Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3027 del 11/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 3027 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

SENTENZA
sul ricorso 4829-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente

2013
3370

contro

VALORI GIOACCHINO C.F. VLRGCH69L04A462A, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA ITALO CARLO FALBO 22, presso
lo studio dell’avvocato COLUCCI ANGELO,

che lo

Data pubblicazione: 11/02/2014

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO
MONALDI, giusta delega in atti;
– controricorrente –

– avverso la sentenza definitiva n. 255/2012 della
CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 02/03/2012

– avverso la sentenza non definitiva n. 750/2011 della
CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 06/10/2011
R.G.N. 1200/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/11/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO
BALESTRIERI;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega PESSI
ROBERTO;
udito l’Avvocato COLUCCI ANGELO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA ) che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

R.G.N. 1200/2007;

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Ancona dichiarava la nullità della clausola
appositiva del termine al contratto di lavoro stipulato tra
Gioacchino Valori e la società Poste Italiane in data 10 giugno
1999 per esigenze eccezionali ex art. 8 del c.c.n.l. 1994 e
successivi accordi sindacali; l’esistenza tra le parti di un rapporto

condannando la società Poste al pagamento delle retribuzioni
dalla costituzione in mora (2.5.05).
La Corte d’appello di Ancona, con sentenze non definitiva
depositata il 6.10.11, e definitiva depositata il 2.3.12, accoglieva
parzialmente il gravame proposto dalla società Poste,
condannando quest’ultima al pagamento, a titolo risarcitorio, di
otto mensilità della retribuzione mensile, ex art. 32 L.n. 183 \ 10,
con rivalutazione monetaria ed interessi.
Quest’ultima propone ricorso per cassazione, notificato il 12
febbraio 2013, affidato a quattro motivi, poi illustrato con
memoria.
Resiste il Valori con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società Poste denuncia la violazione
dell’art. 1372, comma 1 e 2, c.c., nonché omessa o insufficiente
motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Si duole in sostanza la società della mancata valutazione
dell’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso,
valutato l’apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione del
rapporto e la manifestazione di una volontà oppositoria da parte
del lavoratore.
Il motivo è infondato.
Secondo il pacifico orientamento di questa Corte (cfr. da ultimo
Cass. 11 marzo 2011 n. 5887) ai fini della configurabilità della
risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso
3

di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data,

(costituente una eccezione in senso stretto, Cass. 7 maggio 2009
n. 10526, il cui onere della prova grava evidentemente
sull’eccepiente, Cass. rfebbraio 2010 n. 2279), non è di per sé
sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del
licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio dei suoi diritti,
essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre

delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo (Cass. 15 novembre 2010 n. 23057).
Nessuna di tali indicazioni è fornita, con sufficiente grado di
specificità, dalla ricorrente Poste.
2.

Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia

violazione e falsa applicazione dell’art. 23 L. n. 56 del 1987; degli
artt. 1362 e seguenti c.c. nonché omessa ed insufficiente
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio,
lamentando che la Corte di merito, in contrasto con le norme
richiamate, non considerò adeguatamente che con la delega
contenuta nel citato art. 23, le parti sociali erano libere di
individuare nuove e diverse ipotesi di assunzione a tempo
determinato, senza altri limiti se non quello dell’osservanza di un
limite percentuale dei lavoratori da assumere, sicché le
pattuizioni collettive erano sottratte dal sindacato giurisdizionale,
e segnatamente in ordine all’esistenza di un nesso causale tra le
ragioni di assunzione e la singola stipula del contratto a tempo
determinato.

can4;41tuntrgo
Lamenta inoltre che i giudici di merito non ElyeTuro
adeguatamente rònsiderato che nessun limite temporale, sino
all’entrata in vigore del d.lgs n. 368 del 2001, poteva essere
imposto alle pattuizioni sindacali delegate.
3. Il motivo è infondato.
L’assunto risulta assolutamente rispettoso dell’autonomia
negoziale collettiva, che, delegata alla individuazione di nuove
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significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà

ipotesi di assunzione a tempo determinato, è parimenti libera di
stabilire una loro scadenza temporale.
Come efficacemente chiarito da Cass. 9 aprile 2008 n. 9259 e
quindi da Cass. 28 ottobre 2010 n. 22015, l’art. 23 della legge n.
56 del 1987, nel consentire alla contrattazione collettiva di
individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge n.

temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo
determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua
inosservanza determina la illegittimità del termine apposto.
Nella specie la limitata efficacia temporale degli accordi
intervenuti all’interno della società Poste risulta rispettosa
dell’autonomia negoziale collettiva ed in linea col consolidato
orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006
n.13458, Cass.20 gennaio 2006 n.1074, Cass.3 febbraio 2006
n.2345, Cass. 2 marzo 2006 n.4603), secondo cui dall’esame dei
vari accordi in materia si evince che le parti sociali autorizzarono
la stipula di contratti a tempo determinato per le causali di cui
all’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, sino al 30 aprile 1998.
Da ciò consegue l’assorbimento della censura inerente la prova,
in tesi non dovuta, del nesso causale tra le esigenze individuate
dai contraenti collettivi e la singola assunzione.
3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 32 L. n. 183\ 10 e dell’art. 8 L. n. 604 \ 66.
Lamenta in particolare che il comma 6 del menzionato art.32
stabilisce che “In presenza di contratti ovvero accordi collettivi

nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale,

che prevedano l’assunzione, anche a tempo

indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine
nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo

5

230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti

dell’indennità fissata dal comma 5 (dodici mesi) è ridotto alla
metà”.
Si duole che la Corte di merito ne abbia escluso l’applicazione,
per l’assenza di tali accordi di stabilizzazione e comunque per la
violazione dei criteri di cui all’art. 8 L.n. 604\66.
Il motivo è infondato.

sindacali di cui al citato comma 6, da valutarsi al momento del
licenziamento e non già con riferimento ad altri successivi
accordi la cui applicabilità anche alla lavoratrice non risulta
peraltro neppure dedotta, ha correttamente escluso l’applicabilità
della riduzione della metà del limite massimo dell’indennità. Ed
invero quel che rileva non è la circostanza che la società Poste
abbia, in assoluto, stipulato accordi di stabilizzazione, quanto la
loro effettiva esistenza ed applicabilità al lavoratore al momento
della cessazione del rapporto, la cui possibilità di aderirvi deve
ritenersi il presupposto per la riduzione della misura
dell’indennità di cui al comma 6 del citato art. 32.
Quanto alla concreta misura di essa, la Corte di merito ha
evidenziato che, per un contratto dichiarato illegittimo a distanza
di diversi anni dalla sua conclusione con impresa avente le
dimensioni della società Poste italiane, in assenza di altri
elementi, risultava corretta quella di otto mesi, peraltro
sensibilmente inferiore al massimo e non distante dalla
medesima misura di 6 mensilità. invocata dalla società oggi
ricorrente. Trattasi di valutazione di fatto, rimessa al prudente
apprezzamento del giudice di merito, (al pari di quanto più volte
affermato da questa Corte con riguardo all’indennità di cui all’art.
8 della legge n. 604 del 1966 -cfr. Cass. 5.1.2001 n. 107,
Cass.15.5.2006 n. 11107, Cass. 14.6.2006 n. 13732), non
contrastante coi criteri di cui al menzionato art. 8, ex art. 32 L.
n. 183\10.

Ed invero la sentenza impugnata, valutata l’assenza degli accordi

4.- Con il quarto motivo la società si duole che su tale indennità
sia stata riconosciuta anche la rivalutazione monetaria e gli
interessi legali, laddove essa aveva natura omnicomprensiva e
predeterminata del danno subito.
Itcyvk

Il motivOè fondato.
Come affermato da questa Corte (Cass., n. 3056 del 2012), lo “ius

6 e 7, (applicabile nel giudizio pendente in grado di legittimità
qualora pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per
cassazione) configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice
offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011,
una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha
apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è
liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella,
a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di
lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal
lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde
perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata” e
“onnicomprensiva” per i darmi causati dalla nullità del termine
nel periodo cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza del termine
alla sentenza di conversione).
A ciò deve aggiungersi che tale natura sarebbe irragionevolmente
inficiata laddove, come nella specie, sia trascorso un notevole
lasso di tempo, specie ove esso non sia precisamente
addebitabile ad una delle parti, tra il contratto a termine e la
declaratoria della sua illegittimità, incidendo così sensibilmente
sulla sua entità, in contrasto con la ratio della L. n. 183 \10.
L’art. 1, comma 13, della L. 28 giugno 2012 n. 92 ha poi stabilito
che “La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della
legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che

l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal
lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive
7

4g

superveniens” di cui alla L. n. 183 del 2010, ex art. 32, commi 5,

relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la

pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia
ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
Trattandosi di interpretazione autentica, anche tale norma è
evidentemente retroattiva.
Occorre allora rimarcare che questa Corte ha già affermato (ex

12 dicembre 2007 n. 26078) che le somme spettanti a titolo di
risarcimento danni per la violazione dei molteplici obblighi facenti
carico al datore di lavoro, hanno natura retributiva solo quando
derivino da un inadempimento, il quale, pur non riguardando
direttamente l’obbligazione retributiva, tuttavia immediatamente
incida su di essa in quanto determini la mancata corresponsione
di compensi dovuti al dipendente; viceversa le attribuzioni
patrimoniali che il lavoratore riceve, come nel caso di cui all’art.
32, comma 5, L. n. 183\ 10, a titolo di risarcimento del danno
per la violazione degli altri obblighi del datore, sebbene siano
anch’esse “dipendenti dal rapporto di lavoro” non hanno natura
retributiva, così come tale natura non aveva l’obbligazione
primaria rimasta inadempiuta.
Ne consegue che non spettano né la rivalutazione monetaria né
gli interessi legali sull’indennità stabilità dall’art. 32, comma 5, L.
n. 183\ 10, se non dal momento della pronuncia giudiziaria
dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del
termine al contratto di lavoro subordinato, anche argomentando
dall’art. 1, comma 13, della L. 28 giugno 2012 n. 92.
L’indennità in esame rappresenta infatti il ristoro (seppure
“forfetizzato” e “omnicomprensivo”) dei danni conseguenti alla
nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente
al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della
sentenza di conversione del rapporto.

plurimis, Cass. n. 7987\ 12, Cass. 6 ottobre 1999 n. 11148; Cass.

Dalla

natura,

poi,

di

liquidazione

“forfettaria”

e

“omnicomprensiva” del danno relativo al detto periodo consegue
altresì che gli accessori ex art. 429, terzo comma, c.p.c. sono
dovuti soltanto a decorrere dalla data della detta sentenza, che,
appunto, delimita temporalmente la liquidazione stessa.
Orbene, l’impugnata sentenza, che nulla ha specificato al
dell’appellante nel posto di lavoro e al “risarcimento del danno in
misura pari a otto mensilità della retribuzione mensile di fatto,
con rivalutazione ed interessi legali”, in sostanza ha inteso far
decorrere tali accessori proprio dalla data della pronuncia.
Di alcunché può, quindi, ulteriormente dolersi la ricorrente.
Il ricorso va pertanto respinto integralmente.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come da
dispositivo, debbono distrarsi in favore del difensore del
controricorrente, dichiaratosi anticipante. Deve infine darsi atto
che ricorrono nella specie i presuposti di cui all’art. 13, comma 1
quater, del d.P.R. n.115 del 2002, introdotto dall’art.1, comma
17, della legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento
delle.= del presente giudizio di legittimità, pari ad C.100,00
per (corn • é’tsi ed €.3.500,00 per compensi, da distrarsi in favore
dell’avv.M.Monaldi. Dà atto della sussistenza dei presuposti di
cui all’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002,
introdotto dall’art.1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre
2013

riguardo, condannando la società alla riammissione

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