolo di infiltrazioni mafiose nell’azienda in ragione della presenza di lavoratori aventi precedenti penali e comunque vicini, per rapporti di parentela o affinità, ad esponenti dei locali clan mafiosi. Tale provvedimento aveva comportato una modifica dell’organizzazione dell’impresa, “pacificamente votata in via esclusiva o comunque prevalente all’acquisizione ed esecuzione di appalti pubblici (raccolta e smaltimento dei rifiuti e nettezza urbana)”, al fine di evitare la perdita di commesse.

Premesso che il provvedimento prefettizio che aveva originato tale riorganizzazione era successivamente venuto meno, perchè dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo, la Corte calabra ha considerato che non sussistesse il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, tanto che il provvedimento de quo era stato tempestivamente ritenuto illegittimo dal datore ed impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Ha aggiunto che “il datore, infatti, nelle more del ricorso giurisdizionale amministrativo, ben avrebbe potuto procedere ad una temporanea sospensione del rapporto con i lavoratori, indicati come segno di infiltrazione mafiosa, trattandosi di circostanza che sottoposta a vaglio giurisdizionale ben poteva essere ritenuta temporanea”.

Quindi, una volta accertata la mancanza di un “giustificato motivo oggettivo di licenziamento”, la Corte di Appello ha considerato però che non potesse “qualificarsi la fattispecie come priva in modo manifesto dei fatti astrattamente idonei a cagionare i licenziamenti”.

La sentenza d’appello ha poi così testualmente concluso: “non può, allora, ad avviso della Corte, farsi applicazione alla fattispecie in esame del novellato art. 18, comma 4, bensì del comma 6, che richiama il quinto”.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con quattro motivi. Ha resistito la società con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Per ragioni di carattere logico-giuridico deve essere prioritariamente esaminato il ricorso incidentale della società, in quanto con esso si contesta l’illegittimità del licenziamento ritenuta dalla Corte territoriale.

Con un unico motivo si denuncia testualmente “violazione e falsa applicazione di norme e principi di diritto”; sarebbe viziato l’iter motivazionale della sentenza impugnata che violerebbe il principio secondo cui “la sentenza fa stato fra le parti presenti nel processo”, atteso che il lavoratore non aveva partecipato al processo amministrativo sicchè gli effetti della sentenza che aveva caducato il provvedimento prefettizio potevano prodursi esclusivamente nei confronti della società e delle amministrazioni pubbliche presenti in detto giudizio; si deduce che sulla valutazione della legittimità del licenziamento non potevano influire fatti successivi quali la sentenza del TAR Calabria.

Il motivo, così come formulato, è inammissibile.

Non solo nella rubrica di esso, ma anche nell’illustrazione non viene indicata in alcun modo norma di diritto alla quale parametrare la denunciata violazione e falsa applicazione di legge, in modo da consentire a questa Corte il sindacato sulla sentenza impugnata previsto secondo i canoni della critica rigorosamente vincolata dall’art. 360 c.p.c..

Infatti secondo il costante insegnamento di questa Corte, proprio con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Inoltre le doglianze proposte appaiono prive di adeguata specificità ed inconferenti rispetto al decisum atteso che la Corte territoriale non ha affatto ritenuto l’illegittimità del licenziamento in ragione di un preteso giudicato amministrativo.

2. Posta quindi l’illegittimità del licenziamento con una statuizione della Corte calabra che, per quanto innanzi esposto, ha superato il vaglio di legittimità, è possibile esaminare i motivi di ricorso principale che riguardano le tutele riconosciute dai giudici del merito nella vigenza della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

3. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di tale norma per avere la sentenza impugnata negato la tutela reintegratoria prevista dal quarto comma, richiamata dal detto art. 18, comma 7. Si sostiene infatti che il giustificato motivo oggettivo era costituito da una interdittiva antimafia improduttiva di effetti, perchè caducata a seguito di sentenza del giudice amministrativo, “con conseguente inesistenza della esigenza di riorganizzazione aziendale (rispetto alla quale l’interdittiva era l’unico presupposto)”, sicchè il recesso restava sprovvisto di qualsiasi giustificazione.

Il motivo è infondato, considerando la natura residuale della tutela reintegratoria, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, novellato, già affermata da questa Corte (v. Cass. n. 14021 del 2016).

Invero la L. n. 92 del 2012, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18, una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima.

La linea di confine tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è disegnata dall’art. 18, comma 7, novellato secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: “Può altresì applicare la predetta disciplina (ndr. quella di cui al comma 4) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al comma 5”.

Da più parti è stata segnalata l’incertezza di portata applicativa cui può dar luogo la norma citata che ricollega alla nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” conseguenze rilevanti quali il riconoscimento di una tutela di tipo reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica.

Secondo la pronuncia di questa Corte già citata – che qui si condivide poichè il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta “insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici.

Ciò detto nella specie non è in dubbio l’esistenza, al momento del licenziamento, dell’interdittiva prefettizia, afferente anche la posizione del lavoratore in controversia, potenzialmente idonea ad incidere sul regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro dell’impresa datrice ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3; l’illegittimità del recesso sta piuttosto nel non avere la società dimostrato le ragioni che rendevano intollerabile attendere la rimozione dell’impedimento alle normali funzioni del lavoratore, impedimento che poteva avere una durata temporanea tenuto conto che l’azienda – come accertato dalla Corte territoriale – aveva “tempestivamente ritenuto illegittimo” il provvedimento e lo aveva “impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa” (cfr. Cass. n. 7904 del 1998, con cui questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto sorretto da un giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato da una società appaltatrice del servizio di nettezza urbana di un Comune siciliano commissariato ad un proprio dipendente che, da una comunicazione del Commissario straordinario del Comune stesso, risultava in una condizione di “incompatibilità ambientale” ad operare nel territorio comunale perchè “affiliato” ad organizzazioni malavitose).

Pertanto tale ipotesi è riconducibile non a quella peculiare che postula un connotato di particolare evidenza nell’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì è sussumibile nell’alveo di quella di portata generale per la quale è sufficiente che “non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo” oggettivo.

4. Subordinatamente, con il secondo motivo del ricorso principale l’istante lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 18, novellato per avere la sentenza impugnata applicato il comma 6, della disposizione (cd. tutela indennitaria debole con risarcimento del danno dalle 6 alle 12 mensilità) in luogo del precedente comma quinto (risarcimento del danno dalle 12 alle 24 mensilità). La stessa statuizione viene impugnata con il terzo motivo per vizi di motivazione.

I motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, sono fondati.

La tutela del sesto comma della L. n. 300 del 1970, art. 18, modificato dalla L. n. 92 del 2012, “con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata… tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”, applicata dalla Corte territoriale, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione del licenziamento, della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, o della procedura conciliativa prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 7.

Ipotesi all’evidenza non ricorrenti nella specie.

Una volta esclusa “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo… nelle altre ipotesi – come quella in controversia – in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in base alla valutazione degli elementi indicati nel medesimo comma.

5. L’accoglimento di tali motivi comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad essi, con conseguente assorbimento del quarto mezzo di ricorso principale con cui si denuncia la violazione dell’art. 92 c.p.c., per avere la Corte di Appello integralmente compensato le spese di lite, atteso che le spese del giudizio di merito andranno riliquidate all’esito del giudizio di rinvio.

6. Conclusivamente, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, quello principale, respinto il primo motivo, va accolto nel solo suo secondo e terzo mezzo di gravame, assorbito l’ultimo, con cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti al fine di stabilire l’indennità risarcitoria onnicomprensiva commisurata tra un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24, secondo quanto previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 18, comma 5.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese, comprese quelle del giudizio di legittimità.

Occorre dare atto della sussistenza, per la sola ricorrente incidentale, dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte, rigettato il primo motivo del ricorso principale,‹ accoglie il secondo ed il terzo, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, rinvia alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese; dichiara inammissibile il ricorso incidentale.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2017

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