Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30311 del 30/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 30/12/2011, (ud. 06/12/2011, dep. 30/12/2011), n.30311

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FELICETTI Francesco – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

S.S. (C.F.: (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in Roma, via Asiago n. 8, presso lo studio dell’Avvocato

Stefano Santarelli, rappresentato e difeso dall’Avvocato Brizzi

Nicola per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

R.F. (C.F.: (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in Roma, via Pierluigi da Palestrina n. 63, presso lo

studio dell’Avvocato Contaldi Gianluca, rappresentato e difeso

dall’Avvocato Vannisanti Valeria per procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 1022 del

2010, depositata in data 24 giugno 2010;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6

dicembre 2011 dal Consigliere Dott. Stefano Petitti;

sentito per il resistente l’Avvocato Gianluca Contaldi con delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso in senso conforme alla relazione.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che S.S. acquistò nel 1997 un immobile sito in (OMISSIS), confinante con altro immobile di proprietà di R.F.;

che nel 2006 il S. citò in giudizio il R. chiedendo che fosse riconosciuta la comproprietà del vano sottostante una loggia appartenente ad esso attore, ma a cui si accedeva solo attraverso un resede di proprietà del convenuto, e che gli fosse riconosciuta la servitù di passo per l’accesso al detto vano;

che il R. si costituì opponendosi alle domande e chiedendo, in via riconvenzionale, dichiararsi che il vano sottostante la loggia era di sua proprietà;

che l’adito Tribunale di Siena respinse le domande del S. e accolse la domanda riconvenzionale;

che il S. ha proposto appello, cui ha resistito il R.;

che la Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 1022, depositata il 24 giugno 2010, ha rigettato l’appello;

che la corte territoriale ha rilevato che il S. si era limitato a chiedere che venisse riconosciuta la natura condominiale del vano sottoscala, senza spiegare perchè il vano avrebbe avuto caratteristiche tali da poter essere considerato condominiale e quindi di proprietà comune tra lui e il R.; ha rilevato altresì che l’appellante si era limitato a richiamare l’art. 1117 cod. civ. senza tuttavia indicare in quale delle tre categorie ivi elencate sarebbe dovuto rientrare il vano conteso;

che la Corte ha pertanto ritenuto la domanda del tutto indeterminata, non risultando possibile in alcun modo comprendere per quale ragione il vano dovesse essere considerato condominiale visto che non si trattava di un portico o di un cortile o dell’alloggio del portiere o del locale per il riscaldamento centrale e neppure di un pozzo o di una cisterna e, comunque, di una parte dell’edificio necessaria all’uso comune;

che inoltre l’istruttoria aveva evidenziato che il dante causa dell’appellante era ben consapevole di coltivare un fondo altrui e di aver utilizzato il vano sottoscala per riporre attrezzi e quant’altro gli potesse occorrere per coltivare il fondo; in sostanza il locale non veniva utilizzato dal dante causa dell’appellante perchè condominiale, ma solo perchè funzionale alla coltivazione dell’orto di proprietà del dante causa dell’appellate – che all’appellante non poteva neanche giovare il fatto che in passato nel vano in questione esistesse uno scarico al servizio esclusivo del sovrastante appartamento oggi di sua proprietà;

che da un lato, infatti, non era certa l’ubicazione dello scarico;

dall’altro, quand’anche il pozzetto fosse stato ubicato nel vano controverso, ciò non avrebbe in alcun modo comportato la natura condominiale del locale, potendosi al più ritenere che su tale locale gravava una servitù ormai da tempo abbandonata per non uso;

che da ultimo la Corte d’appello ha rilevato che la tesi dell’appellato trovava conferma nella circostanza che al vano in questione si accede solo attraverso il resede ora di proprietà del medesimo appellato;

che per la cassazione di questa sentenza S.S. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, cui ha resistito con controricorso l’intimato;

che essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione del ricorso con il rito camerale, è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., che è stata comunicata alle parti e al pubblico ministero.

Considerato che il relatore designato ha formulato la seguente proposta di decisione:

“… Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione di norme di diritto, rilevando che l’art. 117 (recte: 1117) cod. civ. stabilisce una presunzione di comunione delle parti comuni, a meno che le stesse non risultino di proprietà esclusiva in base al titolo o al regolamento contrattuale o per usucapione. Devono quindi essere escluse dalle cose comuni quelle parti che, per le loro caratteristiche strutturali, risultano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari di un determinato edificio. Nella specie, si è invece in presenza di un vano sottoscala, indistintamente utilizzato sia dai danti causa di esso ricorrente, sia da quelli del resistente; il vano infatti era utilizzato come ripostiglio di attrezzi dai danti causa di esso ricorrente; nel medesimo vano, inoltre, era presente un pozzetto in cui confluivano gli scarichi del bagno di proprietà dei danti causa di esso ricorrente. In sostanza, assume il ricorrente, la relazione di accessorietà tra la sua proprietà e il vano sottoscala era stata confermata anche dalla espletata istruttoria testimoniale.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, avente ad oggetto le critiche rivolte alla sentenza di primo grado, non adeguatamente apprezzate dalla Corte d’appello.

Il ricorso è inammissibile.

Quanto al primo motivo, deve rilevarsi che il ricorrente, come puntualmente eccepito dal resistente, ha svolto le proprie argomentazioni assumendo a fondamento una situazione di fatto, in relazione alla quale sarebbe poi stata fatta applicazione della disposizione di cui all’art. 117 (recte: 1117) cod. civ., del tutto difforme da quella accertata dalla Corte d’appello e non utilmente e puntualmente contrastata dal medesimo ricorrente. In particolare, il ricorrente assume che la natura comune del bene sarebbe desumibile dall’essere il vano stato utilizzato dai danti causa di entrambe le parti, laddove la Corte dr appello ha invece accertato che i danti causa del ricorrente avevano utilizzato il vano come deposito per gli attrezzi strumentali alla coltivazione del fondo di proprietà dei danti causa del resistente. Ed ancora, il ricorrente assume la natura comune del bene sulla base della circostanza della esistenza di un pozzo nero, laddove la Corte d’appello ha ritenuto che la circostanza non fosse stata accertata quanto alla collocazione del pozzo stesso e ha altresì osservato che la presenza dello scarico avrebbe al più comportato l’esistenza di una servitù, ormai dismessa per non uso.

In sostanza, il ricorrente, prospettando un vizio di violazione di legge, sollecita in realtà una valutazione delle risultanze istruttorie diversa da quella motivatamente e non idoneamente censurata effettuata dalla Corte d’appello, il che non è consentito in sede di legittimità.

Quanto al secondo motivo, appare evidente il deficit di autosufficienza del ricorso, atteso che il ricorrente ha riferito del contenuto della sentenza di primo grado e ha fatto riferimento a quanto dichiarato dai testimoni, ma da un lato ha omesso di riprodurre il contenuto delle deposizioni alle quali ha fatto riferimento; dall’altro, non ha riprodotto il testo delle censure proposte nell’atto di appello e del mancato esame delle quali da parte del giudice del gravame egli si duole. Senza dire che il ricorrente ha proposto una censura afferente alla motivazione, laddove ciò di cui egli si duole è il mancato esame di un motivo di gravame; censura, questa, che avrebbe dovuto essere dedotta ai sensi dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 360 c.p.c., n. 4, con le modalità proprie della deduzione di un siffatto error in procedendo (v., in proposito, Cass. n. 6361 del 2007; Cass., S.U., n. 15781 del 2005).

Sussistono quindi le condizioni per la trattazione del ricorso in camera di consiglio, perchè il ricorso deve essere dichiarato inammissibile”.

Rilevato che il ricorrente ha depositato memoria;

che il Collegio ritiene che le argomentazioni svolte dal ricorrente nella memoria non siano idonee ad indurre a differenti conclusioni, risolvendosi le stesse nella riproposizione delle deduzioni di cui al ricorso e nella sollecitazione ad una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie, già idoneamente, e con motivazione logica e immune dai denunciati vi, apprezzate dalla Corte d’appello;

che il Collegio condivide dunque la proposta di decisione del relatore;

che il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 6 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011

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