Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30277 del 30/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 30/12/2011, (ud. 15/12/2011, dep. 30/12/2011), n.30277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C’ERA UNA VOLTA DI NATALI PAOLA & C SNC (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA,

LARGO GEROLAMO BELLONI 4, presso lo studio dell’avvocato PIOLI

ALESSANDRO, rappresentata e difesa dagli avvocati CONDOLEO ROCCO

BRUNO, MAURO MASI per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE di VITERBO (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 22, presso lo studio

dell’avvocato BRENCIAGLIA ENRICO, rappresentato e difeso

dall’avvocato COSTA CESARE per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

G.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1965/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, del

5/5/2010 depositata il 18/05/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/12/2011 dal Consigliere Relatore Dott. MAURIZIO MASSERA;

udito il P.M. in persona del Dott. RUSSO Rosario Giovanni.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, Letti gli atti depositati, osserva:

E’ stata depositata la seguente relazione:

1 – Il fatto che ha originato la controversia è il seguente: il Comune di Viterbo convenne in giudizio C’Era Una Volta di Natali Paola & C. S.n.c. e G.A. chiedendo che fosse accertato che la società occupava senza titolo un immobile e che, quindi, fosse condannata a rilasciarlo e a risarcire il danno; la società intimata chiese, in via riconvenzionale, la condanna del Comune al pagamento delle spese di ristrutturazione, manutenzione e migliorie all’immobile.

Con sentenza depositata in data 18 maggio 2010 la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, ha dichiarato la società occupante senza titolo dell’immobile e l’ha condannata al rilascio immediato.

2 – Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c..

3. – Il primo motivo denuncia nullità della sentenza e vizio di motivazione in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Le argomentazioni poste a sostegno della censura non giustificano il riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

Sostanzialmente si assume che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che la fattispecie possa essere assimilata al contratto concluso per facta concludenti a, mentre si tratta di ordinario contratto stipulato in forma scritta, come dimostrano documenti allegati al fascicolo di primo grado. In relazione ad essi, però, la ricorrente non ha rispettato il disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Infatti è orientamento costante (confronta, tra le altre, le recenti Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. Sez. 3^ n. 22302 del 2008) che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile. In ogni caso la censura richiede alla Corte di esaminare risultanze processuali e valutarne il significato e la rilevanza ai fini della decisione, attività pacificamente riservate al giudice di merito.

Il secondo motivo adduce violazione e falsa applicazione del R.D. 18 novembre 1923, n. 2240, art. 17 richiamato dal R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 87. Si assume che la sentenza impugnata avrebbe male interpretato la norma indicata ritenendo che il contratto non solo necessitasse della forma scritta ma che occorresse anche l’unicità del testo documentale. La censura implica – comunque – esame delle risultanze processuali e apprezzamenti di merito al fine di stabilire se vi fosse stata effettivamente una conclusione del contratto in base ad atti e scritti successivi. Ma, soprattutto, la ricorrente non ha dimostrato (vedi l’art. 360-bis c.p.c., n. 1) che la sentenza impugnata abbia deciso la questione di diritto in modo difforme dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, invece, la Corte d’appello ha esplicitamente richiamato. Infatti neppure i precedenti riferiti dalla ricorrente giovano alla sua tesi. Ad esempio, essa fa leva sulla sentenza n. 7297 del 2009, ma questa ha stabilito che i contratti conclusi dalla P.A., richiedendo la forma scritta “ad substantiam” (quindi con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi), devono essere consacrati in un unico documento – nel quale siano indicate le clausole disciplinanti il rapporto e la volontà della Amministrazione sia manifestata dall’organo rappresentativo dell’ente – salvo che la legge non autorizzi espressamente la conclusione a distanza, a mezzo di corrispondenza, come nell’ipotesi eccezionale, prevista dal R.D. n. 2240 del 1923, art. 17 di contratti conclusi con ditte commerciali; tra tali contratti non rientra quello di appalto di opere pubbliche, per il quale, attesa anche la necessità di accordi specifici e complessi, deve escludersi che il consenso possa formarsi sulla base di scritti successivi atteggiantisi come proposta e accettazione fra assenti. Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1326 e 1327 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Ciò in quanto la sentenza non avrebbe dato adeguata risposta alle specifiche eccezioni e difese sollevate dalla parte ora ricorrente circa la stipulazione del contratto di locazione nelle forme di legge.

La censura replica, sotto diverso profilo, le precedenti. Ma, avuto riguardo alla violazione e falsa applicazione (che non vengono specificate come se fossero sinonimi) di norme di diritto, è sufficiente rilevare che le argomentazioni della ricorrente trovano ostacolo nell’art. 360-bis c.p.c., n. 1 poichè non viene dimostrato che la sentenza impugnata abbia deciso le questioni di diritto difformemente dall’insegnamento della Corte regolatrice. Avuto riguardo al vizio di motivazione, al di là della non condivisione da parte della ricorrente del suo contenuto decisorio, le argomentazioni addotte non dimostrano che la sentenza impugnata abbia omesso di rendere esplicita la propria ratio decidendi, nè evidenziano intrinseche contraddizioni risultanti dal suo testo.

4.- La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;

Il resistente ha presentato memoria adesiva alla relazione; nessuna delle parti ha chiesto d’essere ascoltata in camera di consiglio;

5.- Ritenuto:

che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione; che il ricorso deve perciò essere rigettato essendo manifestamente infondato; le spese seguono la soccombenza;

visti gli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 2.000,00, di cui Euro 1800,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile – 3, il 15 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011

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