Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30269 del 22/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 22/11/2018, (ud. 19/09/2018, dep. 22/11/2018), n.30269

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28828/2013 proposto da:

IDEAL BLUE MANIFATTURE SPA, (OMISSIS), in persona del legale rapp.te

p.t. elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO BOER, rappresentata e difesa

dall’avvocato STEFANO COSTANTINI giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dall’avvocato

VINCENZO TRIOLO unitamente agli avvocati VINCENZO STUMPO, ANTONIETTA

CORETTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 621/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 05/08/2013 R.G.N. 500/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/09/2018 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del primo motivo del

ricorso e l’accoglimento dei restanti motivi;

udito l’Avvocato PAOLO BOER per delega verbale rilasciata

dall’Avvocato STEFANO COSTANTINI;

udito l’Avvocato ANTONIETTA CORETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 621/2013, ha accolto l’appello proposto dall’Inps avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro con la quale era stata accolta l’opposizione proposta da Ideal Blue Manifatture s.p.a. avverso la cartella esattoriale notificata su richiesta dell’Istituto per recuperare somme erogate dal Fondo di Garanzia per le ultime tre mensilità retributive ed il t.f.r. ai lavoratori dipendenti dalla società (OMISSIS) s.r.l., dichiarata fallita con sentenza depositata il 14.10.1999 e che aveva avuto concesse in affitto da Blue Manifatture s.p.a. il ramo d’azienda presso cui operavano tali lavoratori.

2) La Corte territoriale ha ritenuto che, anche a voler qualificare come opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., quella proposta dalla Ideal Blue Manifatture s.p.a., doveva comunque ritenersi ammissibile la domanda riconvenzionale proposta dall’Inps avente ad oggetto la richiesta di condanna al pagamento delle stesse somme attraverso un nuovo titolo esecutivo; inoltre, dalle risultanze di causa, emergeva la effettiva sussistenza del motivo illecito sotteso alla conclusione dell’affitto d’azienda, consistente nell’intento di traslare fraudolentemente sulla cessionaria, inevitabilmente destinata al fallimento per le evidenti carenze finanziarie, le passività gravanti sulla cedente relative alla contribuzione previdenziale evasa ed ai crediti di lavoro insoddisfatti. Peraltro, restava travolta dalla nullità del contratto d’affitto anche l’adesione prestata dai lavoratori alla liberazione del debitore originario.

3. Avverso tale sentenza, Ideal Blue Manifatture s.p.a. ricorre per cassazione sulla base di sostanziali sei motivi illustrati da memoria. Resiste l’INPS con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo di ricorso, si deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, in relazione agli artt. 645,414 e 416 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata ha ritenuto ammissibile la proposizione della domanda riconvenzionale che tendeva a mutare il titolo della pretesa.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 112,113 e 116 c.p.c. e dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per avere la sentenza impugnata dichiarato la nullità dell’affitto d’azienda senza che l’Inps ne avesse fatto domanda.

3. Il terzo motivo ha per oggetto la violazione e o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e la falsa applicazione dell’art. 1345 c.c., posto che la sentenza impugnata sarebbe giunta ad affermare la nullità dell’affitto del ramo aziendale solo per via della utilizzazione di elementi di giudizio tratti dalla sentenza del GUP di Urbino n. 39 del 2006, a sua volta, fondata solo su valutazioni dello stesso giudice e non su fatti concreti. In senso opposto, invece, avrebbero deposto i documenti allegati in primo grado che la ricorrente elenca riportandone i contenuti ritenuti rilevanti.

4. Il quinto motivo attiene alla violazione della L. n. 297 del 1982, art. 2, in relazione all’art. 2112 c.c., posto che attraverso tali disposizioni si realizzava una forma di accollo cumulativo ex lege nei confronti del datore di lavoro insolvente e non del cedente. Quanto al vizio di motivazione, pure dedotto, la ricorrente lamenta la mancata considerazione della circostanza che la società ricorrente al più poteva essere obbligata al pagamento delle quote di t.f.r. maturate sino alla cessione del ramo d’azienda e non al pagamento delle quote successive e delle ultime retribuzioni, anche alla luce delle rinunzie ai propri crediti effettuate dai lavoratori in favore della stessa società ricorrente.

3. Il sesto motivo ha riguardo alla violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione alla condanna alle spese di primo e secondo grado che la ricorrente ritiene ingiuste, posto che era stata vittoriosa in relazione alla unica domanda introdotta con il giudizio di opposizione a cartella fondato sulla nullità della stessa.

7) Il primo motivo è infondato. Questa Corte di legittimità ha, ormai da tempo, delineato la struttura processuale dell’opposizione a cartella ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, assimilandola al tipo previsto dal codice di rito per regolare l’opposizione a decreto ingiuntivo ed ha consolidato il principio secondo cui in tema di riscossione di contributi e premi assicurativi, il giudice dell’opposizione alla cartella esattoriale che ritenga illegittima l’iscrizione a ruolo ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 3, non può limitarsi a dichiarare tale illegittimità, ma deve esaminare nel merito la fondatezza della domanda di pagamento dell’istituto previdenziale, valendo gli stessi principi che governano l’opposizione a decreto ingiuntivo (in tal senso Cass. n. 14149 del 06/08/2012, conforme Cass. n. 774 del 19/01/2015).

7.1. Una volta introdotto, dunque, un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il rapporto previdenziale, anche in ipotesi di illegittima iscrizione a ruolo dei crediti, l’INPS, pur non potendo più avvalersi del suddetto titolo esecutivo, può chiedere – come nel caso di specie – la condanna al corrispondente adempimento nel medesimo giudizio, senza che ne risulti mutata la domanda (Cass. n. 3486 del 2016) e senza necessità di proporre quindi domanda riconvenzionale; ciò in quanto (v. Cass. n. 13982 del 2007), la cartella esattoriale costituisce non un atto amministrativo, ma un atto della procedura di riscossione del credito (i cui motivi sono già stati indicati e la cui liquidazione è già stata effettuata nei verbali di accertamento redatti dagli ispettori e notificati alle parti) per cui se all’esito del giudizio di opposizione il credito viene accertato in termini diversi da quelli azionati dall’istituto, il giudice deve non già accogliere sic et simpliciter l’opposizione, ma condannare l’opponente a pagare la somma accertata nel corso del giudizio di merito.

7.2. Da tali considerazioni discende che, poichè nel caso di specie l’Istituto, come indicato dalla stessa ricorrente alle pagine 1 e 2 del ricorso, attraverso l’erronea proposizione di domanda riconvenzionale, ha semplicemente insistito per ottenere la condanna della parte opponente al pagamento delle somme già indicate in cartella, attraverso il “dettaglio degli addebiti”, con riferimento al verbale ispettivo redatto il 17.6.2009 ed alla richiesta di restituzione di quanto erogato dal Fondo di garanzia e per il medesimo titolo, non può applicarsi il principio – relativo alla diversa ipotesi in cui l’opposto richieda di ampliare il contenuto della pretesa portata dal decreto ingiuntivo mediante domanda riconvenzionale – secondo cui l’opposto non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio rivestendo la posizione sostanziale di attore e salvo il caso della cosiddetta reconventio reconventionis.

8. Il secondo motivo è infondato. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la validità del negozio traslativo dell’impresa in quanto le difese dell’INPS ne avevano denunciato il carattere “truffaldino” (pag. 17 del ricorso per cassazione che riporta il testo della memoria di costituzione di primo grado dell’Istituto). Dunque, tale aspetto apparteneva certamente al tema del giudizio con la conseguenza che il giudice non ha in alcun modo violato le disposizioni di rito denunciate, dal momento che questa Corte di legittimità (Cass. 05/12/2017 n. 29098) ha affermato che l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, ha lo scopo di evitare le decisioni c.d. “a sorpresa” o “della terza via” e tale obbligo, pertanto, vale solo per le questioni che il giudice rilevi effettivamente d’ufficio per non essere state dedotte dalle parti e non vale, invece, per le questioni che – pur rilevabili d’ufficio – siano state introdotte dalle parti sotto forma di eccezione c.d. “in senso lato”, in quanto tali questioni fanno già parte del “thema decidendum”.

9. I motivi terzo, quarto e quinto vanno trattati congiuntamente in quanto tutti connessi dalla critica all’uso dei poteri di accertamento e di giudizio esercitati dalla Corte territoriale in relazione alla individuazione del carattere sostanzialmente illecito e fraudolento del contratto di trasferimento d’azienda sulla cui base si è attivato il procedimento che ha condotto alla declaratoria di fallimento della società cessionaria.

10. Essi sono infondati. Per costante orientamento di questa Corte di legittimità, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (da ultimo Cass. 26 settembre 2018, n. 22996).

11. E’ poi pacifico che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile semmai nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e non nel n. 3 come prospettato in ricorso, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei soli limiti ora consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Cass., 12 ottobre 2017, n. 23940).

12. Nel caso di specie si critica la sentenza impugnata laddove la stessa ha accertato il motivo illecito del negozio traslativo, ravvisato nell’unico fine delle parti di traslare le passività della cedente sul Fondo di garanzia gestito dall’Inps, ricavandolo dagli elementi complessivamente acquisiti al processo consistenti nella valutazione della concreta efficacia del contratto d’affitto d’azienda in ordine al successivo fallimento della cedente, alla luce dei dati contabili acquisiti dalla relazione presentata dal curatore del fallimento ai sensi della L. Fall., art. 33 e dalle ulteriori valutazioni tratte dalla consulenza tecnica disposta dal P.M. in seno al procedimento che condusse alla sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Urbino che aveva accertato la responsabilità penale degli amministratori delle due società protagoniste della cessione a titolo di bancarotta fraudolenta, poi superata dalla successiva pronuncia di proscioglimento per prescrizione.

13. La Corte, dunque, ha analizzato la situazione finanziaria ed economica delle società interessate e dell’entità dei costi collegati al personale, l’ha confrontata con le risorse disponibili dalla cessionaria e con le oggettive condizioni negative del mercato, del tutto prevedibili, ed ha concluso nel senso che l’unica ragione che poteva giustificare il negozio traslativo doveva ravvisarsi nella scopo di far gravare sul Fondo di garanzia le passività predette.

14. Si tratta, all’evidenza, di tipico accertamento di merito relativo ai fatti rilevanti per delineare un negozio nullo perchè fondato su motivo illecito comune ad entrambe le parti (art. 1345 c.c.), sul quale il vaglio di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione va condotto, essendo la sentenza stata pubblicata il 5 agosto 2013, secondo l’attuale testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il quale richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (da ultimo Cass. 13 agosto 2018, n. 20721., SS.UU. n. 8053 del 2014).

15. Il quinto motivo è pure infondato. Si pretende di trarre un errore di diritto, consistente nella violazione della L. n. 297 del 1982, art. 2 e dell’art. 2112 c.c., nonchè correlato vizio di motivazione, dalla considerazione che la Corte territoriale non ha fatto applicazione del meccanismo di funzionamento dell’art. 2112 c.c. e della L. n. 297 del 1982, art. 2, secondo il quale – una volta realizzata la cessione dell’azienda – il cedente perde la qualità di datore di lavoro onerato del pagamento dell’intero t.f.r. maturato dai dipendenti (restando debitore solidale della sola quota maturata sino alla cessione), ed essendo quindi estraneo all’eventuale azione di surroga nei diritti dei lavoratori licenziati, riconosciuta all’Inps quale gestore del Fondo di garanzia nei confronti del datore di lavoro fallito.

16. Il motivo, in realtà, non si confronta con la sentenza impugnata che ha seguito un percorso logico del tutto alternativo alle ragioni dedotte nel motivo in esame. In particolare, la sentenza impugnata ha accertato la radicale nullità del contratto di affitto d’azienda in quanto l’unico motivo comune ai contraenti doveva ritenersi illecito per contrasto con l’imperatività delle norme che disciplinano l’intervento del Fondo di garanzia gestito dall’Inps ex L. n. 297 del 1982; da ciò ha fatto discendere la conseguenza che mai si siano verificati gli effetti del medesimo negozio e, soprattutto, la effettiva successione nei singoli rapporti di lavoro della (OMISSIS) s.r.l. alla odierna ricorrente.

17. Il difetto di effettività giuridica della vicenda traslativa, dunque, secondo la sentenza impugnata, determina pure la concreta inconfigurabilità dell’ esercizio dell’ azione surrogatoria da parte dell’Inps, posto che tale azione non può che fondarsi sull’effettivo e legittimo operare della tutela assicurativa fornita dal Fondo di garanzia. Dalla nullità del contratto d’affitto d’azienda, invero, la Corte d’appello di Ancona ha fatto discendere l’effetto della carenza di presupposti per l’intervento del Fondo di garanzia contro l’insolvenza del datore di lavoro.

18. A fronte di tale percorso logico, il motivo si limita a prospettare la possibile ricostruzione dell’esercizio dell’azione surrogatoria da parte dell’Inps il cui esercizio è stato invece negato dalla sentenza impugnata. Esso non sviluppa, neanche implicitamente, il diverso tema, richiamato anche dalla Procura Generale nelle proprie conclusioni ma sul quale non è possibile qui esprimersi in difetto di motivo idoneo, degli effetti esterni all’ambito dei contraenti del contratto dichiarato nullo per motivo illecito (art. 1345 c.c.) o perchè in frode alla legge (art. 1344 c.c.), di cui al precedente di questa Corte n. 10108 del 2006.

19. Peraltro, tale precedente, aveva ad oggetto l’ipotesi di illiceità del motivo del negozio traslativo riferita ad un mero interesse dei lavoratori a non vedere modificato il titolare degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro che non ricorre nel caso di specie.

20. In particolare, va condivisa la premessa di cui al citato precedente, secondo cui “(…) la nozione di illiceità cui fa riferimento l’art. 1345 c.c., è quella stessa delineata dagli artt. 1343 e 1344, ai fini dell’illiceità della causa, per cui il motivo è illecito, e – se comune alle parti e decisivo per la stipulazione – determina la nullità del contratto, quando consiste in una finalità vietata dall’ordinamento, perchè contraria a norma imperativa o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero perchè diretta ad eludere, mediante la stipulazione del contratto (di per sè lecito), una norma imperativa”, tale premessa, tuttavia, va rapportata alla finalità perseguita nel caso di specie che non è quella di utilizzare il negozio traslativo solo al fine di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti ma quella di precostituire, arbitrariamente, le condizioni per l’intervento del Fondo di garanzia.

21. La giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. 23 luglio 2012 n. 12852 ed anche nn. 10875, 20675 del 2013; 12971 del 2014) ha operato un inquadramento sistematico della disciplina del Fondo di garanzia che, attraverso il riconoscimento di una finalità esclusivamente assicurativa e previdenziale funzionale alla pienezza di protezione dei lavoratori dal rischio dell’insolvenza del proprio datore di lavoro, ha svincolato l’operatività del meccanismo di garanzia dal legame con i presupposti concreti delle obbligazioni retributive rimaste inadempiute a causa dell’insolvenza che, dunque, diventano l’oggetto della diversa ed autonoma prestazione previdenziale che risponde ad una finalità che lo Stato deve obbligatoriamente perseguire.

22. La normativa in esame costituisce applicazione, tardiva e travagliata secondo la dottrina, nel diritto dello Stato italiano di quanto fu stabilito dalla Direttiva CE n. 987 del 1980, che concerne il ravvicinamento delle legislazioni degli Stato membri relativamente alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Tale direttiva ha voluto garantire ai lavoratori subordinati una tutela minima in caso di insolvenza del datore di lavoro. A tale scopo la direttiva ha delineato un meccanismo di tutela basato sulla creazione di specifici organismi di garanzia, che si sostituiscono al datore di lavoro per il pagamento di taluni crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza di quest’ultimo. In attuazione di detta direttiva, lo Stato italiano ha adottato due testi normativi, la L. 29 maggio 1982, n. 297, che ha istituito all’art. 2, il fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, ed il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, recante l’attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, con il quale la garanzia è stata estesa anche alle ultime retribuzioni (artt. 1 e 2). I diritti di cui l’organismo di garanzia si fa carico sono le retribuzioni non pagate corrispondenti a un periodo che si colloca prima e/o eventualmente dopo una data determinata dagli Stati membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha costantemente affermato che la direttiva 80/987 persegue un fine sociale che consiste nel garantire una tutela minima a tutti i lavoratori subordinati a livello dell’Unione in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante il pagamento dei crediti non pagati derivanti da contratti o da rapporti di lavoro e vertenti sulla retribuzione relativa ad un periodo determinato (v., in particolare, sentenze Maso e a., C-373/95, EU:C:1997:353, punto 56; Walcher, C-201/01, EU:C:2003:450, punto 38, nonchè Timer, C-311/13, EU:C:2014:2337, punto 42).

23. Esiste, dunque, un fine sociale che sorregge la ratio dell’intervento del Fondo e ne circoscrive l’ambito della tutela mediante il riferimento “a crediti non pagati relativi ad un periodo determinato”, con ciò fissandosi la nozione di “bisogno socialmente rilevante”.

24. E’, dunque, evidente il carattere imperativo della normativa che si intendeva piegare ed aggirare attraverso il negozio traslativo che, per tale ragione, è stato qualificato come dettato da esclusivo motivo illecito.

25. Il sesto motivo è pure infondato giacchè la Corte d’appello, nell’accogliere – seppure parzialmente l’appello dell’Inps – ha fatto applicazione della regola della soccombenza, fissata dall’art. 91 c.p.c., operando corretto riferimento al complessivo esito del giudizio. Infatti, costituisce condiviso orientamento di questa Corte di legittimità, il principio secondo cui il giudice d’appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c.” la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (Cass. 22 dicembre 2009 n. 26895; Cass. n. 1775 del 2017).

26. Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Ricorrono le condizioni, da ravvisare nell’esito del giudizio, perchè il ricorrente versi l’ulteriore importo previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 12000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 11 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2018

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