Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3028 del 11/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 3028 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: BANDINI GIANFRANCO

SENTENZA

sul ricorso 6114-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e

a

difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
contro

3658

MAGGIOLINI

MARIA

LUISA

domiciliata in ROMA,

C.F.

MGGMLS58A41A462Q,

PIAZZA CAVOUR,

presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

Data pubblicazione: 11/02/2014

rappresentata e difesa dall’avvocato PUGLIA MARIA
RITA, giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 241/2012 della CORTE D’APPELLO
di ANCONA, depositata il 21/03/2012 r.g.n.303/2011

udienza

del

12/12/2013

dal

Consigliere

Dott.

GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato PUGLIA MARIA RITA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso per guanto di ragione.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

Con sentenza del 2-21.3.2012 la Corte d’Appello di Ancona, in
parziale accoglimento del gravame svolto dalla Poste Italiane spa nei
confronti di Maggiolini Maria Luisa avverso la pronuncia di prime
cure, che aveva ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di
lavoro stipulato inter partes per il periodo 1°.2.2001-31.5.2001, in
applicazione dell’art. 32 legge n. 183/10 ridusse la condanna al
risarcimento del danno ad una somma pari ad otto mensilità della
retribuzione di fatto, oltre rivalutazione ed interessi legali,
confermando nel resto la decisione impugnata.
Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale, la Poste
Italiane spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro
motivi e illustrato con memoria.
L’intimata Maggiolini Maria Luisa ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La sentenza impugnata ha disatteso la doglianza secondo cui il
contratto si sarebbe risolto per mutuo consenso, osservando che
non potrebbe ravvisarsi una qualche rinuncia del lavoratore
desumibile dal mero decorso del tempo; che non appariva decisiva e
neppure significativa la riscossione del tfr; che la stessa assenza di
una sollecita contestazione o di una riserva espressa non poteva

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

consapevolezza, all’epoca, da parte della lavoratrice, dei propri diritti
o la sussistenza della necessità di evitare qualsiasi contrasto con la
parte datoriale, nel timore di perdere ogni futura possibilità
lavorativa.

1.1 Tale statuizione è stata censurata con il primo mezzo; la
ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372, commi 1 e 2, cc,
nonché vizio di motivazione e nullità del procedimento, sostiene che,
nel caso di specie, la protrazione dell’inerzia per diversi anni, la
breve durata del contratto impugnato, l’assenza di contestazioni e la
riscossione del tfr costituivano elementi che, se correttamente
valutati, avrebbero dovuto condurre al riconoscimento
dell’acquiescenza della lavoratrice alla situazione verificatasi.

1.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, con principio
affermato ai sensi dell’art. 360 bis cpc, nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a
tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione di
un termine, é necessario, affinché possa configurarsi una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso, che sia accertata – sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a
termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali

essere ritenuta sleale, essendo ben possibile la non

porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal
fine, non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo la
scadenza del contratto, né l’accettazione del trattamento di fine
rapporto e la mancata offerta della prestazione, né la mera ricerca di
occupazione a seguito della perdita del lavoro per causa diversa
dalle dimissioni; la valutazione del significato e della portata del
complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non
sussistono vizi logici o errori di diritto (cfr, ex plurimis, Cass., n.
16287/2011).
La motivazione addotta dalla Corte territoriale, coerente con i dati
acquisiti ed immune da vizi logici, non resta pertanto scalfita dalle
censure svolte, che, nella sostanza, si risolvono nella richiesta di un
riesame del materiale probatorio inammissibile in questa sede di
legittimità.
Il motivo all’esame non può pertanto essere accolto.

2. Il contratto in relazione al quale è stata dichiarata la nullità del
termine venne concluso, per il periodo 1°.2.2001-31.5.2001, ai sensi
dell’art. 25 del CCNL 11.1.2001 dei lavoratori postali, “per esigenze
di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione,

circostanze significative – una chiara e comune volontà delle parti di

territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero
conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove
tecnologie, prodotti o servizi”.

2.1 La Corte territoriale ha ritenuto la nullità dell’apposizione del
termine per due distinte ragioni, ciascuna delle quali di per sé
sufficiente a sostenere il decisum:
a) per non essere stata fornita la prova, necessaria in ipotesi di
contestazione, di una specifica ed effettiva giustificazione, neppure
proposta, nell’assenza di specifiche deduzioni;
b) la parte datoriale, a tanto onerata, vertendo la questione sulla
sussistenza di un elemento costitutivo della legittimità della
stipulazione di un contratto a termine, non aveva fornito in primo
grado la prova del rispetto della clausola di contingentamento e le
“tardive, generiche, successive deduzioni”

non valevano ad

assolvere l’onere probatorio.

2.2 La seconda delle suddette ragioni è stata censurata con il terzo
mezzo, sotto plurimi profili.
Assume anzitutto la ricorrente la violazione dei criteri di ripartizione
dell’onere della prova, dovendo la stessa far carico sul lavoratore
che abbia eccepito la nullità della clausola appositiva del termine; in

ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul

deve invece ritenersi che la prova al riguardo grava sulla parte
datoriale, in base alla regola esplicitata dall’art. 3 legge n. 230/62,
secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva
esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un
termine al contratto di lavoro (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 839/2010;
13536/2012; 20398/2012; 3102/2013); risulta così superato il
contrario orientamento espresso da Cass., n. 17674/2002,
richiamata dalla ricorrente.
Deduce ancora la ricorrente che la Corte territoriale, ove avesse
ritenuto insufficiente la documentazione prodotta dalla datrice di
lavoro, avrebbe dovuto disporre una CTU, avvalendosi dei poteri
istruttori officiosi di cui agli artt. 421 e 437 cpc; anche tale profilo di
doglianza non può essere accolto, posto che il potere dovere del
giudice di cui agli artt. 421 e 437 cpc presuppone l’esistenza di piste
probatorie non sufficienti a fornire compiuta dimostrazione
dell’assunto che si vorrebbe provare, ossia, in altri termini, è diretto a
vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie ritualmente
acquisite agli atti del giudizio (cfr, ex plurimis e fra le più recenti,
Cass., n. 18924/2012), e non già quando la circostanza rilevante ai
fini del decidere sia risultata sfornita di prova; né, comunque, la

linea con la più recente e condivisa giurisprudenza di questa Corte,

sollecitata all’esercizio dei propri poteri istruttori officiosi (cfr, Cass.,
n. 14731/2006).
Infine la ricorrente assume di avere dimostrato, con la produzione
dei prospetti allegati alla memoria di primo grado, il rispetto della
percentuale; tale doglianza è tuttavia inammissibile per violazione del
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo
stato ivi riportato il contenuto di tali prospetti, dei quali, pertanto, non
è dato comprendere la valenza probatoria e la decisività.
Nei distinti profili in cui si articola, il mezzo all’esame non può
dunque essere accolto.
2.3 Ciò determina l’inammissibilità del secondo mezzo, con il quale è
stata censurata la prima delle suddette ragioni del decidere, in
applicazione del principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta
da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali
giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione
adottata, il rigetto delle doglianze relative ad una di tali ragioni rende
inammissibile, per difetto di interesse, l’esame relativo alle altre, pure
se tutte tempestivamente sollevate, in quanto il ricorrente non ha più
ragione di avanzare censure che investano un’ulteriore

ratio

decidendi, giacché pur se esse fossero fondate, non potrebbero

ricorrente indica se e in che termini la Corte territoriale sarebbe stata

plurimis,

ex

Cass., nn. 12976/2001; 18240/2004; 13956/2005;

20454/2005; 2272/2007).
3. La Corte territoriale, in ordine alle conseguenze risarcitorie, ha

ritenuto:
a) in applicazione della nuova normativa intervenuta al riguardo,
doveva ritenersi “equo commisurare il risarcimento alla misura
media, di otto mensilità, nella assenza di deduzioni specifiche che
giustifichino una liquidazione superiore o inferiore”;

b) doveva ritenersi infondata la tesi secondo cui avrebbe dovuto
applicarsi il limite delle sei mensilità, posto dal comma sesto dell’art.
32 della legge 183 del 2010, per la preesistenza di accordi di
stabilizzazione, da considerare rilevante pur non avendo avuto
“l’appellantelrectius: “l’appellata”] la possibilità di aderirvi, poiché

una tale interpretazione non sarebbe stata conforme al canone
costituzionale della uguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione, in
quanto, irragionevolmente, e senza giustificazione alcuna, sarebbero
venute ad essere trattate, in modo uguale, situazioni differenti, quali
la condizione dei lavoratori che ancora in condizione di optare per la
stabilizzazione e la condizione di quelli che una tale opzione non
potevano più esercitare; doveva infatti aversi riguardo all’attualità ed

produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (cfr,

alla possibilità di una eventuale opzione, dal cui mancato esercizio si
sarebbe potuto desumere un minore interesse alla sollecita
definizione della vertenza e alla costituzione di un rapporto stabile,
mentre nessuna presunzione in tal senso avrebbe potuto desumersi
dalla mancata adesione in passato ad un percorso di stabilizzazione.
Entrambe tali considerazioni sono state censurate con il quarto
mezzo.
3.1 In ordine alla concreta quantificazione effettuata la ricorrente
deduce il vizio di motivazione, non essendo stata effettuata una
concreta ed espressa analisi dei criteri indicati dall’art. 8 legge n.
604/66, richiamati dall’art. 32, comma 5, legge n. 183/10, e in
particolare della concreta anzianità di servizio della prestatrice di
lavoro (soli quattro mesi) e del comportamento delle parti (fra cui la
prolungata inerzia della lavoratrice).
Osserva il Collegio che la motivazione addotta dalla Corte territoriale
contiene l’esplicito riconoscimento della ritenuta assenza di elementi
di giudizio tali da orientare la liquidazione in senso più prossimo al
limite inferiore ovvero a quello superiore contemplato dalla norma;
non può dunque condividersi la dedotta mancata considerazione dei
criteri rilevanti ai fini del decidere, risolvendosi invece la censura

/t

nella prospettazione dell’esistenza di elementi di giudizio che
avrebbero dovuto orientare diversamente la decisione sul punto.
Ma una tale valutazione non è consentita in sede di legittimità,
poiché, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la
deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione
non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il
merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la
sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e
della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal
giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in
parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una
nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle
emergenze probatorie.
Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della
omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi
sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito,
siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di
punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili
d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le
argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire
l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della

/(

Ì

possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze
processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr,
ex

plurimis,

4842/2006;

Cass.,

nn.

8718/2005;

824/2011;

13783/2006;

11034/2006;

15693/2004;

2357/2004;

12467/2003;

16063/2003; 3163/2002).
3.2 In ordine alla ritenuta inapplicabilità della disposizione di cui al
comma sesto dell’art. 32 legge n. 183/10 (in base al quale “In
presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o
aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione,
anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto
a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo
dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà”), la ricorrente

deduce l’irrilevanza del fatto che il singolo lavoratore non abbia
usufruito concretamente della possibilità conciliativa, posto che “sin
dal 2006” la Società aveva sottoscritto con le 00.SS. “gli accordi
volti alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro convertiti a seguito di
provvedimenti giudiziali” e che al momento dell’entrata in vigore della

legge n. 183/10 (e fino al 31.12.2010) tali accordi erano ancora in
vigore; ad avviso della ricorrente, benché nel caso di specie non

decisione, cosicché le censure concernenti i vizi di motivazione non

impugnata, l’adesione agli accordi di stabilizzazione, la norma
contemplante la riduzione dell’indennità doveva ritenersi applicabile
per il fatto oggettivo dell’adozione dei ridetti accordi, a prescindere
dalla estensibilità o meno degli stessi alla lavoratrice; aggiunge poi la
ricorrente che, in data 18.5.2012 la Società aveva sottoscritto con le
00.SS. nuovi accordi nazionali.
Premesso che tali ultimi accordi sono irrilevanti ai fini del decidere,
siccome intervenuti dopo la pronuncia impugnata e che la loro
produzione in sede di legittimità è inammissibile, stante il divieto di
cui all’art. 372 cpc, non concernendo la nullità della sentenza
gravata, né l’ammissibilità del ricorso, deve rilevarsi che la ricorrente
fonda la propria censura sull’esistenza di pregressi accordi
(asseritamente conclusi fin dal 2006); ne consegue che, a mente
dell’art. 366, n. 6, cpc, avrebbe dovuto fornire specifica indicazione di
tali accordi collettivi e, in base all’art. 369, comma 4, cpc, avrebbe
dovuto depositarli in una con il ricorso o, se eventualmente presenti
nel dimesso fascicolo di parte, fornire le necessarie precisazioni per
il loro reperimento (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 22726/2011); la
ricorrente non ha tuttavia ottemperato a tali oneri, poiché i suddetti
accordi sono stati soltanto richiamati in termini di assoluta genericità,

fosse risultato possibile, alla data di emissione della sentenza

reperibilità nel fascicolo di parte e non risultano essere stati prodotti
in una con il ricorso.
Dal che discende l’improcedibilità della censura all’esame.
3.3Anche il quarto motivo, nei distinti profili in cui si articola, non è
pertanto accoglibile.
4. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del
ricorso (1° marzo 2013), sussistono i presupposti di cui all’art. 13,
comma 1 quater, dpr n. 115/02.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle
spese, che liquida in euro 3.600,00 (tremilaseicento), di cui euro
3.500,00 (tremilacinquecento) per compenso, oltre accessori come
per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13,
comma 1 quater, dpr n. 115/02, introdotto dall’art. 1, comma 17,
legge n. 228/12.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2013.

non è stata fornita alcuna indicazione circa la loro eventuale

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